Clausola di retroattività nel Correttivo alla Riforma Cartabia? Riflessioni sull’esatta interpretazione dell’art. 7, comma 1, d.lgs. 31 ottobre 2024, n. 164.

Di Pier Girolamo Attanasio -

1.Posizione del problema. – Le innovazioni normative non sono solo di per sé da evitare a causa degli “scossoni” che inevitabilmente creano in un quadro al cui interno – bene o male – si era già consolidata (o si era iniziata a consolidare) una prassi, ma anche perché l’avvicendarsi sempre più incessante delle novelle moltiplica esponenzialmente la complessità dei conflitti di leggi nel tempo, con grande incertezza dei naviganti, in balia della tempesta[1].

L’art. 7 (rubricato “disposizioni transitorie”) del d.lgs., 31 ottobre 2024, n. 164, recante Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149 (di seguito anche solo “correttivo alla riforma”), prevede che “ove non diversamente previsto, le disposizioni del presente decreto si applicano ai procedimenti introdotti successivamente al 28 febbraio 2023” (comma 1).

Tale riferimento temporale richiama, evidentemente, l’art. 35, comma 1, (rubricato “disciplina transitoria”) d.lgs., 10 ottobre 2022, n. 149 (di seguito, anche solo “riforma Cartabia”), a norma del quale “Le disposizioni del presente decreto, salvo che non sia diversamente disposto, hanno effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data. Ai procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti”.

Il correttivo alla riforma, quindi, va a integrare e correggere norme regolanti procedimenti il cui avvio si colloca nel passato rispetto al correttivo ma nel futuro rispetto alla riforma.

Ci si domanda, allora, se a derogare rispetto alla disciplina generale di cui all’art. 11 disp. prel. c.c., sia l’art. 7, comma 1, del correttivo o, piuttosto, l’art. 35, comma 1, della riforma. Detto altrimenti: è il correttivo a recare una clausola di retroattività delle nuove norme o la riforma a contenere al suo interno una riserva di ultrattività delle norme già abrogate?[2]

Le regole generali sono note a chiunque:

i) “le leggi(…) divengono obbligatori[e] nel decimoquinto giorno successivo a quello della loro pubblicazione, salvo che sia altrimenti disposto” (art. 10 disp. prel. c.c.; art. 73 cost.);

ii) “la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo” (art. 11 disp. prel. c.c.);

iii) la legge posteriore non invalida, bensì “abroga” la legge anteriore (cioè, ne fa cessare puramente e semplicemente il vigore per il futuro, ex art. 15 disp. prel. c.c.);

iv)un caso avvenuto sotto il vigore di una legge abrogata continua a essere disciplinato da quella legge (c.d. principio di ultrattività della legge abrogata); la questione circa la legge applicabile a un certo caso, allora, si pone all’interprete quando risulti che il diritto controverso venne acquistato dal suo titolare anteriormente all’entrata in vigore della novella (si tratterebbe di un c.d. “diritto quesito”, come tale disciplinato dalla lex vetus);

v) il legislatore ha facoltà di sottoporre alla nuova legge la disciplina di casi avvenuti sotto il vigore di quella precedente a condizione che: a) la nuova legge non abbia carattere afflittivo (art. 1 c.p.; art. 25 cost.)[3]; b) ricorrano adeguate e giustificate ragioni per imporre la retroattività della nuova legge al vecchio caso[4]:

vi) quando una norma speciale detti una peculiare disciplina per un caso conteso ratione temporis tra due norme e che, se risolto secondo i principi generali (c.d. diritto intertemporale), condurrebbe a una decisione sostanzialmente ingiusta (o anche solo inopportuna), tale norma costituisce un “diritto terzo”, convenzionalmente nominato “diritto transitorio”[5].

Su questi postulati c’è una pacifica concordia; ma essi – a ben guardare – sono solo un lato dell’argomento: l’enunciazione di tali principi, infatti, riguarda i “piani alti” dell’ordinamento normativo considerato nel suo aspetto “puro” e “astratto”. Per quanto riguarda i “bassifondi”, invece, la nozione di “caso” (tale è il nomen juris dell’entità concettuale rispetto alla quale il problema della composizione del conflitto si pone, quasi che la lex nova e la lex vetus se ne contendano la sussunzione sotto la loro specie)[6] è alquanto incerta.

Solitamente, viene ripetuto che il “caso” di cui parliamo è la fattispecie costitutiva della concreta volontà di legge, idonea a produrre pieni effetti giuridici solo al concorrere di tutti i suoi elementi essenziali (factum praeteritum): giunto all’apice del suo compimento, il factum praeteritum assurge a concetto unitario e attira verso di sé la norma che, dal canto suo – quasi per reazione contrapposta – lo “scalcia” sotto la propria qualificazione deontica, strappandolo dalla matrice informe della vicenda economico – sociale che ne occasionò la nascita.

Se l’applicazione del principio alla realtà pratica è assai intuitiva quando si tratti di fattispecie semplici e istantanee, che si consumano, come si suole dire, “uno actu”, non si può dire lo stesso quando l’innovazione normativa riguardi attività che si inseriscono nel flusso di una serie processuale[7].

Qui si pongono svariati problemi teorici: in quali ipotesi e in che termini le posizioni intermedie o, come si suole dire, “prodromiche” alla produzione dell’effetto finale possono dirsi “acquisite” nello stesso senso in cui si intende che un factum praeteritum abbia condotto all’acquisizione di un certo diritto? Come può la scissione atomistica dei singoli atti della serie, ciascuno considerato nello stretto ambito del suo effetto più prossimo, conciliarsi con l’esigenza “ermeneutica” di concepire l’azione come diritto unitario alla tutela giurisdizionale?[8] Ammesso che ciò sia in qualche modo possibile, quali sono gli elementi della serie che ne caratterizzano i substantialia e quali, invece, quelli puramente accidentali, rispetto alle modificazioni dei quali le condizioni difensive dei contendenti restano neutralmente impregiudicate?

2. Le teorie in campo – Sono almeno tre le teorie intorno all’esatta interpretazione del principio tempus regit actum applicato al processo. Ognuna di esse invoca i più disparati argomenti, letterari, sistematici e teleologici.

Secondo una prima dottrina[9], tempus regit processus: il regolamento della contesa giudiziaria si cristallizzerebbe al tempo della proposizione della domanda, di modo che varranno, per l’intera durata del processo (compresi tutti i successivi gradi di giudizio), le norme legalmente enunciate prima dell’apertura della “sfida”. Questa soluzione sarebbe l’unica a tutelare con pienezza il diritto della parte di agire e difendersi in giudizio, e troverebbe il suo addentellato normativo, oltre che negli artt. 24 e 111 cost., negli artt. 5 e 111 c.p.c., espressivi di un generale principio di perpetuatio normativa a beneficio di tutte le parti interessate.

Tale indirizzo favorirebbe l’interesse del titolare del “diritto in divenire” a non subire fastidi o intralci dalla novità legislative proprio mentre si trovi nel bel mezzo dello scontro forense[10], tradendo una visione di forte pregiudizio e sfiducia rispetto alle potenzialità benefiche di norme che, se non altro, sono ritenute più giuste e opportune dal legislatore.

Secondo una seconda dottrina[11], tempus regit effectum: la norma in base a cui andrebbe valutata la possibilità o meno di postulare un certo effetto processuale sarebbe quella vigente al tempo in cui avvenne la postulazione. È il momento in cui quel certo potere viene “utilizzato” attraverso un atto che formalmente nel processo lo evoca, a determinare la legge in base a cui ammettere o denegare il contenuto di quel potere.

In pratica, in ossequio all’idea della naturale tendenza del processo a pervenire verso il suo atto terminativo, la qualificazione processuale dell’atto avverrebbe sempre un attimo prima, e non oltre, il momento in cui l’atto viene “speso” e “consumato” per conseguire il potere di porre in essere l’ulteriore atto della serie, dando l’impressione di una sorta di “spinta in avanti” del meccanismo sussuntivo nella dinamica del processo (quasi una rilevanza giuridica processualmente “ritardata” del singolo atto, dove “perfezionamento” e “consumazione” vivrebbero nello stesso momento concettuale).

Secondo una terza dottrina[12], infine, tempus regit factum: ogni atto è, senz’altro, istituito e qualificato dalla legge sotto il cui governo l’atto viene a porsi in essere; ogni tentativo di conservare le vecchie norme per i nuovi atti o, viceversa, i vecchi atti per le nuove norme sarebbe solo un tentativo occulto di praticare applicazioni ultrattive o retroattive della legge, in spregio alla chiara lettera dell’art. 11, disp. prel. c.c., che impone, e allo stesso tempo limita, l’applicazione delle nuove norme “per l’avvenire”.

In questo quadro, gioca un ruolo cruciale la distinzione tra diritto intertemporale e diritto transitorio, inteso quest’ultimo come “quell’insieme di prescrizioni dettate di volta in volta dal legislatore per favorire i mutamenti legislativi rispettando la coerenza e l’unità dei giudizi[13]; norme che, talvolta, derogheranno il diritto intertemporale, talaltra, lo confermeranno in situazioni in cui la prassi potrebbe rivelare incertezze.

In questo quadro, allora, il focus andrà posizionato non tanto sul problema dell’individuazione della legge applicabile alla stregua del criterio cronologico quanto, piuttosto – una volta risolto questo tema – sull’idoneità del nuovo modulo procedimentale a innestarsi sulla serie esaurita senza determinare aberrazioni logiche o giuridiche (conflitto tra serie anteriore e serie posteriore)[14].

Così, l’avvicendarsi normativo tra gli “spazi vuoti” esistenti tra i singoli momenti processuali sarebbe sempre possibile a meno che tra l’uno e l’altro non vi sia un rapporto di continuità necessaria che, se non rispettato, romperebbe l’unità del dell’azione sotto l’aspetto della singola facoltà difensiva in esercizio.

E’ da notare, infine, che la seconda e la terza tesi sembrano più due varianti di uno stesso tronco originario (basate più che altro sulla distinzione tra “effetti istantanei” e “effetti permanenti”), e la vera contrapposizione si pone tra queste due tesi e la prima (di cui l’assurdo del tempus regit causam, come si vedrà, ne costituirebbe, a sua volta, la variante estremistica).

3. Pregi e difetti delle singole tesi. – Ciascuna delle tre tesi esposte nel precedente paragrafo ha pregi e difetti. Vedremo che la giurisprudenza ha aderito all’una o all’altra a fasi alterne, senza affermare un indirizzo definitivo e unitario.

La prima tesi ha il pregio di esaltare la tutela del diritto di difesa nel suo più alto rango di diritto costituzionale. In un giudizio basato sui principi della libera disponibilità dell’oggetto del giudizio e della prova, dove il materiale logico sul quale il giudice baserà la sua decisione è (tendenzialmente) quello e solo quello offertogli dai litiganti secondo predefinite regole di elevato standard tecnico, l’irrompere di una nuova disciplina processuale potrebbe stravolgere i piani della parte e, magari, ribaltare i risultati del giudizio.

Sua pecca, la scarsa sostenibilità sotto il profilo dommatico, non potendosi richiamare a sostegno di tale tesi il disposto degli artt. 5 e 111 c.p.c., evidentemente dettati per evitare che il venir meno del giudice in corso di causa determini la caducazione degli atti del giudizio.

Per di più, affermare che ciò che è retto dal tempus sia il processus, inteso come actus, non solo costituirebbe una patente violazione della chiara lettera dell’art. 11 disp. prel. c.c., ma costituirebbe addirittura una vera e propria contradictio in teminis, posto che quel processus, per definizione, lungi dall’essere uno dei tanti possibili “atti”, di tali possibili atti ne è la serie ordinata secondo un certo schema. Non sarebbe logicamente sostenibile, allora, una riduzione concettuale tale da rendere il processus meno di quanto sarebbe anche solo la mera sommatoria dei singoli elementi che lo compongono.

In ogni caso, poi, non si spiegherebbe perché mai l’esaltazione dell’esigenza di tutelare i diritti d’azione e di difesa avrebbe un siffatto vigore all’interno del processo, mentre la stessa esigenza si affievolirebbe, tutta d’un tratto, al di fuori di una formale litispendenza. Forse che le valutazioni e le scelte strategiche, benché proiettate immaginariamente verso l’eventualità di un ipotetico contenzioso, non si consumano già in larga parte all’atto della formazione del titolo del diritto che costituirà la causa petendi della futura azione in giudizio?[15] Evidentemente è così, ma altrettanto evidentemente sarebbe assurdo predicare una perpetuatio di siffatta latitudine, quasi che tempus regit causam.

La seconda tesi ha certamente il merito di evidenziare la spinta processuale verso la meta finale che i singoli atti dovrebbero dare al diritto d’azione inteso nella sua più schietta accezione di pretesa verso l’organo pubblico all’erogazione della tutela giurisdizionale. Sua pecca, la totale obliterazione dei diritti d’azione e di difesa delle parti che, in quanto valori di rango costituzionale, non possono di certo cedere completamente il passo a ragioni di carattere puramente teoretico e formale.

Ammettendo tale tesi, allora, si correrebbe il rischio, in mancanza di un’adeguata normazione transitoria, di gravare oltremodo il giudice delle leggi dell’onere di indicare, volta per volta, la norma transitoria del caso concreto[16].

La terza tesi è certamente la migliore: al di là dell’ovvio rilievo che essa sembra, innanzitutto, la più rispettosa della littera legis, essa si preoccupa, da un lato, di preservare in modo utile e pragmatico l’interesse della parte a non essere interrotta nell’esplicazione della propria facoltà difensiva dall’improvviso affacciarsi della novella nell’insieme delle regole del processo in corso; dall’altro di consentire una più solerte e rapida transizione tra il “vecchio” e il “nuovo” tutte le volte in cui la nuova disciplina non disturberebbe eccessivamente la parte nell’esercizio delle proprie prerogative processuali.

Sua duplice pecca (ma la seconda, in realtà, non è imputabile a un suo vizio di costruzione) è sia quella di non riuscire a definire il cuore di ciò che darebbe “coerenza e unità” ai singoli snodi della serie processuale a dispetto di quanto, invece, sarebbe sacrificabile (i “substantialia processus”, se si vuole)[17]; sia quella di aver troppa fiducia nei confronti del legislatore, il quale dovrebbe volta per disporre misure transitorie adeguate a preservare le legittime prerogative giudiziarie della parte, e la cui mancanza, in alternativa, dovrebbe essere inevitabilmente colmata dal giudice delle leggi, chiamato a fornire ex post quel “diritto terzo” non dispensato contestualmente all’entrata in vigore della novella[18].

4. Incertezze giurisprudenziali in materia di successione di leggi processuali nel tempo. – Premesso che i valori sottesi al dibattito sono tutti genericamente riconosciuti come meritevoli di tutela dalla Corte Costituzionale[19], ognuna di queste tre teorie sopra richiamate sembrerebbe aver orientato la giurisprudenza di Cassazione nei più disparati settori del diritto processuale civile.

Alla teoria del tempus regit processum aderiscono le Sez. Un., 9 giugno 2016, n. 2016[20], secondo cui “La sentenza emessa a seguito di cassazione con rinvio, salvo il caso di rinvio c.d. restitutorio, è impugnabile in via ordinaria solo con il ricorso per cassazione, anche qualora sia mutato il regime di impugnabilità nelle more (nella specie, la sentenza del giudice di pace nel giudizio di opposizione a precetto ex art. 615, comma 1, c.p.c. era stata pronunciata successivamente al 1° marzo 2006, e la riassunzione a seguito del rinvio dal Supremo collegio era avvenuta successivamente all’entrata in vigore della l. 18 giugno 2009 n. 69)”.

La teoria tempus regit effectum, invece, viene condivisa da Cass., sez. III, 28 febbraio 2019, n. 5823, in materia di efficacia esecutiva delle scritture private autenticate formate anteriormente al primo marzo 2006 (data di entrata in vigore della modifica dell’art. 474 c.p.c. ad opera del d.l. 35/2005, che ha conferito loro efficacia esecutiva) quando vengano poste in esecuzione successivamente a tale data “atteso che la citata novella legislativa, annoverandole tra i titoli esecutivi stragiudiziali, ne ha modificato la sola efficacia processuale con la conseguenza che, in ossequio al principio tempus regit actum [n.d.r. intesa nel senso tempus regit effectum], ad esse si applica la legge processuale vigente nel momento in cui vengono azionate[21].

La teoria del tempus regit factum, infine, viene sposata da Cass., sez. lav., primo agosto 2017, n. 19100[22], secondo cui “in difetto di esplicite previsioni contrarie, il principio dell’immediata applicazione della legge processuale sopravvenuta ha riguardo soltanto agli atti processuali successivi all’entrata in vigore della legge stessa, alla quale non è dato incidere sugli atti anteriormente compiuti, i cui effetti restano regolati, secondo il fondamentale principio del “tempus regit actum”, dalla norma sotto il cui imperio siano stati posti in essere”; soluzione diligentemente motivata anche da Cass., sez. III, 27 agosto 2014, n. 18332[23], secondo cui “in applicazione delle regole stabilite dall’art. 11 preleggi, comma 1, e dall’art. 15 preleggi, concernenti la successione delle leggi – anche processuali – nel tempo, nella specie vale la regola, correttamente applicata nel caso concreto, secondo cui il giudice, quando procede ad un esame retrospettivo delle attività già svolte in presenza della legge processuale nuova, ne stabilisce la validità applicando la legge che vigeva al tempo in cui l’atto è stato compiuto, dal momento che la retroattività della legge processuale è un effetto che può essere previsto dal legislatore con norme transitorie, ma che non può essere liberamente ritenuto dall’interprete. Una indebita applicazione retroattiva della legge processuale si ha sia quando si pretenda di applicare la legge sopravvenuta ad atti posti in essere anteriormente all’entrata in vigore della legge nuova, sia quando si pretenda di associare a quegli atti effetti che non avevano in base alla legge del tempo in cui sono stati posti in essere[24].

Le diverse teorie evidenziano le incertezze giurisprudenziali che ancora caratterizzano questo ambito. V’è allora la necessità di individuare criteri chiari e coerenti per gestire la successione delle leggi processuali, al fine di garantire la certezza del diritto e la tutela delle posizioni giuridiche delle parti coinvolte nei processi. In questo quadro, la stella polare non può non essere l’art. 11 disp. prel. c.c., unitamente a un atteggiamento ermeneutico fortemente recessivo rispetto a proposte interpretative tendenzialmente “additive” in termini di “retro” o “ultra” attività della norma della cui applicazione si tratti.

5. Conclusioni. Natura non retroattiva delle norme recate dal correttivo – Abbiamo visto che il riferimento temporale delle norme integrate e corrette è lo stesso delle norme da integrare e correggere, posto che l’entrata in vigore del d.lgs., 10 ottobre 2022, n. 149 è avvenuta il 28 febbraio 2023[25] (stesso dies a quo della pendenza dei processi per i quali varranno le norme integrate e corrette). Ci si domanda, allora, quale sia l’esatta interpretazione della clausola di cui all’art. 7, comma 1, d.lgs., 31 ottobre, n. 164; in particolare, se comporti una retrodatazione degli effetti portati dalle nuove norme integrate e corrette, ovvero se essa non si limiti a disporre “che per l’avvenire”.

Evidentemente, la risposta dipende dai principi di fondo ai quali l’interprete sceglierà di aderire. Se fosse vera e corretta l’impostazione della prima dottrina, saremmo al cospetto di una clausola di retroattività che, in deroga al principio generale di cui all’art. 11 disp. prel. c.c., reclamerebbe di incidere su jura quaesita e facta praeterita; aderendo agli insegnamenti della seconda o della terza dottrina (ma, abbiamo visto, che quest’ultima non è altro che la variante migliore della seconda), al contrario, saremmo addirittura davanti a una norma inutile, poiché l’applicazione della lex nova agli atti venturi dei processi già pendenti deriverebbe già di principio dalle regole generali[26].

Ora, però, rischiamo di trovarci di fronte al seguente paradosso: l’interpretazione professata dalla prima dottrina (che si piccherebbe di essere la più sensibile alle esigenze costituzionali) sarebbe addirittura meno “garantista” di quella professata dalla terza, e perverrebbe, in certi casi, ai medesimi risultati pratici cui perverrebbe la seconda dottrina, come abbiamo visto la più indifferente al tema degli affidamenti della parte, cadendo in una sorta di assurdo rapporto di contraddittorietà dialettica.

Un esempio aiuterà a comprendere i termini della questione: l’art. 3, comma 2, lett. o), d.lgs., 31 ottobre 2024, n. 164, ha rivestito l’ordinanza di cui all’art. 183 ter c.p.c. della qualità di titolo a ipotecare[27].

Se valessero i principi professati dalla prima dottrina, l’art. 7, comma 1, d.lgs., 31 ottobre 2024, n. 164 costituirebbe una clausola di retroattività e, per conseguenza, l’ordinanza ex art. 183 ter c.p.c. emessa sotto il governo della disciplina antevigente (non integrata e corretta) acquisterebbe ex post efficacia di titolo a ipotecare in forza della novella. Questa conclusione sarebbe tanto ingiusta quanto obbligata, poiché non sarebbe possibile distinguere un “avvenire” (art. 11, disp. prel. c.c.) e un passato del processo dove lasciare e conservare risultati già acquisiti[28].

Così, qualora davanti a un’iscrizione ipotecaria basata su un’ordinanza ex art. 183 ter c.p.c. emessa sotto l’antico regime processuale insorga la parte soccombente deducendo che, se avesse saputo che il giudizio si sarebbe concluso con un provvedimento di tale virtù dotato avrebbe certamente reclamato l’ordinanza, il giudice adito non potrà far altro che rimettere al giudice delle leggi la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, d.lgs., 31 ottobre 2024, n. 164 per violazione dell’art. 24 cost.

L’esatto opposto se si aderisse alla terza dottrina (ma non alla seconda, sebbene per motivazioni diverse) la quale permette all’interprete di praticare sul testo dell’art. 7, comma 1°, d.lgs., 31 ottobre 2024, n. 164 una lettura più morbida, quasi che la clausola in commento proceda a una mera ricognizione del principio generale, con la precisazione che ciò non comporterebbe un’inammissibile interpretatio abrogans poiché, riferendosi le norme integrate e corrette ai procedimenti incardinati dal 22 febbraio 2023 in poi, non andrebbero a incidere sui procedimenti già pendenti a tale data.  Infatti, è l’art. 35, comma 1, d.lgs., 10 ottobre 2022, n. 149 a prescrivere espressamente che gli effetti delle norme da esso portate non si applicheranno ai procedimenti già pendenti; così, riferendosi le norme integrate e corrette di cui al d.lgs., 31 ottobre 2024, n. 164 alle norme di cui al d.lgs., 10 ottobre 2022, n. 149, anche per esse varrà l’art. 35, comma 1, d.lgs., 10 ottobre 2022, n. 22, che esclude dal proprio raggio d’azione i procedimenti pendenti (banalmente: è il d.lgs., 10 ottobre 2022, n. 149 a contenere una clausola di ultrattività delle norme abrogate, non il d.lgs., 31 ottobre 2024, n. 164 a contenere una clausola di retroattività delle norme corrette e integrate, la funzione della cui clausola contenuta ex art. 7, comma 1, è solo agganciarsi alla clausola di ultrattività dell’art. 35, comma 1, d.lgs., 10 ottobre 2022, n. 149).

L’interpretazione propugnata dalla terza dottrina (che, lo ripetiamo, nega la natura di clausola di retroattività alla disposizione di cui all’art. 7, comma 1, d.lgs., 31 ottobre 2024, n. 164) è preferibile non solo perché più rispettosa della littera legis dell’art. 11 disp. prel. c.c.; ma anche perché più semplice da afferrare sul piano intellettivo: le norme da integrare e correggere non disponevano “che per l’avvenire”; è logico che le norme integrate e corrette continuino a non disporre “che per l’avvenire”.

[1] Per i riferimenti essenziali, cfr. Giuliani, Disposizioni sulla legge in generale: gli artt. Da 1 a 15, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, I, Torino, 1982, 186 ss.; Quadri, Dell’applicazione della legge in generale, in Commentario del cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, Bologna – Roma, 1974, 36 ss. In particolare, nella materia processuale, cfr. Fazzalari, Efficacia della legge processuale nel tempo, in Trim., 1989, 889 ss.; La China, voce Norma (dir. proc. civ.), in Enc. dir., Milano, 1978, 411 ss.; Caponi, La nozione di retroattività della legge, in Giur. cost., 1990, 1332 ss.; significativi contributi sono stati forniti da Capponi, La legge e il tempo del processo, in Otto studi sul processo civile, Padova, 2017, 39 ss.; L’applicazione nel tempo del diritto processuale civile, in Trim., 1994, 431 ss.; La legge processuale civile. Fonti interne e comunitarie (applicazione e vicende), Torino, 2004; Note sull’entrata in vigore delle recenti novelle al codice di procedura civile, in Giur. it., 2006, 2445; Entrata in vigore. ‘efficacia ne tempo delle nuove norme, in Commentario alle riforme del processo civile, a cura di Briguglio e Capponi, I, Padova, 2007, 413 ss.

[2] Sul punto, cfr. Capponi, Noterella sulla disciplina transitoria del decreto legislativo 31 ottobre 2024, n. 164 (g.u. n. 264 dell’11 novembre 2024), in Judicium.it, alle cui conclusioni aderiamo senza riserve.

[3] Cfr., ex multis, Corte Cost., 25 maggio 1957, n. 71; 8 luglio 1957, n. 118; 14 gennaio, 1977, n. 13; 23 luglio 1980.

[4] Cfr. Cfr., ex multis, Corte Cost., 5 maggio 1995, n. 153; 3 giugno 1994, n. 6; 4 luglio 1988, n. 822.

[5] Cfr., Capponi, La legge e il tempo, cit., 47, 55 e, spec. 45, ove si rileva che “in un sistema ideale – ma lontanissimo – purtroppo, dalla realtà che si osserva ogni giorno, come dimostrano anche gli ultimi interventi di riforma del processo civile – norme di diritto intertemporale e norme di diritto transitorio dovrebbero cooperare per la risoluzione del conflitto di leggi, favorendo l’applicazione immediata delle norme sopravvenute ed il loro armonico inserimento nel variabile contesto rappresentato dal complesso dei giudizi pendenti”.

[6] Cfr. artt. 12 e 14 disp. prel. c.c., ove il legislatore si serve di una siffatta nomenclatura, riferendosi ai “casi simili”, al “caso dubbio” ai “casi e tempi nelle leggi considerati”.

[7] Ai fini del presente scritto, interessa notare che la giurisprudenza risalente parlava spesso di “diritto quesito processuale” quale limite all’applicazione di novelle in materia processuale (cfr. Cass., 5 febbraio 1942, n. 342, in Giur. it., 1942, 230; in Foro it., 1942, 436, che individua la categoria dei diritti quesiti processuali “fondati sulla regola generale che chi abbia posto in essere alcuni atti in conformità alla legge vigente, ha diritto a quegli utili effetti giuridici costituenti lo scopo al quale gli stessi erano preordinati”; Cass., 23 maggio 1946, n. 641, in Giur. Compl. Cass. Civ., 1946, 58, tutte citate da Capponi, La legge e il tempo, cit. 47).

[8] Se, infatti, il “diritto in divenire”, calato nel processo, è già un “di più” rispetto al diritto nel suo stato di quiescenza (come lo si potrebbe osservare dal punto di vista del diritto materiale) esso, ciononostante, continua a essere un “di meno” rispetto a quello che sarà una volta giunti al termine del suo processo di affermazione giurisdizionale. Per uno spunto utile all’intelligenza del concetto, cfr. Satta, Azione (diritto positivo), voce dell’Enc. dir., Milano, 1959, 822 ss.

[9] Cfr. Caponi, Tempus regit processum. Un appunto sull’efficacia delle norme processuali nel tempo, in Riv. dir. proc., 2006, 453.

[10] Si capisce che il discorso vale anche qualora si tratti del sopravvenire di effetti anche vantaggiosi (e non solo onerosi). Questo perché la struttura isonomica e dialettica del processo civile implica che il vantaggio conseguito da uno dei contendenti costituisca per ciò solo uno svantaggio per l’altro. Detto altrimenti, l’innovazione sopravvenuta non potrà mai essere valutata come novità in melius o in pejus. Per certi versi, infatti, anche il convenuto inerme esercita e vuole esercitare, seppur silentemente, una propria difesa volta alla reiezione della domanda avversaria e alla conseguente dichiarazione della propria libertà da pretesi vincoli.

[11] Cfr., in materia di efficacia esecutiva della sentenza di primo grado, dopo la Grande riforma del ’90, Luiso, La riforma del processo civile, di Luiso, Consolo, Sassani, Milano, 1991, 597, secondo cui “l’art. 282 si applica a tutte le sentenze di primo grado, anche se emesse prima dell’entrata in vigore della legge nuova. Come si è detto, la fattispecie descritta dalla norma processuale sopravvenuta può bene essersi realizzata prima dell’entrata in vigore della legge stessa, purché il fatto che compone questa fattispecie non sia anch’esso diversamente regolato dalla legge nuova. Dunque, al 1° gennaio 1992, l’art. 282 “trova” delle sentenze, già emesse, che hanno le caratteristiche previste dalla norma (…) e dunque si verifica l’effetto da esso previsto (l’efficacia esecutiva delle sentenze: rectius, è qualificata lecita la condotta della parte, che chiede la tutela esecutiva del diritto riconosciuto dalla sentenza, e doverosa quella degli organi esecutivi d prestare la loro opera per tutelare in via di esecuzione forzata tale diritto”. Si tratterebbe allora, più che di un canone di applicazione immediata, di una sorta di “canone di contemporaneità” (cfr. Capponi, Sulla sopravvenuta esecutorietà, infra cit., 123), valendo la definizione dell’atto ricevuta dalla norma vigente al tempo della sua spendita.

[12] Ci riferiamo, essenzialmente, alla dottrina di Capponi, ut supra indicata.

[13] Cfr. Capponi, A più voci sulla sopravvenuta esecutorietà, infra cit., 117.

[14] Cfr. Capponi, La legge e il tempo, cit., 44, secondo cui “Il punto di partenza di qualsiasi analisi ragionata è l’identificazione dell’atto del processo in relazione al quale il conflitto immediatamente rileva. Questo può avere infatti un duplice aspetto: conflitto rispetto all’atto, trattandosi di stabilire a quale delle norme succedutesi nel tempo esso deve essere soggetto; conflitto rispetto agli atti successivi, trattandosi di identificare soluzioni compatibilità che garantiscano unità e coerenza interna del singolo giudizio, che è quanto dire della serie degli atti soggetti nel tempo a normative diverse”.

[15] Cfr. Sassani, Sulla sopravvenuta esecutorietà, infra cit., il quale rileva che “La autoregolamentazione dei rapporti privati si esprime non di rado attraverso scelte, investiture o rinunce che, pur trovando il loro campo di manifestazione sul piano processuale, sono nondimeno frutto del l’autonomia delle parti che se ne serve per disciplinare gli interessi in gioco accanto ai titoli esecutivi negoziali troviamo il condizionamento di azioni, le rinunce o la subordinazione di eccezioni, le convenzioni arbitrali, i patti sulla distribuzione degli oneri probatori, le decadenze convenzionali, le dichiarazioni ricognitive ecc. Possiamo considerare processuali questi atti, sì da riportarne il regime alla legge processuale, sol perché producono effetti (potenzialmente) emergenti in giudizio? No, perché la legge processuale è la regola di esercizio degli atti del procedimento, e tali non sono gli atti con cui le parti predispongono la strumentazione della tutela dei propri interessi. Gli atti richiamati sono atti sostanziali e la loro potenziale proiezione sul piano processuale non è sufficiente a processualizzarne l’essenza che resta essenzialmente negoziale e che – come tale – non può che fondarsi sul quadro normativo esistente al momento d’esercizio dell’autonomia”.

[16] Tuttavia, a onor del vero, questo difetto non può essere imputabile a un vizio di costruzione della tesi sul piano della teoria generale, dipendendo essenzialmente da una negligenza in base alla quale l’interprete del sistema non può ricostruire un’intera disciplina generale.

[17] Sul concetto di substantialia processus, cfr. Panzarola, Alla ricerca dei substantialia processus, in Riv. dir. proc., 2015, 680; v. anche Fazzalari, Procedimento e processo (teoria generale), in Enc. dir., Milano, 1986, 819 ss. L’esigenza di distinguere trapela anche dalle considerazioni di Sassani, Sulla sopravvenuta esecutorietà, cit., 132, che distingue tra “regola di esercizio degli atti del procedimento” e “atti con cui le parti predispongono la strumentazione della tutela dei propri interessi”. In giurisprudenza, cfr. Cass., sez. III, 12 maggio 2000, n. 6099, in Giust. Civ. 2001, 1929, con nota di Gatti, Riflessioni in merito a retroattività della legge processuale civile ed atti già perfetti nella vigenza della normativa anteriore: principio del «triplo» binario?, che sembra proprio distinguere tra norme nuove che “verrebbero a comprimere la tutela” e norme nuove che si limitino “ad alterare la tecnica del processo”. V. anche la giurisprudenza richiamata alla nt. 7.

[18] La “pecca” è condivisa con la seconda tesi, ma l’argomento potrebbe essere anche rivoltato contro la prima, qualora eventuali disposizioni transitorie rechino clausole di retroattività.

[19] In particolare, sull’esigenza di proteggere aspettative meritevoli e legittimi affidamenti, cfr. Corte Cost., 30 gennaio 2018, n. 13, in Giur. cost., 2018, 188, con nota di Caponi, Certezza e prevedibilità della disciplina del processo: il principio tempus regit processum fa ingresso nella giurisprudenza costituzionale; in Judicium.it, con nota di Capponi, Cosa è retto dal tempus. Interessante notare come le due contrapposte dottrine diano un’interpretazione diametralmente opposta della ratio decidendi della sentenza di costituzionalità sopracitata che, secondo il primo, affermerebbe, con rango ultraprimario, il principio tempus regit processum, mentre, per il secondo, essa non avrebbe fatto altro che ribadire il principio tempus regit stricte actum, essendo la soluzione concretamente adottata dipesa sia dalla circostanza che, in quel caso, la norma transitoria espressa prevaleva sul criterio di risoluzione intertemporale di collisio statutorum, sia dalla natura contrattuale della stipulazione compromissoria. La controversia nasceva dall’interpretazione dell’art. 829, comma 3, c.p.c., così come modificato dall’art. 24 del D.lgs., n. 40 del 2006, il quale prevedeva che l’impugnazione di un lodo arbitrale per violazione di norme di diritto sul merito fosse ammessa solo se espressamente previsto dalle parti o dalla legge. Questa disposizione costituiva una modifica rispetto alla normativa precedente, che consentiva sempre l’impugnazione del lodo per violazioni di diritto, salvo diverse pattuizioni delle parti.

[20] In Foro it., 2017, 1019, con nota di Di Virgilio, che richiama espressamente la formula “tempus regit processum”, richiamato anche da Cass., 15 ottobre 2020, n. 22407, in De Jure.

[21] In Rass. Esec. Forz., 2020, 95, con note di Attanasio, Capponi, Celotto, Sassani, Panzarola, Auletta, a più voci sulla sopravvenuta esecutorietà del titolo esecutivo negoziale per lex nova.

[22] In De Jure.

[23] In De Jure.

[24]  Ma altri esempi sono dati da Cass., sez. I, 20 settembre 2006, n. 20414, in De Jure, in materia di appellabilità della sentenza per la quale l’appello sia stato abolito successivamente alla sua pubblicazione; Corte Cost., 26 gennaio 1988, n. 82, in Giur. Cost., 1988, 248, sempre in materia di appello, avuto riguardo al modus della devoluzione in appello quando la nuova legge che impone più stretti formalismi sopravvenga alla sentenza del cui appello si tratti.

[25] Il D.lgs. 10 ottobre 2022, n. 164, aggiornato e corretto, è stato reso operativo il giorno successivo alla sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (art. 52, comma 1). Inizialmente, esso prevedeva che le sue disposizioni, salvo diversa indicazione, avrebbero avuto effetto dal 30 giugno 2023, applicandosi solo ai procedimenti avviati dopo quella data, mentre per quelli già pendenti sarebbero rimaste valide le precedenti norme (art. 35, comma 1, sotto la voce “disciplina transitoria”). Tuttavia, la legge finanziaria del 2023 (L., 29 dicembre 2022, n. 197) ha poi anticipato tale data al 28 febbraio 2023.

[26] Cosa non poi così inutile, potendo essere il diritto transitorio volto anche solo a chiarire eventuali dubbi, come avvenuto nel ’90 a seguito dell’attribuzione di efficacia esecutiva generalizzata alle sentenze di primo grado, “quando le cancellerie vennero prese d’assalto per il rilascio della formula esecutiva anche su sentenze la cui esecutorietà, concessa in base al vecchio testo dell’art. 282 c.p.c., era stata sospesa dal giudice d’appello” che costrinse il legislatore a porre rimedio regolando il caso con quella norma transitoria originariamente omessa (cfr. Capponi, Sulla sopravvenuta esecutorietà, cit., 125, che richiama l’art. 4, D.L., 7 ottobre 1994, n. 571, convertito dalla L., 6 dicembre 1994, n. 673, che precisò riferirsi la novella alle sole sentenze pubblicate dopo la sua entrata in vigore) e come, invece, evitato dal legislatore storico del 1882 che, in occasione dell’emanazione del Codice di Commercio, con norma di carattere meramente dichiarativo, circoscrisse l’ambito temporale della nuova norma attributiva dell’esecutorietà immediata di lettere di cambio e biglietti all’ordine ai soli titoli emessi successivamente all’entrata in vigore della nuova normativa commerciale, per dissipare “quei dubbi che, per come vanno le cose del mondo, avrebbero comunque potuto essere avanzati nei commerci e prospettati nel foro” (cfr. Panzarola, Sulla sopravvenuta esecutorietà, cit., 140).

[27] L’esempio è offerto da Capponi, Noterella, cit.

[28] La regola tempus regit processum sembrerebbe imitare quanto viene detto da taluni (cfr. Guastini, Filosofia del diritto positivo, Torino, 2017, 164 ss.), su un piano puramente teorico, in tema di innovazioni dell’ordinamento giuridico. Non sarebbe possibile, allora, “modificare” la struttura di un procedimento P1, sostituendo l’atto della serie A1 con l’atto A2, senza che ciò comporti l’integrale sostituzione del procedimento P1 con il procedimento P2, il quale sarebbe essenzialmente “altro” da P1 per il solo tratto distintivo di non prevedere al suo interno A1 ma A2. L’affermazione sarebbe temeraria, perché rischierebbe di condurre l’interprete alla conclusione che l’innovazione normativa di un atto della serie comporti la caducazione di tutti gli atti della serie già compiuti, a nulla valendo l’invocazione del principio di conservazione dei valori normativi e del divieto di retroattività della novella, posto che qui non vi sarebbe nulla da conservare, non essendo ancora il fatto, nella propria unità concettuale, assurto a factum praeteritum.