Chiarezza e sinteticità degli atti e dei provvedimenti nel decreto ministeriale scritto in attuazione dell’art. 46 disp. att. c.p.c.

Di Ilaria Pagni -

1.“L’essenza della sinteticità, prescritta dal codice di rito, non risiede nel numero delle pagine o delle righe in ogni pagina, ma nella proporzione tra la molteplicità e la complessità delle questioni dibattute e l’ampiezza dell’atto che le veicola” (Cons. Stato, sez. III, 12 giugno 2015, n. 2900).

Sintesi, infatti, non significa brevità ad ogni costo, ma piuttosto capacità dell’autore del testo di organizzare il ragionamento in funzione dell’obiettivo che vuole raggiungere, eliminando gli argomenti superflui e proporzionando l’atto alla complessità della lite.

A fronte dell’art. 121, intitolato alla libertà delle forme, il quale prescrive soltanto che tutti gli atti del processo, del giudice e delle parti, siano redatti in modo chiaro e sintetico, l’art. 46 disp. att. c.p.c. ha demandato a un decreto del Ministro della giustizia, emanato sentiti il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio nazionale forense, non solo la definizione degli schemi informatici degli atti giudiziari (con la strutturazione dei campi necessari per l’inserimento delle informazioni nei registri del processo), ma anche “i limiti degli atti processuali, tenendo conto della tipologia, del valore, della complessità della controversia, del numero delle parti e della natura degli interessi coinvolti”.

Per vero nell’art. 46 disp. att. c.p.c. si precisa che il mancato rispetto “dei criteri e limiti di redazione dell’atto non comporta invalidità”, e nelle premesse del decreto attuativo si ribadisce, correttamente, che neppure si potrà avere la conseguenza della inammissibilità: ciò non toglie, però, che la circostanza che il mancato rispetto dei limiti dimensionali possa “essere valutato dal giudice ai fini della decisione sulle spese” non sia affatto tranquillizzante, dal momento che far pagare alla parte la prolissità del proprio avvocato non dovrebbe essere la soluzione corretta al problema dell’oscurità di un modo di scrivere che non sia sufficientemente sorvegliato.

Quella soluzione passa semmai attraverso altri strumenti, sui quali è necessario lavorare, movendo su più piani: la scelta di un linguaggio appropriato dal punto di vista tecnico, e al tempo stesso comprensibile; l’organizzazione degli argomenti e la loro esposizione efficace; una attenta ricerca del punto di incontro tra esigenze ugualmente stringenti: l’asciuttezza della narrazione, da un lato, e, dall’altro, la necessità di prendere posizione su tutti gli argomenti avversari e, nei gradi successivi al primo, di contrastare, una per una, le ragioni addotte dalla sentenza impugnata. In questa prospettiva, già l’Università ha il compito di accompagnare la spiegazione delle regole del processo con l’interdisciplinarità tra lo studio del diritto e quello del suo linguaggio.

Ma quel che si deve auspicare è soprattutto che le indicazioni di una corretta strutturazione dell’atto contenute nel decreto attuativo dell’art. 46 disp. att. c.p.c. assumano maggiore importanza della prescrizione di limiti dimensionali (un po’ com’è successo nell’accentuazione progressiva dell’importanza della chiarezza rispetto alla sinteticità, troppo spesso confusa con la brevità) e, a poco a poco, ne superino anche la necessità: evitando che l’applicazione del decreto ministeriale finisca per essere il veicolo dell’insofferenza del giudice verso atti inutilmente prolissi.

2.Il disagio del giudice è diventato intolleranza. Al tempo stesso, chi è convinto di aver imparato a scrivere e sta già esercitando la professione forense difficilmente è disposto a cambiare il proprio modo di redigere gli atti. Ma i limiti dimensionali ormai ci sono e dobbiamo farci i conti.

È vero che linearità argomentativa e nitidezza espressiva non passano necessariamente attraverso la dimensione dell’atto, ma certo ne agevola la lettura un perimetro nel quale il ragionamento giuridico si sviluppi senza eccessi.

L’esigenza di stringatezza risponde all’esigenza di alleggerire il compito di chi deve giudicare e alla logica di efficienza che è imposta, alla giustizia civile, dagli impegni assunti in sede europea.

L’efficienza, però, deve andare di pari passo con l’effettività della tutela.

E questo impone che non si dimentichi mai che l’atto giudiziario deve prima di tutto essere esaustivo, completo di tutte le argomentazioni in fatto e in diritto, e deve rivolgersi contemporaneamente al giudice, alla controparte e al cliente del difensore. Sicché, per parlare al primo dev’essere certamente il più breve possibile; per parlare al secondo non può essere troppo lineare, per non facilitare il compito della difesa avversaria; per parlare al terzo deve soddisfare il desiderio di compiutezza di chi dev’essere difeso. Combinare le diverse esigenze e trovare ogni volta la quadratura del cerchio non è un compito semplice.

Inoltre, se pure l’atto giudiziario non è trattato come opera dell’ingegno, la scrittura è comunque una forma di manifestazione del pensiero che non tollera eccessivi lacci e lacciuoli, né consente la trasformazione dell’atto in una sorta di modulo da compilare: un conto è evitare che vengano scritti atti inutilmente prolissi e confusi, altro conto è imporre un formato che impedisce qualunque digressione, anche quella che si vuole inserire per accrescere l’enfasi. Quello del difensore è un agire strategico, fatto di persuasione. La persuasività del ragionamento giuridico non poggia solo sulla bontà degli enunciati, sulla organicità con cui il ragionamento è stato impostato, sulla coerenza interna dello stesso, ma anche sull’efficacia dell’esposizione. In un processo tendenzialmente scritto, qual è quello civile, è la scrittura, in realtà, la forma normale della retorica.

3.Ma il decreto ministeriale impone limiti troppo rigidi? Il fulcro della nuova disciplina sono gli articoli che, per le cause di valore inferiore a 500.000 euro, prevedono il numero di caratteri (peraltro, e per fortuna, non controllabili in ingresso dal sistema) o le previsioni che tratteggiano le regole di redazione, riprese, per vero, dal codice processuale?

L’art. 2 (“Criteri di redazione degli atti processuali delle parti private e del pubblico ministero”), al secondo comma, dopo aver ribadito il principio generale di chiarezza e sinteticità, delinea una articolazione degli atti introduttivi della causa rispettosa di una scansione logica del ragionamento, senza però prevedere un ordine imposto, che avrebbe impedito la libertà dell’esposizione: per questo, la norma utilizza volutamente il termine “articolazione”, che è neutro, e non richiama, se non indirettamente, la previsione dell’art. 276 c.p.c. laddove, con riguardo alla motivazione in diritto, suggerisce (non impone) di procedere con l’esposizione delle eventuali questioni pregiudiziali e preliminari per poi passare all’illustrazione di quelle di merito.

Le previsioni centrali sono quelle delle lett. da e) a h), dove si consiglia una esposizione distinta e specifica, in parti dell’atto separate, dei fatti e dei motivi in diritto, anche per consentire meglio il rispetto della nuova prescrizione che, negli artt. 163 e 167 c.p.c., come modificati dal D.Lgs. 149/2022, vuole che i fatti siano esposti non soltanto “in modo chiaro”, ma anche “specifico”, perché solo una esposizione chiara e specifica dei fatti di causa consente alla controparte di contestarli altrettanto “specificamente”, come richiede l’art. 115 c.p.c.

Quanto agli atti introduttivi dei giudizi di impugnazione, la lett. e) distingue l’‘individuazione’ dei capi della decisione impugnati dalla ‘esposizione’ dei motivi: la distinzione serve a chiarire la differenza che corre tra l’identificazione del capo della pronuncia, la cui finalità è quella di delimitare le statuizioni che l’impugnante non vuole far passare in giudicato, e l’enunciazione delle questioni che, per rimettere in discussione quelle statuizioni, si vogliono far riesaminare al giudice del grado superiore (quelle che negli artt. 342 e 434 c.p.c. sono indicate nei numeri 2) e 3) della previsione, laddove la norma impone che il motivo indichi, in modo specifico, le censure di fatto e di diritto poste a base dell’appello). La specificità del motivo è data, infatti, dalla puntuale illustrazione delle censure rivolte alla pronuncia impugnata, e non già dalla indicazione di quale sia la parte volitiva della sentenza che si vuole impugnare, la mancata individuazione della quale non comporta inammissibilità dell’impugnazione, ma passaggio in giudicato della statuizione.

La lettera i) richiede l’indicazione specifica dei mezzi di prova e l’indice dei documenti prodotti, con la stessa numerazione e denominazione contenute nel corpo dell’atto: ciò perché spesso – è stato notato – questo non accade, rendendo più difficilmente individuabili i documenti. Per la stessa ragione è previsto che i documenti siano consultabili con collegamento ipertestuale: l’avverbio “preferibilmente” serve a permettere un passaggio graduale a tecniche che non tutti i difensori ancora padroneggiano.

Per gli atti del processo diversi da quelli introduttivi, il decreto ha rinunciato a dare specifiche indicazioni sulla costruzione del testo, limitandosi a richiamare quelle del secondo comma nei limiti della compatibilità (oltre a ricordare l’utilità di indicare il numero di ruolo del processo al quale gli atti si riferiscono).

È una opzione condivisibile, dal momento che gli atti intermedi (per esempio, le memorie dell’art. 183, sesto comma, oggi calate nell’art. 171 ter) hanno un contenuto solo in parte obbligato, quale sede dello ius variandi e dello ius poenitendi ancora consentiti e della formulazione delle istanze istruttorie e delle repliche, e il contenuto delle conclusionali e delle repliche, o delle note difensive finali nel processo del lavoro, è del tutto libero.

È la disposizione sui limiti dimensionali, invece, a occuparsi anche delle memorie intermedie e delle conclusionali: perché spesso, nello scrivere, si ricomincia da capo, con la tecnica del “copia e incolla”, talora senza neppure lo sforzo di sintetizzare gli argomenti svolti fino a quel momento. E lo si fa non solo negli atti conclusivi, dove la preoccupazione di una lettura eccessivamente selettiva di chi è chiamato a decidere ha, purtroppo, talora fondamento, ma anche negli atti intermedi, nei quali non si perde occasione per puntualizzare, discutere, ribadire. Una contestazione che non viene ripetuta da un atto all’altro non è affatto considerata “rinunciata”: l’art. 115 c.p.c. non impone di ripetere a ogni nuova memoria che “si ribadiscono le contestazioni in precedenza svolte, da intendersi qui integralmente richiamate e ritrascritte”, quando non addirittura riproposte nuovamente.

4.Quanto ai limiti dimensionali previsti dall’art. 3, il numero di caratteri dovrebbe essere visto dal giudice più come una indicazione di massima per uno stile asciutto ed essenziale che non già come la declinazione puntuale di previsioni a carattere sanzionatorio. Non è il numero di pagine il problema, ma l’incomprensibilità delle difese. Se l’atto è breve, è più contenuto il rischio dell’esposizione contorta del fatto e del diritto, ma l’utilizzo di una prosa involuta e la confusa illustrazione delle argomentazioni pregiudicano comunque la comprensione della vicenda, qualunque sia la lunghezza dell’atto, e si pongono in contrasto con lo scopo del processo, volto ad assicurare una tutela effettiva alle situazioni soggettive in gioco.

Peraltro, se ci accostiamo alle previsioni dell’art. 3 senza preoccupazioni eccessive, ci rendiamo conto che i caratteri consentiti, spazi esclusi, e soprattutto eccettuati tutti i contenuti menzionati all’art. 4, non sono pochi, perché si riferiscono soltanto alla parte espositiva dell’atto, e non già all’intestazione, all’indicazione delle parti, alle parole chiave che individuano l’oggetto del giudizio, all’indice e alla sintesi dell’atto, agli estremi del provvedimento impugnato, alle conclusioni, alla data, al luogo e alle sottoscrizioni dei difensori, alla dichiarazione di valore, alla richiesta di distrazione delle spese, all’indicazione del provvedimento di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, alle relazioni di notifica, all’indice dei documenti.

Solo l’argomentazione in fatto (col  puntuale riferimento ai documenti) e in diritto (lett. e), f) e g) dell’art. 2) rimane all’interno del numero dei caratteri: nella penultima versione del decreto vi rientrava anche l’indicazione specifica dei mezzi di prova, ma la prescrizione è stata opportunamente corretta, perché l’illustrazione dei capitoli di prova testimoniale, o per interrogatorio formale, non può essere compressa dalle dimensioni dell’atto, ma deve permettere, nel rispetto del diritto di difendersi provando, l’assolvimento degli oneri probatori previsti per le diverse fattispecie dalla legge. Allo stesso modo, per le impugnazioni, non sono escluse dai limiti dimensionali neppure l’individuazione dei capi impugnati e l’esposizione dei motivi: se la seconda corrisponde all’argomentazione in fatto e in diritto del primo grado, e dunque, come quella, è calcolata nel numero dei caratteri, la prima è opportunamente inclusa nei limiti per combattere la tentazione, in cui taluno cade, di trascrivere, nel testo o, in precedenza, nelle note (oggi invece a contenuto non più libero, ma riservate all’indicazione della giurisprudenza e della dottrina), le parti della pronuncia che intende far riesaminare dal giudice dell’impugnazione.

La lettera c) dell’art. 4 menziona correttamente anche “gli avvertimenti previsti dalla legge”: una menzione opportuna, visto l’appesantimento dell’atto di citazione frutto delle modifiche all’art. 163 c.p.c., che oggi, al punto 7, non prevede più soltanto l’invito al convenuto a costituirsi nel nuovo termine di settanta giorni prima dell’udienza con le decadenze in cui potrà incorrere qualora non lo faccia, ma contempla anche l’avvertimento della obbligatorietà della difesa tecnica, nei casi in cui tale obbligo sussiste, e della possibilità di presentare istanza per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato. Quanto alle “dichiarazioni di legge”, queste sono volte a ricomprendere tutto quel che occorre ai fini della chiamata in causa del terzo e per questo motivo, in quanto necessarie, non vengono computate nel numero dei caratteri.

Il numero di caratteri scende a 50 mila per gli atti diversi da quelli introduttivi, comparse e note conclusionali, e si abbassa ulteriormente a 10 mila, per le note scritte in sostituzione dell’udienza previste dall’art. 127 ter. La precisazione per cui quest’ultimo limite non opera quando è necessario svolgere attività difensive possibili soltanto all’udienza è stata opportunamente introdotta per chiarire che un conto è approfittare delle note che dovrebbero contenere soltanto “istanze e conclusioni” per ricominciare da capo nell’illustrazione delle difese (nel qual caso anche il numero di caratteri, tenuto conto delle esclusioni, poteva essere assai più basso dei 10 mila), altro conto è – anche visto il numero eccessivo di provvedimenti che sostituiscono le udienze con la forma cartolare – tener conto, doverosamente, di tutte quelle situazioni in cui, per esempio, debbono essere svolte repliche alle istanze istruttorie formulate a prova contraria, sollevate eccezioni ex art. 157 c.p.c. e svolte difese imposte dal rispetto dell’art. 101 c.p.c.

A escludere che il decreto ministeriale porti a conseguenze troppo gravose per le parti, l’art. 5 prevede espressamente che i limiti dimensionali possano essere superati, senza necessità di autorizzazione da parte del giudice (il che serve a evitare una compressione dei tempi nella predisposizione delle difese), tutte le volte in cui la controversia presenti caratteri di particolare complessità, come può avvenire (e l’elencazione è meramente esemplificativa, come dimostra l’“anche”) in conseguenza del numero delle parti, del valore della lite e della sua tipologia.

Sono stati rimescolati i criteri elencati dall’art. 46 disp. att. c.p.c., che erano stati ricopiati dalle analoghe previsioni in materia di giustizia amministrativa (là rispondenti, peraltro, a logiche diverse: pensiamo al riferimento alla “natura degli interessi coinvolti”): una volta fatta la scelta di guardare in primo luogo alla complessità della controversia, che nell’art. 46 stava invece sullo stesso piano degli altri requisiti, e rilevato che, evidentemente, una lite può essere complessa indipendentemente dal proprio valore o dal numero delle parti, è stato corretto il tiro della previsione con l’utilizzo della congiunzione “anche”, che vuole sottolineare, appunto, come la complessità possa discendere da fattori diversi da quelli contemplati espressamente dal decreto. Nella versione finale del decreto sono state opportunamente menzionate, come ragione a se stante di deroga ai limiti dimensionali, la proposizione di una domanda riconvenzionale, di una chiamata di terzo, di un atto di integrazione del contraddittorio (forse si sarebbe potuta utilizzare una terminologia più ampia, comprensiva di tutte le ipotesi di cumulo soggettivo), o di una impugnazione incidentale: sono tutti casi in cui l’atto si amplia inevitabilmente, indipendentemente dalla complessità delle questioni trattate. In questa logica, sarebbe stato opportuno menzionare anche la riproposizione ex art. 346 c.p.c., che, al pari dell’impugnazione incidentale, è motivo di allungamento dell’atto. Si comprende meno la menzione dell’atto di riassunzione, che può più facilmente essere costruito senza esorbitare dai limiti dimensionali.

L’art. 46 disp. att. c.p.c. chiedeva che negli atti venissero enunciati sinteticamente gli argomenti trattati e fosse inserito un indice dei temi affrontati. Il decreto ministeriale richiede l’indice soltanto nel caso degli atti più complessi, ma è un buon suggerimento prevedere sempre una previa indicazione dei temi trattati quando le tematiche sono più di una, per darne a chi legge una utile anteprima.

È stato subito osservato che non ha senso il numero delle pagine, o l’individuazione di margini e interlinea, quando quel che conta è il numero dei caratteri: la verità è che il possibile formato (carattere di dimensioni 12 punti, interlinea 1,5 e margini di 2,5 cm.) e il numero delle pagine (rispettivamente 40, 26 e 5) servono a dare l’idea innanzitutto a chi scrive, prima ancora che a chi legge, di quali siano le dimensioni dell’atto che va componendo, senza costringere a un controllo continuo del numero di caratteri col programma di videoscrittura; al tempo stesso, forniscono indicazioni di massima al giudice perché si renda conto, nei limiti del possibile (visto che l’atto viene depositato come pdf nativo), se quello che ha di fronte è un atto privo di qualsiasi regola o se invece ha comunque una lunghezza ragionevole.

L’importante, se si vogliono davvero coniugare efficienza ed effettività della tutela, è che non si faccia una applicazione troppo rigida delle indicazioni dell’art. 3, neppure ai fini della condanna alle spese (che peraltro deve rispondere pur sempre al criterio della soccombenza, non sovvertito dalle previsioni del decreto), ma le si intendano, piuttosto, come previsioni di natura esortativa, a scrivere meno e meglio. In questa chiave, sarebbe opportuno che le ragioni del superamento dei limiti non venissero fatte oggetto di un vero e proprio sindacato da parte dal giudice, a condizione che il difensore abbia cura di indicare motivi congruenti e non ricorra a formule stereotipate.

5. La scelta di non consentire note, fatta eccezione per la indicazione degli estremi dei precedenti giurisprudenziali e dei riferimenti dottrinari (in controtendenza, per una volta, con l’inclinazione a ritenere importante soltanto la giurisprudenza e non più la dottrina), non ha a che vedere con i limiti dimensionali, dal momento che per quelli rileva esclusivamente il numero di caratteri, in cui le note sono comunque ricomprese, ma risponde soltanto all’esigenza di una più agevole lettura a video dell’atto.

Importante è il fatto che, come si ricava dall’art. 8, l’atto sia solo “corredato” dalla compilazione di schemi informatici conformi alle specifiche tecniche di cui all’art. 34 del DM 21 febbraio 2011, n. 44, e non sia redatto già sotto forma di schema informatico: l’atto giudiziario, così, rimane l’atto come lo si è sempre conosciuto; non è un atto navigabile, dal quale si possano ricavare informazioni o che possa essere letto con strumenti di intelligenza artificiale, dato che le informazioni vengono inserite con una attività manuale secondo le specifiche tecniche che, nel caso del giudizio di cassazione, tengono conto dei criteri stabiliti con decreto del Primo presidente della Corte, a sottolineare le peculiarità del processo dinanzi al giudice di legittimità. Quanto alle parole chiave, la loro funzione dev’essere quella, analoga all’indice, di rappresentare in sintesi il contenuto dell’atto, e di permettere la costruzione di banche dati, e non di consentire una progressiva sostituzione del lavoro ricostruttivo del giudice con l’opera dell’algoritmo.

6. Per gli atti del giudice non sono previsti limiti dimensionali: questa differenza si ritrovava già nell’art. 46 disp. att. c.p.c., che il decreto ministeriale non ha fatto che declinare, e che prevedeva soltanto criteri redazionali. Criteri per i quali, peraltro, il richiamo agli artt. 2 e 6 “in quanto compatibili”, ha poca utilità, dal momento che quei criteri sono calibrati interamente sugli atti di parte.

Il problema non è la differenza di trattamento tra gli atti di parte e quelli del giudice, perché i limiti dimensionali non dovrebbero sussistere né per gli uni né per gli altri. Sarebbe invece estremamente opportuno, allo stesso modo in cui per gli atti di parte si deve lavorare sul linguaggio e sulle tecniche di costruzione di un ragionamento organizzato, così, per gli atti del giudice, riflettere sulla moltiplicazione dei modelli decisori e sulla destrutturazione delle relative motivazioni, frutto dell’insistenza del legislatore a corredare la motivazione di aggettivi come “conciso” e “succinto”. Una pronuncia, di qualunque specie essa sia, non dev’essere né breve né lunga, ma la sua motivazione dev’essere comunque esaustiva: se manca di nitore sintattico, chiarezza logica e struttura espositiva, può indurre anche incolpevolmente le parti a coltivare la lite (Cass. sez. III 14 agosto 2014, n. 17960), e se non è adeguatamente motivata non risponde all’essenza stessa della giustizia. Come ammonisce Vittorio Colesanti, a proposito del rischio della motivazione sbrigativa imposta da una logica di sola efficienza: “o che mai si vorrebbe altrimenti, vanificare una conquista di civiltà perché fa perdere tempo?”. Ogni pronuncia merita il medesimo sforzo: «si può essere tentati di pensare che l’esperienza più gratificante per un giudice sia di scrivere la ‘grande’ sentenza, quella che diventa patrimonio generale di tutta la comunità giuridica e che viene raccolta e menzionata in tutti i manuali di diritto». In realtà, «il contributo più prezioso cui un giudice dovrebbe dedicare il suo lavoro è, piuttosto, sapersi misurare — con l’ausilio degli strumenti del suo mestiere e del suo spessore giuridico e umano — con ciò che non è giusto. (…) In quest’ottica, non ci sono sentenze ‘piccole’ e, pertanto, trascurabili o noiose, perché, seppur ‘piccole’, possono invece essere sentenze per scrivere le quali si è andati oltre il loro contesto, fino ai grandi quesiti» (Guido Calabresi, Il mestiere di giudice. Pensieri di un accademico americano, Bologna, 2013).

7.Una menzione a parte merita il comma 3 dell’art. 7, introdotto nell’ultima versione del decreto su istanza di chi ha pensato che, richiedendo che “i provvedimenti del giudice soggetti a impugnazione siano redatti con l’indicazione di capi separati e numerati”, si superi la difficoltà per l’avvocato di individuare i capi da impugnare. In realtà, se i capi si ricavano, come reputo preferibile, da un frazionamento della sentenza sul piano orizzontale, per dirla alla Liebman, e perciò corrispondente al contenuto imperativo della stessa e non al suo contenuto logico, i capi della sentenza sono collocati nel dispositivo e non c’è bisogno di immaginarne una numerazione, mentre sarebbe stato comunque opportuno suggerire al giudice di redigere i provvedimenti, anche di primo grado, con l’indicazione di paragrafi separati e numerati, perché questo consentirebbe di seguirne meglio l’argomentazione in qualunque grado di giudizio.

8.Il decreto ministeriale, all’art. 9, sottolinea l’esigenza di una formazione mirata che ribadisce anche laddove, nel prevedere all’art. 10, la costituzione di un Osservatorio permanente sulla funzionalità dei criteri redazionali e dei limiti dimensionali al rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità, immagina che tra i componenti vi siano anche esperti nella linguistica giudiziaria. Il coinvolgimento di linguisti è previsto anche nelle iniziative formative comuni alla magistratura e all’avvocatura, che il Ministero sostiene in aggiunta alla formazione promossa dalla Scuola superiore della magistratura e a quella organizzata nell’ambito della formazione obbligatoria dell’avvocatura.

Gli artt. 9 e 10 vorrebbero sottolineare il connotato culturale che l’attuazione dei principi di chiarezza e sinteticità potrebbe avere (e che ha caratterizzato il lavoro svolto presso il Ministero della Giustizia negli anni 2016-2018, all’origine delle modifiche dell’art. 121 c.p.c. e di altre norme del codice processuale) se nell’orizzonte irrinunciabile di completezza e intellegibilità menzionato dalla Relazione illustrativa si inserissero non già la “brevità degli atti del processo”, pure richiamata dalla Relazione, ma, piuttosto, la “chiarezza espressiva” e la “sobrietà argomentativa” cui viene riconosciuta, correttamente, una forte incidenza sulla qualità della giurisdizione.

9.In conclusione.

La scrittura deve permettere di rappresentare quella storia coerente e persuasiva che il giudice possa condividere e recepire nella sentenza.

La prosa potrà essere sobria ed elegante, ma anche, all’opposto, punteggiata di espressioni ricche di effetto: l’importante è che sia sorvegliata. L’eccesso di tecnicismo può produrre una scarsa partecipazione emotiva nel lettore, ma anche l’eccessiva veemenza non si adatta alle diverse circostanze e nello scritto può divenire ridicola. La veemenza spesso si accompagna a modalità grafiche eccessive, con caratteri “gridati” (troppi grassetti e sottolineati, e troppi punti esclamativi).

Bisogna ragionare su quale sia la migliore organizzazione del “discorso” scritto. “Scrivere in diritto”, nel costruire un atto del processo, è più difficile che scrivere un tema, o una tesi di laurea, perché richiede quella capacità di ‘ordinare’ le parti del discorso col quale si vuole convincere, che è la vera espressione dell’arte retorica.

Volendo essere ottimisti, il decreto attuativo dell’art. 46 disp. att. c.p.c. potrebbe diventare addirittura una sorta di guida alla scrittura, se tutti, a cominciare dai giudici, non dimenticheranno che il principio cardine rimane quello della libertà delle forme. Il difensore sarà insieme chiaro e sintetico non quando rispetterà i limiti dimensionali, ma quando, come già suggeriva Cicerone, scriverà “come lo richiederà ciascun argomento: né esporrà in forma scheletrica argomenti vasti, né in forma povera argomenti solenni, o viceversa, ma la sua parola sarà corrispondente e proporzionata ad essi”. Con buona pace di ogni prescrizione, che a quel punto diverrà assolutamente inutile, di formati, margini e numeri di pagine dell’atto scritto.