Certezze e scetticismo. Il processualista naïf e la lezione di Riccardo Orestano

Di Bruno Sassani -

Temerario l’invito di Enrico Gabrielli: accettarlo è un po’ come scendere nella fossa dei leoni, considerato il parterre romanistico di eccellenza a cui non posso dire di appartenere. Dovendomi quindi guardare dal fare lo storico per rispetto a chi lo fa di mestiere, ho cercato di evitare banalità (inevitabilmente di seconda mano) e conseguenti errori per limitarmi ad esprimere il mio debito di riconoscenza a Riccardo Orestano; un debito che non è meno grande per il fatto che non ho avuto rapporti personali con lui (se in occasione di fugaci incontri nei convegni targati Giuliani-Picardi sull’educazione giuridica, e di un tè pomeridiano nella bella casa sul Trasimeno di Alessandro Giuliani).

Dirò qualcosa dell’impatto del nome e della figura di Orestano su (… come chiamarlo?) un altrove rispetto al diritto romano. Un altrove segnato dalla formula “relatività dell’azione” formula magica, poco compresa ma molto diffusa tra i processualisti.

1.Un incontro spirituale.

La mia formazione – direi la mia sensibilità – gli deve molto. A cominciare dal fatto che la persona che ho intensamente frequentato per più di un quarto di secolo, Alessandro Giuliani poneva Riccardo Orestano tra i suoi maestri (già Achille De Nitto ha ricordato il legame tra Giuliani e Orestano a partire dalla giovanile recensione a quest’ultimo: Giuliani era un ragazzo).

Nell’ultima, toccante testimonianza di Alessandro Giuliani, un passo è intitolato al ricordo: “Il ricordo… quello dei miei maestri: Riccardo Orestano, Chaïm Perelman e Michel Villey, ai quali è legata anche la ricerca comune sull’educazione giuridica”. Era il 20 settembre 1997 nella magnifica Sala del Dottorato dell’antica Università di Perugia, e il breve intervento prende il titolo di Commiato: Giuliani muore a esatte due settimane, il 4 ottobre. Presente e commosso era Peter Stein. Sarà Peter Stein, nella sua lectio magistralis nella stessa sala, in occasione del conferimento della laurea h. c. da parte dello Studium generale civitatis Perusii nel 2001 che, nel sottolineare i suoi legami con la romanistica italiana trova il modo di ricordare quanto Riccardo Orestano aveva significato per lui e per i suoi studi (vicinanza di idee che il profano ritrova in Regulae juris: From Juristic Rules to Legal Maxims, Edinburgh 1966).

2.Sergio Cotta.

Il pensiero di Orestano poteva facilmente esporsi a fraintendimenti. Ne voglio ricordare uno, rappresentato da una colorita reazione al suo “non rendetevi ostaggi dei concetti”. La sua rappresentazione del diritto romano come un qualcosa profondamente segnata dalla sua storicità con la conseguente naïveté della ricerca in esso di regole trasponibili nel diritto contemporaneo, si espose ad una insospettata reazione non poteva non disturbare il pensiero essenzialista che covava sotto le forme più varie e che si spingeva talvolta a rappresentare Orestano come l’alfiere del relativismo: il suo apostolato a favore dell’idea che il  diritto romano “non poteva che essere studiato storicamente, e che quindi non poteva prendersi come un sistema di diritto vigente ed era quindi vano mettersi alla ricerca di regole valide per il diritto contemporaneo” (non era – come è stato scritto – “un sistema a cui attingere exempla fuori dal tempo”) mi ha reso testimone di un curioso episodio. Si può comprendere come un pensiero che per comodità si potrebbe chiamare ontologico diffidasse del relativismo che discendeva dalla visione di Orestano, quasi temesse il contagio di un possibile entusiasmo decostruttivista.

 

Il piccolo episodio risale ai tempi remoti della mia frequentazione dell’Istituto di Filosofia del Diritto della Sapienza (allora semplicemente Università di Roma) al seguito di Alessandro Giuliani: uno stizzito “basta” di Sergio Cotta (la cui patina di serenità inclusiva non riusciva sempre a trattenere il carattere impaziente e inflessibile), un “basta” sonoro come solo lui sapeva far esplodere! Era un seminario che aveva ingenuamente svelato agli occhi di Cotta l’entusiasmo di alcuni giovani per la linea di Orestano: “basta” con l’impiego della storia per frantumare i principi, ci sono cose che non si possono storicizzare perché, così facendo, le si banalizza indebitamente. Si può cioè sospettare che il veleno del decostruzionismo (allora alla moda) si serva anche della tecnica scettico-analitica di pensatori alla Orestano. Quel basta era inteso a mettere in guardia dal pericolo immaginato del nichilismo giuridico, l’uso della storia come leva per scardinare le certezze.

L’invito di Orestano a non operare “trattando l’ombre come cosa salda” non poteva non turbare gli essenzialisti, i cercatori dell’essenza del diritto, dei principi costitutivi del diritto, della giuridicità specifica del diritto in sé, la cui funzione propria sarebbe realizzare un universale.

            Il grande equivoco segna l’incomprensione di due mondi: Cotta era un fine analitico, ma sempre alla condizione finale che lo sforzo di analisi portasse poi alla Sua sintesi.

3.Salvatore Satta.

Al processualista l’autorità di Orestano si rivela soprattutto attraverso Salvatore Satta. Ad Orestano si congiunge il pensiero di Satta così come a Satta si congiunge il pensiero di Orestano. Satta lo richiama sovente nei suoi scritti, e lo fa perentoriamente (“come del resto ha mostrato Orestano”) quando si vuol liberare da petulanti pedanterie o da abbagli di giuristi positivi che si travestono da storici. La sua non è semplicemente adesione erudita.

Innanzitutto, mi si consenta, emerge la comune qualità di “scrittori”. Satta è uno dei pochi grandi scrittori italiani del secolo scorso ma la prosa di Orestano gli è vicina: prosa lapidaria senza spreco di estetica, di un manierismo senza maniera. Ambedue scrittori dove scribere porta il senso etimologico di incidere.

C’è poi – lo vedremo tra un momento – la comunanza della lezione di Capograssi (sul tardo Orestano), dell’approccio obliquo alle cose, del rifiuto del velo cosmetico. Come in Salvatore Satta la sua scrittura va al cuore delle cose.

 

4.L’appello.

Ne avrei avuto conferma mettendo mano alla voce Appello commissionatami per l’Enciclopedia del Diritto; era voce di Aggiornamento che doveva, pertanto riagganciarsi a discorsi già svolti: dovevo partire dal punto fissato dalle voci di un volume di più di 40 anni prima (1958). Orbene, tanto superflua e surannée mi si presentò la lettura della voce Appello (dir. proc. civ.), quanto folgorante fu la (ri)lettura della voce Appello (dir. rom.), ovviamente di Riccardo Orestano.

In questa voce, l’istituto dell’appello (che noi processualisti positivi siamo abituati a trattare quasi come uno svolgimento naturale del giudizio) viene energicamente riportato ad una vicenda di gestione organizzativo-burocratica, amministrativo-gerarchica dello Stato romano. Si tratta di un dato storico di natura obiettiva che viene focalizzato da Orestano, eppure – miracolo! – una vicenda di organizzazione del potere attraverso la fissazione stabile di un’istanza di controllo, diventa il reagente di quello che il futuro accoglierà come un assioma, una condizione di pensabilità dell’ordinamento: il controllo che si distacca dalla actio nullitatis, che non si limita a fungere da verifica della validità della decisione (cioè della regolarità della procedura) ma diventa riscontro della bontà del decisum  e che, come tale, impone un metro comune al controllante ed al controllato. Comunanza del metro che presuppone l’obiettività della regola. In termini hartiani si direbbe che la tecnica dell’appello permette di trasformare le regole di comportamento in criteri normativi, standard di giudizio ufficializzati e riconoscibili. Il test dell’appello come sede operativa della regola di riconoscimento.

Nelle sue lunghe pagine sull’appello, Salvatore Satta si sofferma sulla vicenda storica nei termini lumeggiati da Orestano: ne ricava la conferma dell’illusione ottica che presiede alla corrente visione, la singolare inversione per cui l’appello sarebbe espressione di un preteso principio del doppio grado di giurisdizione, allorché “questo principio … è una mera creazione dottrinale” (“Storicamente l’appello è sorto, nella struttura generale che ancora oggi conserva, come una conseguenza dell’organizzazione burocratica e gerarchica dello Stato, per cui è apparso naturale che da un giudice si reclamasse contro il giudizio da lui reso a un giudice superiore”). L’istituto dell’appello non è sorto come attuazione di un principio del doppio grado, bensì quel principio è stato elaborato nella considerazione dell’appello, onde si potrebbe anche sul piano scientifico trascurarlo senza alcun danno”.

Ma Satta mostra di comprendere appieno il passo successivo di Orestano: “più profondamente”, scrive, l’appello è la forma che assume la “naturale esigenza della obiettivazione dell’ordinamento della sua struttura normativa e quindi dal distacco della persona del giudicante”. È facile comprendere, aggiunge Satta, che dalla generalizzazione dell’appello si sia poi passati a intendere questo come l’espressione di un principio per cui le cause debbono essere oggetto di un doppio giudizio” (con il diritto delle parti di disporre di due giudizi successivi), ma non è meno facile comprendere, aggiunge, “che si tratta di una mera speculazione filosofico-politica, sostanzialmente destituita di ogni valore”. Ne è prova il fatto che la dottrina “non è mai riuscita a dare una precisa consistenza al principio del doppio grado” (correttamente assimilabile ad una una finzione) e tale veramente appare nella formulazione della giurisprudenza secondo cui il doppio grado “comporta che una controversia sia sottoposta a due giudici diversi, non che ogni questione debba essere decisa ed esaminata due volte.

 

5.La tempesta nel bicchiere.

Suo malgrado, però, il nome di Orestano viene brandito per nobilitare, negli anni Settanta del secolo scorso, un filone “protestatario” (dissenziente con forti venature politiche) contro l’appello, considerato un retaggio dell’ordinamento gerarchico dello Stato: era il momento del c.d. uso alternativo del diritto, della scoperta post-sessantotto della possibilità di usare gli istituti processuali per mettere in crisi l’ingiusto sistema non dall’esterno in via di rivoluzione, ma dall’interno in via di interpretazione “evolutiva”.

Nel 1969 Mauro Cappelletti pubblica il suo Parere iconoclastico, proponendo l’abrogazione dell’appello per restituire centralità al giudizio di primo grado e alla chiovendiana oralità: non doveva, a parer suo, farsi luogo a un secondo giudizio di fatto in appello sulle carte[1] (e altre amenità del genere[2]). Del resto, scrive Cappelletti, Orestano ha dimostrato che l’appello è espressione dello Stato burocratico-autoritario.

La cosa viene presa tanto sul serio che l’Associazione fra gli studiosi del processo civile organizza nel 1977 il proprio Congresso di Venezia (la Relazione di Alessandro Pizzorusso, soprattutto, scatena la discussione) proprio su un presunto problema dell’istituto dell’appello nello Stato democratico contemporaneo.[3]

Molto superficialmente le osservazioni di Orestano (il giudizio di fatto dello storico) sulla genesi burocratico amministrativa dell’istituto dell’appello (quale istituto estraneo alla concezione primordiale della decisione giudiziaria) divennero parole d’ordine, in fuga dalla accorata avvertenza dell’autore che il diritto romano non è “un sistema a cui attingere exempla fuori dal tempo”. Era il momento dei pretori d’assalto a cui si contrapponevano spesso i giudici d’appello (allora rappresentati dai tribunali) che riformavano molte delle sentenze innovative nella materia considerata socialmente più rilevante dal punto di vista politico, cioè il diritto ed il processo del lavoro. Si colorò arbitrariamente di valore negativo la notazione storico-fattuale per piegarla alla esigenza politico-giuridica perseguita.

Tempesta in un bicchier d’acqua, ho detto. I problemi dell’appello nel processo italiano sono infatti altri, e nessuno si ricorda più dell’accusa all’appello di rappresentare un istituto dello Stato autoritario.

Non me ne sarei ricordato neanche io se non avessi dovuto rileggere Orestano.

 

6.Il tema dell’azione.

L’altro grande tema di rilievo per il processualista alle prese con gli utensili della propria materia è l’azione.

Concetto glorioso, colonna del tempio del diritto processuale d’antan, ma come pochi altri istituti fuori moda nel lessico e nell’armatura concettuale del diritto processuale odierno, che ne fa volentieri a meno nella sua speculazione, malgrado il lascito perentorio di Chiovenda che costruisce i suoi principi attorno alla figura. E malgrado gli sforzi della turba dei post-chiovendiani per mantenerne la centralità: ancora negli anni ‘80, il progetto riforma del codice che va sotto il nome del Presidente della Commissione, Enrico Tullio Liebman, mira a positivizzare la definizione di azione introducendone la definizione nel codice (naturalmente la definizione perorata dal Presidente).

Oggi la mistica dell’azione è tramontata. Al punto che – tra lessico angloremediale, retorica dei diritti fondamentali, e clausole generali espresse in termini di diritti (l’art. 24 cost., l’art. 6 CEDU e l’art. 47 Carta Nizza) – si è persa addirittura la sensibilità per riconoscere e gestire concettualmente i tanti meccanismi di tutela costruiti in termini di azione, cioè di fissazione legale di forme e contenuti di un mezzo di protezione di situazioni di fatto che pertanto (cioè a posteriori) assurgono a diritti. Con la difficoltà di riconoscere che si tratta di situazioni a cui concediamo il rango ed il nome di diritti, solo in quanto le estraiamo da una figura di azione e li caratterizziamo secondo i connotati che questa – che porta con sé le modalità della tutela – consente di attribuire loro. E con la connessa difficoltà di sceverare quanto “dovuto” ai sensi delle clausole generali di tutela, e quanto invece concesso, octroyé dall’ordinamento.[4]

In questa situazione di sopravvenuta insensibilità all’azione, Orestano è correntemente richiamato quale alfiere della dottrina della idea di relatività dell’azione. L’espressione è insignificante in sé, eppure le si riconnettono tante idee ingannevoli in circolazione (per es., Orestano la avrebbe introdotta nel contesto del diritto romano e l’idea avrebbe avuto “un impatto significativo sul diritto moderno e sulla processualistica contemporanea”; la relatività dell’azione sarebbe stata poi utilizzata “come base per lo sviluppo di regole e principi volti a garantire una giusta e corretta applicazione delle norme processuali”).[5]

Per insignificante che sia, l’espressione relatività dell’azione ha pur sempre la grande forza evocativa di uno stile e di un moto di pensiero. E la voce Azione esprime la relatività del tutto, nel senso della vanità delle categorie eterne, della pretesa di sistemare definitivamente il pensiero giuridico.

7.Giuseppe Capograssi.

Campeggia la relatività nel senso di traduzione convenzionale di stenografia della realtà, di organizzazione lessicale delle esigenze espressive dei giuristi. Qualcosa allora che, nelle sue espressioni linguistiche, nel suo modello e (direi soprattutto) nel suo pathos, deve molto a Capograssi. Quel Capograssi che aveva affascinato Salvatore Satta che a 57 anni pubblica il primo tomo del suo monumentale Commentario, ricordando che la prima pagina era stata scritta 10 anni prima allorché “ho scoperto che non conoscevo la procedura. Come quel pittore che, essendosi accorto di non saper dipingere, non poteva smettere di far quadri perché era diventato già celebre, io non potevo abdicare a me stesso, rinunciando all’impresa”.

Satta (1902) e Orestano (1909) erano stati uniti dal comune insegnamento nella Facoltà genovese. Era la generazione che aveva avuto “un’autentica vocazione per i concetti e per le costruzioni dove ha lasciato opere mirabili, specie nel campo della procedura, dove addirittura ha costruito un codice. Chi è entrato nella vasta orbita di quelle opere ne è uscito costruito anche lui, perché ha acquistato tutta una serie di certezze, quali solo si possono avere nel mondo delle astrazioni, e ha potuto ridurre a quelle certezze la vita, cioè la grande espressione della vita che chiamiamo diritto”. Ma “l’autore non può, se in buona fede, svicolare nel labirinto delle sue costruzioni”.

La lezione di Capograssi diventa lezione morale.

8.La voce “Azione”.

Il labirinto delle costruzioni stratificatesi intorno all’idea di azione è l’oggetto della grande voce Azione di Riccardo Orestano. Che non è una voce di diritto romano, a cui segua la voce Azione (dir. proc. civ.) come d’uso nell’Enciclopedia del diritto (così è per la voce Appello), ma è la prima parte [a)] di un’unica, complessa voce a vocazione universale la cui seconda parte [b) diritto positivo] porta la firma di Salvatore Satta, come pure la terza parte [c)] intitolata (un po’ forzatamente) classificazione delle azioni.

Ora, le parti b) e c) in cui si articola l’unica voce potrebbero anche esse portare la firma di Riccardo Orestano, tanta è la loro compenetrazione con quel che la precede. Potremmo legittimamente chiederci chi è l’autore dei passi seguenti: “La distinzione fra diritto sostanziale e processo fra i diritti soggettivi e azione – ritenuta fondamentale e imprescindibile… Nella nostra esperienza, tanto che su di essa si sono articolate e modellate legislazione giurisprudenza e scienza – può divenire artificiosa o addirittura priva di senso in altre esperienze in altri ordinamenti, alzati strutturalmente e concettualmente su differenti coordinate, per le quali gli aspetti ‘sostanziali’ e quelli ‘processuali’ sono sovente così intimamente congiunti e compenetrati da formare un tutt’uno inscindibile. In tal caso una trattazione dei mezzi processuali non potrebbe prescindere dagli aspetti che noi oggi chiamiamo sostanziali e viceversa, l’uno risolvendosi nell’altro.”?

Chi ha scritto poi: “Azione, giurisdizione, ordinamento non costituiscono tre distinti problemi ma uno solo: e nell’aver trascurato questa indissolubile unità certamente sta la causa dei grandi equivoci che stanno alla base di molte fra le infinite costruzioni dell’azione. Il vizio originario di tali costruzioni sta in una singolare concettualizzazione della realtà, che viene scomposta in concetti quali ordinamento, diritto oggettivo, diritto soggettivo, potere, facoltà eccetera, di così potente evidenza (e si può ben ammettere di tanta utilità pratica sul piano, ad esempio, didattico) che vengono a sostituirsi alla stessa realtà, e acquistano, rispetto a questo autonoma vita.”? Riccardo Orestano o Salvatore Satta? Non importa, comune è lo spirito che ispira queste affermazioni, comune la cultura e comune il punto di arrivo di entrambi.

La voce Azione non è un’introduzione allo studio storico del processo romano. È piuttosto un portale un’introduzione al diritto, all’ordinamento giuridico, incardinato sull’azione come su una cerniera. Azione qui non è una nozione ma un concetto simbolo, l’esemplare sintesi espressiva del travaglio della scienza giuridica alle prese con se stessa.[6]

Di grande fascino restano i titoli dei paragrafi che scandiscono il fluire del discorso. Penso a «La “grande illusione” della pandettistica e il diritto obiettivo», a «La frattura fra diritto e processo è il problema dell’azione», «Concezione oggettiva del processo e preminenza del concetto di giurisdizione», e ai tanti altri che il lettore curioso potrà scorrere nella voce. Mi soffermo un momento su «L’azione nell’unità dell’ordinamento» dove l’autore rende omaggio alla posizione di Salvatore Satta (“più impegnativa, sul piano processuale e ancor più importante per la scienza giuridica, è la posizione del Satta, in quanto scaturita da una lunga e approfondita esperienza concreta del diritto, anziché da una pura impostazione speculativa. Alle aspre critiche rivolte a Satta da tanti pulpiti, questi “ha avuto buon gioco nel rispondere che non si può continuare a pensare” a “un diritto soggettivo come realmente è obiettivamente esistente laddove proprio la sua esistenza viene negata e della sua esistenza appunto si discute”).

È l’uscita dalla “grande illusione”: ed è sempre coincidenza con il pensiero di Satta e di Capograssi: “il problema dell’azione col Satta cessa di essere il problema dell’unità dell’azione per trasformarsi in problema dell’unità dell’ordinamento”. La pregiudiziale ontologica rispetto all’azione e le sue ragioni storiche e linguistiche: “il concetto di azione è considerato e trattato come se avesse una rispondenza nella realtà: la concettualizzazione di un elemento concreto, effettivo, dì qualcosa che in qualche modo realmente esista nel mondo fisico”. E, ancora, la «ipostasi dei concetti e il suo valore nella scienza giuridica», che conduce a «verbalizzazione dell’esperienza e il discorso giuridico»; attraverso la «logica sostanzialista del linguaggio e le astrazioni», si va alla scienza giuridica come roccaforte della logica classica, ai suoi procedimenti definitori, alla storia, alla sua negazione ed alla sua rivincita.

Il discorso di Orestano si snoda fluido fino alla conclusione che svuota della sua assolutezza il primo postulato di Chiovenda: la distinzione tra diritto sostanziale e processo (distinzione che “può divenire artificiosa, o addirittura priva di senso”). Ad imporsi, è la conoscenza delle varie e mutevoli strutture che il processo presenta nella storia dei singoli ordinamenti (“la storia delle legis actiones è inseparabile dalla storia del processo romano primitivo, quella delle actiones pretorie dalla procedura formulare, quella delle preces et supplicationes da quella della procedura imperiale e così via, in ogni tempo e in ogni ordinamento”).  

A questo punto, il passaggio alla sezione b) affidata a Salvatore Satta con il titolo “L’azione nel diritto positivo”, diventa mero passaggio interno di un saggio profondamente unitario: nessuna cesura, come nella toga “inconsutile” del giurista, per usare la metafora di Francesco Calasso.

 

9.A mo’ di conclusione.

Cosa resta oggi della voce Azione? Poco si potrebbe opinare, se considera la recessività attuale della figura per il processualista e la sostanziale indifferenza delle nuove generazioni ai dibattiti che avevano animato la processualistica negli ultimi secoli.

Molto, moltissimo per chi accetta il pericolo di vedere cadere il velo di Maya; per chi entra sicuro di sé e della propria cultura per scoprire che il suo rifugio non si sottrae affatto alle intemperie ingovernabili provocate dall’irruzione della storia. Entra sicuro per scoprirsi poi naïf.

Una naïveté che per Riccardo Orestano era stato il punto d’arrivo, il punto d’arrivo di una intelligenza investigativa fattasi speculativa secondo la scansione imposta dalle cose.

*  Testo della Relazione tenuta il 26 maggio 2023 al Seminario «La ‘Introduzione allo studio storico del diritto romano’. Un capitolo della biografia intellettuale di Riccardo Orestano», presso la sede Foro Italico dell’Università di Tor Vergata (ora in Quaderni della Rivista di diritto privato, a cura di M. Floriana Cursi, Cacucci ed. 2024)

[1] M. Cappelletti, Parere iconoclastico sulla riforma del processo civile italiano, in Giur. it. 1969, IV, 81 ss. e in Giustizia e società, Milano, 1972, 116 ss.; Id., Doppio grado di giurisdizione: parere iconoclastico n° 2, o razionalizzazione dell’iconoclastìa?, in Giur. it. 1978, IV, 1 ss.

[2] Le corti distrettuali dovevano divenire sezioni distaccate della Cassazione, alle quali la Corte romana avrebbe dovuto rimettere i ricorsi, salvo trattenere quelli di generale interesse per la collettività, con quella sorta di writ of certiorari, che consente alla Supreme Court statunitense di selezionare i casi da decidere. Si prospettava così una riedizione delle plurime corti di cassazione esistenti sino al 1923, in chiave di decentramento territoriale.

[3] A. Pizzorusso, Doppio grado di giurisdizione e principi costituzionali, in Atti del XII Convegno Nazionale dell’Associazione fra gli studiosi del processo civile (1977), Giuffrè, 1980, e in Riv. dir. proc. 1978, 33 ss.; E.F. Ricci, Il doppio grado di giurisdizione nel processo civile, in Riv. dir. proc. 1978, 59 ss. (il primo proponeva forme di appello circolare, poiché più consone al sistema democratico inciso nella Carta costituzionale; il secondo criticava la regola del doppio grado di giurisdizione, mostrandone le imperfezioni e le aporie).

[4] Penso per es. alla guerra ingaggiata contro il c.d. merito possessorio (che, secondo la parte belligerante) non sarebbe dovuto esistere, e non avrebbe potuto quindi dar luogo a tutela di accertamento, alla luce dell’idea che “il possesso non è un diritto”: il relativo dibattito ha infestato dottrina e giurisprudenza per quasi un decennio, dalla riforma del 1990 alle S.U. 24.2.1998, n. 1984 che lo hanno bruscamente chiuso.  Lo stato del dibattito sull’azione di classe ne è altra prova.

[5] Risparmio altre vacuità (“il concetto di relatività dell’azione ha portato alla definizione del principio di congruenza, secondo cui l’oggetto dell’azione deve corrispondere alla situazione giuridica delle parti coinvolte in una causa. Questo principio è diventato uno dei pilastri del diritto processuale moderno ed è stato adottato in molti sistemi giuridici”).

[6] Esemplari sono i titoli dei paragrafi (Il problema nelle scienze giuridiche di derivazione pandettistica; Relatività del concetto. Giusnaturalismo e diritti soggettivi. La costruzione del sistema del diritto privato; Esclusione della procedura dal sistema privatistico e formazione della “Prozessrechtswissenschaft”; Speculazione filosofica e scienza giuridica di fronte al diritto e così via).