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Brevi osservazioni su scrittura privata e titolo esecutivo in presenza di successione di leggi (Cass., sez. III, 28 febbraio 2019, n. 5823)
Di Andrea Panzarola -
1.- Viene intrapresa l’espropriazione forzata sulla base di una scrittura privata autenticata. Si tratta di scrittura formata anteriormente alla modifica dell’art. 474 co. 2 n. 2 c.p.c., in quanto tale priva della efficacia di titolo esecutivo. L’espropriazione è nondimeno avviata – sulla scorta della medesima scrittura – successivamente alla entrata in vigore del novellato art. 474 co. 2 n. 2 cit. che ha qualificato titoli esecutivi “le scritture private autenticate, relativamente alle obbligazioni di somme di denaro in esse contenute”. Nella situazione descritta, la scrittura privata autenticata è o meno titolo esecutivo?
La grave questione viene risolta dalla Cassazione (sez. III, 28 febbraio 2019, n. 5823) nel senso che “le scritture private autenticate formate prima del 1.3.2006 hanno efficacia di titolo esecutivo, se poste in esecuzione successivamente a tale data”. La pronunzia della Suprema Corte sollecita numerosi interrogativi connessi con il problema della efficacia nel tempo della norma processuale che ha innovato la efficacia delle scritture private autenticate, elevandole a titoli esecutivi. Questi temi di rimarchevole impatto sistematico sono stati affrontati diffusamente nei commenti già pubblicati o in corso di pubblicazione di Capponi[1], Sassani[2] e Auletta[3]. In queste brevi osservazioni intendiamo unicamente indugiare su un paio di argomenti “minori” utilizzati dalla Cassazione per suffragare la soluzione prescelta (e già additati dal Tribunale per patrocinare la interpretazione opposta).
Consideriamo anzitutto l’art. 24[4] del r.d. 30 novembre 1865, n. 2600, “contenente disposizioni transitorie per l’attuazione del codice di procedura civile” del 1865, che, in linea generale, non assegnava alle scritture private di alcun tipo la efficacia di titolo esecutivo. Si tratta di norma speciale per la Toscana. Al momento della unificazione nazionale, infatti, vi aveva vigore il Motuproprio per il Granducato di Toscana sui privilegi e le ipoteche del 2 maggio 1836, il cui art. LXIX stabiliva che la ipoteca convenzionale potesse costituirsi “mediante un istrumento pubblico o una scrittura privata” (da “porre in essere alla presenza di tre testimoni, che la firmeranno insieme col costituente, e dovrà inoltre essere munita di recognizione notarile”), l’uno e l’altra titoli idonei per promuovere l’espropriazione forzata nel quadro del Motuproprio[5].
L’art. 24 r.d. n. 2600 del 1865 cit. prevede pertanto che le scritture private riconosciute dinanzi a notaio in Toscana in conformità al Motuproprio del 1836[6] “conserveranno efficacia esecutoria”. Risalta il verbo impiegato: “conservare”. L’art. 24 non fa altro che riconoscere alle scritture private toscane il valore loro proprio al momento della formazione al cospetto del notaio. Perché mai il legislatore unitario avvertì allora la esigenza di soffermarsi sulla conservazione di questa “efficacia esecutoria” di scritture consimili? Lo si capisce se si esamina anche la restante parte dell’art. 24 cit., rimasta in ombra nella pronunzia della Suprema Corte. La “conservazione della efficacia esecutoria” delle scritture toscane è subordinata dall’art. 24 alla spedizione della copia di esse in forma esecutiva in aderenza all’art. 556 c.p.c. 1865 (“purché ne sia spedita copia in forma esecutiva nel modo prescritto dall’articolo 556 del nuovo codice di procedura civile”). A sua volta l’art. 556 del codice di rito cessato disponeva che “le copie in forma esecutiva devono essere intitolate in nome del Re, e terminare colla formula seguente…” (il cosiddetto “Comandiamo”).
Non sembra azzardato indovinare nella seconda parte dell’art. 24 cit. (laddove si riallaccia all’art. 556 c.p.c. 1865 e alla spedizione della copia esecutiva in nome del Re) il vero baricentro della norma e insieme rintracciarvi il motivo determinante che indusse il legislatore unitario ad anteporre ad essa la previsione meramente ricognitiva della “conservazione della efficacia esecutoria” delle scritture toscane formate secondo il Motuproprio del 1836. Si fermi l’attenzione sul fatto che – al tempo della entrata in vigore del codice di rito del 1865 e delle disposizioni transitorie per la sua attuazione – era universalmente diffusa la persuasione della decisiva importanza – per poter estendere la qualità di titolo esecutivo ad un certo atto giuridico – da riconnettere alla formula esecutiva. Non si era ancora compiuta quella sorta di “rivoluzione copernicana della dottrina del titolo esecutivo” rappresentata dalla “interiorizzazione”[7] della forza esecutiva nell’atto. Era invece comune convincimento che i principi giuridici che governano l’istituto dei titoli esecutivi e la stessa logica del diritto deponessero in maniera univoca per associare la forza esecutiva ab externo all’atto (che ne sarebbe stato intrinsecamente sprovvisto). Di qui la necessità della formula esecutiva e la concorde enfasi riposta nella circostanza (riflessa nel dettato dell’art. 556 c.p.c. 1865 e così pure dell’art. 24 r.d. n. 2600 del 1865 cit. che vi si riferiva) che il fondamento di essa derivasse da ciò che “il Re è il Capo del potere esecutivo; e, per questa sua qualità, il di lui nome deve trovarsi nell’intitolazione della copia del titolo”[8]. E nel 1865 – quando si pose mano al “nuovo” ed unico codice di rito per il Regno d’Italia e furono elaborate le disposizioni transitorie per la sua attuazione – vi era oramai un unico Re. Scomparsi duchi, granduchi, ecc.[9] era naturale che il legislatore si occupasse di armonizzazione la mutata situazione politica (col Re di Sardegna innalzato a Re d’Italia) con le diverse tradizioni giudiziarie esistenti nelle varie parti del Paese. Con specifico riferimento alle scritture private toscane era in particolare ovvio che il legislatore nazionale del 1865 – operando in un milieu culturale dominato dalla idea della centralità della formula esecutiva e della sua provenienza dal “Capo del potere esecutivo” – si desse carico di sottoporle, in quanto ab origine titoli esecutivi nell’ordinamento toscano, alle regole generali del codice di rito del Regno d’Italia concernenti la apposizione della “essenziale”[10] formula esecutiva (ad iniziare dalla intitolazione delle copie “in nome del Re”, come esigeva l’art. 556 c.p.c. 1865).
Questo appare in definitiva il senso dell’art. 24 r.d. n. 2600 del 1865 cit. quando lo si legga alla luce della mentalità dell’epoca. Certo, oggi la formula esecutiva può apparire nient’altro che un “roboante e inutile orpello”[11]. Si deve però sfuggire alla tentazione del proiezionismo, guardando al passato con le lenti del presente. Nel 1865 la affermazione esteriore e solenne che figurava nella formula esecutiva era ritenuta cruciale per assegnare a certi atti la forza esecutiva attraverso l’imprimatur del pubblico ufficiale, rappresentante del potere esecutivo.
La esattezza della interpretazione qui proposta sembra indirettamente confermata dalla considerazione dei lavori preparatori condotti dalla Commissione speciale istituita per il coordinamento del codice di procedura civile (del 1865) e per proporre le relative disposizioni transitorie. Dalla lettura del verbale n. 13 della seduta del 5 maggio 1865[12] si desume che, durante la discussione circa la opportunità di “dar forza di titolo esecutivo alle private scritture”[13] (discussione nel corso della quale venne significativamente sottolineato che “la legge toscana attribuisce tale efficacia alle scritte dal Notaio recognite”[14]), il tema dominante era proprio costituito dalla formula esecutiva[15]. Affinché una scrittura privata – nota un Commissario – “possa aver forza di titolo esecutivo è necessario che abbia la formola esecutiva, e per questa è indispensabile l’intervento del pubblico Uffiziale”[16]. Gli fa eco un altro Commissario osservando “che nell’esecuzione si tratta di spropriare il debitore, cosa questa troppo grave da richiedere la guarentigia della formola esecutiva”[17].
2.- Chi giudichi plausibile la lettura ora proposta dovrà riconoscere che il fulcro dell’art. 24 r.d. n. 2600 del 1865 cit. risiede nel collegamento – che vi è istituito – con il contenuto della formula esecutiva contemplato dall’art. 556 c.p.c. 1865. Non persuade di conseguenza la tesi secondo la quale il legislatore del 1865 avrebbe introdotto l’art. 24 cit. perché – stando a quanto si legge nella sentenza della Suprema Corte – “avvertì il bisogno di disciplinare espressamente l’efficacia esecutiva delle scritture private autenticate formate prima dell’entrata in vigore del c.p.c. del 1865 (che tale efficacia in linea generale negava)”. Inversamente, sviluppando la interpretazione qui accolta, il motivo determinante dell’intervento legislativo in esame va con ogni probabilità ricercato nella volontà dei conditores di coerenziare la (“conservata”) efficacia di titolo esecutivo delle scritture private toscane con una nuova realtà politica la quale imponeva che pure la spedizione in forma esecutiva della copia di esse fosse effettuata nel nome del Re d’Italia.
In questo modo, anche il riferimento alla “conservazione della efficacia esecutoria” delle scritture private toscane – contenuto nella prima parte dell’art. 24 r.d. n. 2600 del 1865 cit. – pare guadagnare un significato differente da quello individuato dalla Cassazione (per la quale, “in assenza di quella norma ad hoc, tale efficacia esecutiva le scritture private anteriori non avrebbero potuto avere: e ciò conferma che l’efficacia esecutiva si valuta in base al momento in cui il titolo viene messo in esecuzione, non in base alla legge vigente al momento della formazione del titolo”).
Tutto lascia credere che, tratto a disciplinare la scrittura privata toscana nel suo valore di titolo esecutivo dalla ineludibile necessità di accordarne l’efficacia alla “nuova” modalità di redazione della formula esecutiva ex art. 556 c.p.c., il legislatore del 1865 altro non abbia fatto che presupporne la (già acquisita) forza esecutiva. Si può far leva al riguardo sul verbo (“conservare” e non, che so, “attribuire”, “assegnare” o simili) impiegato nella proposizione d’esordio dell’art. 24 cit., per la quale le predette scritture private “conserveranno efficacia esecutoria”.
Spinto insomma esclusivamente dalla esigenza di incidere sul quomodo della esecuzione delle scritture private toscane riconosciute dinanzi a notaio in materia ipotecaria (in rapporto al “nuovo” contenuto della formula esecutiva recato dall’art. 556 c.p.c.), il legislatore del 1865 ha dovuto per forza di cose precisarne nell’art. 24 cit. gli estremi identificativi e, in via meramente ricognitiva[18], denotarne la (“conservata”) efficacia esecutiva acquisita sin dal momento della loro formazione.
Quantunque ne subordinasse (per le ragioni dianzi enumerate) la efficacia di titolo esecutivo al rispetto del “nuovo” art. 556 c.p.c. 1865, nelle intenzioni del legislatore del 1865 la scrittura privata toscana in materia ipotecaria avrebbe dovuto in linea di principio “conservare” gli attributi originari, in contemplazione dei quali le parti ne avevano a suo tempo curata la formazione, orientando segnatamente il loro comportamento in base alla rappresentazione della futura efficacia esecutiva del titolo che si proponevano di formare.
Al fondo si intuisce l’idea, vorremmo dire il sentimento, che, se l’individuo piega “la propria volontà alla necessità della legge”, lo fa alla condizione che “quest’ultima gli doni la propria garanzia, ossia gli dia la possibilità di attuare un comportamento che si protende nel futuro, quindi compiere un’azione come estrinsecazione di un programma di vita”[19]. Più ampiamente, se si nutre la idea e si coltiva il sentimento che la “legge fa sapere” – deve far sapere, vorremmo chiosare – “a ciascuno ciò che egli può volere”[20], se ne desume ragionevolmente che anche nella materia sotto esame è doveroso avere riguardo in prima battuta agli effetti (inclusi quelli esecutivi) che la legge associa ad un atto giuridico al momento della sua formazione, perché è in quell’istante che gli individui, entrando in rapporto tra loro, organizzano le loro reciproche relazioni in modo tale da far sì che i mezzi utilizzati siano prevedibili nei loro effetti e siano in grado di assicurare il raggiungimento dei fini desiderati.
Che questo ordine di idee sia riferibile alle scritture private in rapporto alla loro eventuale forza esecutiva può dedursi attualmente – per limitarsi ad un esempio – dalla interpretazione invalsa circa l’art. 63 co. 2 legge cambiaria (r.d. 14 dicembre 1933, n. 1669)[21]. In dottrina[22] si ritiene, da un lato, che “l’efficacia esecutiva della cambiale non può non ricollegarsi al momento in cui il debitore si assoggetta alle conseguenze che la legge fa derivare dalla forma adottata per la dichiarazione impegnativa”[23], e, dall’altro, che “la ratio dell’art. 63 si ravvisa nell’esigenza che l’obbligato abbia la consapevolezza che l’assunzione di un’obbligazione cambiaria si risolve in assoggettamento all’esecuzione forzata”[24].
3.- Sembra ubbidire a questa stessa logica[25] pure l’art. 9 r.d. 14 dicembre 1882 n. 1113 (“contenente le disposizioni transitorie per l’attuazione del Codice di Commercio del Regno d’ Italia”), il cui co. 1 dispone che “le lettere di cambio e i biglietti all’ordine emessi anteriormente al nuovo Codice, le loro girate, accettazioni ed avalli, in qualunque tempo fatti, sono regolati dalle leggi anteriori e non si applica ai suddetti titoli l’art. 323 del Codice stesso”[26]. Come noto, stando al co. 1 di questo articolo del cod. comm. 1882 “per l’esercizio dell’azione cambiaria la cambiale ha gli effetti del titolo esecutivo, secondo le disposizioni dell’art. 554 del codice di procedura civile, per il capitale e gli accessori”.
Senza dubbio dinanzi all’art. 9 co. 1 cit. (laddove stabilisce che le lettere di cambio e i biglietti all’ordine emessi in data anteriore al nuovo codice di commercio siano regolati dalle leggi anteriori e continuino pertanto a non avere gli effetti di titolo esecutivo) ci si può porre in due modi. Il primo è quello prescelto, con un approccio more geometrico, dalla Cassazione (se “l’esecutività dei titoli stragiudiziali andasse valutata sempre in base alla legge vigente al momento della formazione, e non a quello dell’esecuzione, della suddetta norma non vi sarebbe stato bisogno”). L’altro è quello qui proposto. Le ragioni che inducono un legislatore ad introdurre una certa norma transitoria possono essere le più varie. Ciò avviene oggi[27], come accadeva ieri. Nelle pagine precedenti abbiamo cercato, non per caso, di spiegare i motivi che spinsero il legislatore del 1865 ad introdurre la disposizione transitoria (art. 24 cit.) per l’attuazione del codice di procedura civile.
Sembra allora ragionevole ipotizzare che, in occasione di una nuova importante codificazione quale quella del diritto commerciale ed in presenza di una disposizione fortemente innovativa quale l’art. 323 cod. comm. cit. (che attribuiva alle cambiali la efficacia di titolo esecutivo), il legislatore fosse pervaso dalla preoccupazione di fugare ogni dubbio[28] circa il regime dei titoli emessi anteriormente, al punto da spingersi a ribadire in norma espressa meramente ricognitiva[29] (l’art. 9 cit.) un principio generale dell’ordinamento: un principio che, pur in assenza di una norma ad hoc, avrebbe comunque già rappresentato un indispensabile criterio di giudizio, per essere consacrato – a tacer d’altro[30] – nell’art. 2[31] delle disposizioni preliminari al codice civile italiano del 1865 (per il quale “la legge non dispone che per l’avvenire; essa non ha effetto retroattivo”).
4.- Una rapidissima considerazione finale va riservata al richiamo effettuato nella sentenza della Suprema Corte[32] di un antico precedente francese del 9 Vendemmiaio anno XI (1° ottobre 1802), quindi di poco meno di duecentoventi anni fa.
L’attenzione dell’interprete per questo insolito (pur in epoca di “dialogo fra le Corti”[33]) riferimento è accresciuta dal fatto che nella sentenza in esame non vi è alcuna menzione dei precedenti (pur numerosi[34] e innegabilmente ben più recenti) della stessa Cassazione[35] concernenti la portata del principio tempus regit actum. Per coloro che anelino – come usualmente accade[36] – a consultare la risalente decisione si pone l’ovvio ostacolo della sua reperibilità[37]. Noi stessi, nei pochi giorni dedicati a questa annotazione a prima lettura, abbiamo dovuto accontentarci di una citazione di seconda mano[38]. L’abbiamo tratta dalla traduzione in italiano dello “incomparabile articolo intorno all’Effetto Retroattivo con che il Conte Merlin arricchì l’ultima edizione del suo famoso Repertorio di Giurisprudenza”[39].
Non possiamo nascondere una perplessità di fondo su questa traduzione: il caso deciso (e illustrato nel lavoro – volto in italiano – di Philippe-Antoine Merlin) corrisponde a quello descritto nella sentenza (se cioè – per usare le parole della Cassazione – “un contratto potesse essere messo in esecuzione nei confronti degli eredi d’uno dei contraenti, possibilità consentita dalla legge al momento dell’inizio dell’esecuzione, ma vietata all’epoca della stipula”), così come coincide la data della pronunzia (9 Vendemmiaio anno XI). È però indicata diversamente l’autorità giurisdizionale. Il traduttore del lavoro di Merlin si riferisce alla Corte d’appello di Parigi[40]. La sentenza richiama la “Cour de cassation di Parigi”, e a questo dobbiamo senza ombra di dubbio attenerci, nella comune consapevolezza, peraltro, che alla data della decisione francese citata (1° ottobre 1802, 9 Vendemmiaio anno XI) esisteva ancora il Tribunal de cassation, che sarebbe divenuto Cour de cassation solo qualche tempo dopo, nel 1804[41].
Al di là di questo, preme piuttosto evidenziare conclusivamente due aspetti del tutto peculiari che emergono dall’antico precedente francese del 1802. Il primo è legato alla data della pronuncia, con la Francia ancora immersa nel clima politico e sociale suscitato dagli sconvolgimenti rivoluzionari[42]. Non c’è epoca meno adatta per rintracciare conferme del principio di irretroattività della legge di quella nella quale domini lo spirito rivoluzionario[43], il quale – proponendosi di edificare ordinamenti nuovi e di fare tabula rasa del passato – impiega fatalmente in larga misura il concetto di retroattività, usandolo “in senso proprio”[44]. Il secondo tema è connesso al precedente ed è collegato al fatto che la decisione francese del 1802 non sembra che si intrattenga sul rapporto tra due leggi, ma (a quanto pare[45]) tra una legge sopravvenuta e la anteriore coutume parigina[46] (la “Costumanza di Parigi”[47] per usare le parole del traduttore di Merlin). La circostanza[48] non sembra trascurabile. Si sa infatti che, proprio in quel torno di tempo[49], fagocitato dalla legge, il diritto consuetudinario stava diventando “un relitto di epoche giuridiche tramontate”[50].
[1] Il lavoro di B. Capponi (che abbiamo letto in anteprima) sarà pubblicato nel prossimo numero della Rassegna dell’esecuzione forzata.
[2] B. Sassani, Può lo jus superveniens conferire la qualità di titolo esecutivo ad una vecchia scrittura privata autenticata?, in Judicium, 14 febbraio 2020.
[3] F. Auletta, La teoria del potere unitario: il titolo esecutivo senza legge e il diritto (sempre e comunque) giudiziario, in Judicium, 18 febbraio 2020.
[4] Il co. 1 dell’art. 24 così dispone: “Le scritture private state anteriormente al 1° gennaio 1866 firmate e riconosciute a tenore della legge ipotecaria del 2 maggio 1836, conserveranno efficacia esecutoria, purché ne sia spedita copia in forma esecutiva nel modo prescritto dall’art. 556 del nuovo Codice di procedura civile”. Il co. 2 del medesimo articolo così prosegue: “A tale effetto la copia sarà, sulla presentazione dell’originale della scrittura, spedita dal notaro che ha rogata la ricognizione notarile prescritta dall’art. 69 della succitata legge ipotecaria”. Infine, il co. 3 stabilisce che, “in mancanza di detto notaro, la copia sarà spedita dal cancelliere del tribunale civile e correzionale del luogo in cui seguì la ricognizione notarile della scrittura”.
[5] In congiunzione con le norme del Regolamento di procedura civile toscano del 1814. Si v., ad es., l’art. CXXII del Motuproprio per il Granducato di Toscana sui privilegi e le ipoteche del 2 maggio 1836. Il Regolamento del 1814 è pubblicato in Testi e documenti per la storia del processo, a cura di N. Picardi e A. Giuliani, Milano, 2004, con Introduzione di M. Ascheri, L’unificazione giuridica della Toscana Lorenense (1814): «La giustizia è religiosamente amministrata», IX-XVI, e con un saggio di A. Calussi, Dalla riforma dei Tribunali all’approvazione del Regolamento di procedura civile, ovvero il ritorno alla tradizione processuale Leopoldina nella Toscana del 1814, XIX ss.
[6] L’art. 24 r.d. n. 2600 del 1865 chiama il Motuproprio “legge ipotecaria del 2 maggio 1836”.
[7] L’icastica espressione è di R. Vaccarella, Titolo esecutivo, precetto, opposizioni, 2a, Torino, 1993, 27. La centralità della formula esecutiva viene meno allorché nel 1882, nel codice di commercio, alla cambiale è attribuita la qualità di titolo esecutivo senza bisogno della formula. Non si può più sostenere che la forza esecutiva sia conferita all’atto dall’esterno tramite la formula. Quella forza diviene invece la espressione di una “virtù” intrinseca dell’atto. Su questa evoluzione rinviamo al fondamentale lavoro di Vaccarella, op. cit., spec. 15-31, 90-95, 106-107.
[8] L. Mattirolo, Trattato di diritto giudiziario civile italiano, 5a, a cura dell’Avv. C. Lessona, Torino, 1905, V, 282.
[9] Restavano naturalmente il Papa (in ciò che rimaneva dello Stato pontificio, poi estintosi per debellatio il 20 settembre 1870) e (fino al 1866) i territori sotto il dominio asburgico del Veneto, della provincia di Mantova e del Friuli.
[12] In Processi verbali delle sedute della Commissione speciale istituita pel coordinamento del codice di procedura civile e per proporre le relative disposizioni transitorie, Torino, 1868, 133-134.
[13] “Dacché le medesime, giusta il Progetto del Codice civile, sono rese capaci a conferire ipoteca”: in Processi verbali, cit., 133.
[14] In Processi verbali, cit., 134. Il Commissario che richiamò la legge toscana lo fece per dimostrare la opportunità che anche alle scritture private fosse assegnata forza di titolo esecutivo: egli evidenziava che il sistema toscano non aveva “prodotto verun inconveniente, anzi con ciò evitarsi giudizi e spese”.
[15] La Commissione respinse altresì “la proposta di dar forza esecutiva alle cambiali per le stesse ragioni per cui tale efficacia fu diniegata alla scrittura privata, non essendo altro la cambiale che una scritta”: in Processi verbali, cit., 135-136.
[21] Secondo cui “la cambiale emessa all’estero ha gli stessi effetti in quanto questi siano ammessi dalla legge del luogo in cui la cambiale è stata emessa”.
[22] L. Laudisa, Trattamento processuale della cambiale e dell’assegno esteri, in Riv. dir. proc., 1979, 378 ss., spec. 386 ss.; in senso conforme v. R. Vaccarella, op. cit., 177.
[23] Richiamato il principio dell’autonomia delle obbligazioni cambiarie, “se ne deduce che si può procedere ad esecuzione forzata contro un obbligato cambiario solo se una simile efficacia del titolo è prevista nel luogo di sottoscrizione della singola obbligazione”: L. Laudisa, op. loc. cit.
[24] “Ne deriva che una cambiale emessa in Italia può non essere titolo esecutivo nei confronti di un obbligato che l’ha sottoscritta all’estero”: L. Laudisa, op. loc. cit.
[25] Non abbiamo rinvenuto indicazioni (nella rapida ricerca alla base di questa annotazione a prima lettura) nei lavori preparatori consultati nei volumi di A. Marghieri, I motivi del nuovo codice di commercio italiano ossia raccolta completa di tutti i lavori preparatori delle commissioni, relazioni ministeriali, discussioni parlamentari che hanno preceduto la sua pubblicazione eseguita sui testi ufficiali, preceduta dal testo del nuovo codice col richiamo sotto ogni articolo dei motivi riguardanti le speciali disposizioni, Napoli, 1886.
[26] Per il co. 2 dell’art. 9 “devono tuttavia ad essi applicarsi dal giorno dell’attuazione del nuovo Codice, le disposizioni di questi che riguardano la forma e i termini del protesto, ed i provvedimenti da emettersi in caso di smarrimento delle cambiali”. Secondo il co. 3 “per le lettere di cambio e i biglietti all’ ordine che scadono il 30 e il 31 dicembre 1882 la forma e il termine del pretesto sono egualmente regolati dal nuovo Codice”.
[27] Capponi (nel lavoro menzionato retro in nota 1) ha ricordato il significativo esempio costituito dal d.l. n. 571/1994, convertito dalla l. n. 673/1994.
[28] Quei dubbi che, per come vanno le cose del mondo, avrebbero comunque potuto essere avanzati nei commerci e prospettati nel foro (pur nel vigore dell’art. 2 disp. prel. c.c. 1865). Si ricordi, d’altronde, da altro punto di vista, ciò che è stato scritto a suo tempo a proposito della traduzione in norma di diritto positivo dell’indiscusso principio della irretroattività: questo principio, “sebbene insegnato dalla scienza in modo non contestato e non contestabile, non è però inutile che sia esplicitamente proclamato in un testo generale di legge”, “perché non può considerarsi mai come superfluo che siano richiamate alla mente dei magistrati le grandi massime a cui devono uniformarsi nell’interpretare e applicare le leggi”: F.S. Bianchi, Corso di codice civile italiano, Torino, 1888-1922, I, 57 (cit. in R. Quadri, Dell’applicazione della legge in generale, in Commentario del codice civile, a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma, 1974, 46, nota 10).
[29] All’art. 9 va riconosciuto un valore (non già costitutivo, ma unicamente) dichiarativo di un punto di vista generale dell’ordinamento dell’epoca.
[30] Nella problematica della irretroattività della legge poteva essere collocato verosimilmente anche l’art. 73 dello Statuto del Regno d’Italia per il quale “l’interpretazione delle leggi, in modo per tutti obbligatorio, spetta esclusivamente al potere legislativo”: v., sul punto, R. Quadri, Dell’applicazione della legge in generale, cit., 38.
[31] Sui precedenti della norma v. R. Quadri, op. cit., 38-39. L’art. 11 disp. prel. c.c. (in vigore dal 21 aprile 1942) “non è che una riproduzione testuale” dell’art. 2 cit.: ivi, 42.
[32] Si legge testualmente in sentenza: “Può essere emblematico, al riguardo, ricordare come un caso pressoché identico a quello oggi all’esame di questa Corte venne deciso dalla Cour de cassation di Parigi il 9 Vendemmiaio anno XI (1 ottobre 1802): in quel caso si trattava di stabilire se un contratto potesse essere messo in esecuzione nei confronti degli eredi d’uno dei contraenti, possibilità consentita dalla legge al momento dell’inizio dell’esecuzione, ma vietata all’epoca della stipula. La risposta affermativa fu fondata sull’assunto che “non sono le parti che eseguono, è il potere pubblico che presta loro il suo appoggio per ottenere l’esecuzione forzata”.
[33] Già tipico della tradizione dei Tribunali Supremi nei secoli XVI-XVIII (ma profondamente ridimensionato con l’avvento della Cassazione nel contesto della imperante ideologia statual-legalistica). Rinviamo sul punto ai lavori di G. Gorla, ora raccolti in Diritto comparato e diritto comune europeo, a cura di M. Lupoi, Milano, 1981 (v., in particolare, I tribunali supremi degli Stati italiani preunitari quali fattori della unificazione del diritto nello Stato e della sua uniformazione fra Stati, ivi, 509 ss.). Nella attività dei Tribunali Supremi era frequente il richiamo vuoi alla “consuetudo iudicandi totius Italiae” vuoi “totius orbis”. Vi si coglieva una spiccata apertura agli altri ordinamenti e ai valori che vi erano presenti, nella prospettiva di un ordinamento più generale nel quale continuava a respirarsi l’atmosfera della comunità giuridica del diritto comune. È stato Nicola Picardi a richiamare l’attenzione dei processualcivilisti sull’opera del giurista cremasco sui Tribunali Supremi. L’invito è stato raccolto dagli allievi: v. – in rapporto al tema della giurisdizione – R. Martino, La giurisdizione italiana nelle controversie civili transnazionali, Padova, 2001, 27; nonché, se vuoi, in relazione alla Cassazione, A. Panzarola, Presente e passato della Cassazione civile italiana fra nomofilachia e giustizia del caso concreto, in Il processo, 2018, 79 ss., spec. 91 ss.; nonché La Cassazione civile giudice del merito, Torino, 2005, I, 191 ss.
[34] Per il loro accurato esame rinviamo al commento di B. Capponi (ricordato retro in nota 1).
[35] Ma anche della Corte costituzionale. V. la nota precedente.
[36] E ciò vale, come tutti sanno, a maggior ragione in un’epoca come l’attuale nella quale si assiste ad una vera e propria ipostatizzazione della funzione nomofilattica della Suprema Corte.
[37] Reperibilità, è da credere, da valutare anche da un punto di vista pratico, nella prospettiva dell’avvocato che dovesse in futuro proporre ricorso per cassazione sulla medesima questione già decisa dalla sentenza annotata. È certo ozioso chiedersi se questo ipotetico avvocato dovrà esaminare (per conformarsi all’art. 360 bis n. 1 c.p.c.) anche l’antico precedente francese (perché la norma sul filtro menzionata, come tutti sanno, si riferisce ovviamente solo “alla giurisprudenza della Corte” di cassazione italiana). È facile intuire che sarebbe nondimeno opportuna – nella situazione testé descritta – la consultazione dell’antico precedente francese.
[38] P.-A. Merlin, Trattato sull’effetto retroattivo, trad. it. di L.M. Fanelli, Napoli, 1835, 226.
[39] Sono le parole impiegate dal traduttore Lelio M. Fanelli nella prima pagina della sua breve introduzione all’opera di Merlin contenuta nel Répertoire universel et raisonné de jurisprudence. Sul Repertorio di Merlin v. U. Petronio, La lotta per la codificazione, Torino, 2002, spec. 121 ss.
[40] “E ciò è stato giudicato con decisione della corte di appello di Parigi de’ 9 vendemmiajo anno 11. (Jurisprudence de la cour de cassation, tomo 4, p. 2 , pag. 8)”: P.-A. Merlin, op. cit., 226.
[41] V., per tutti, di J.-L. Halpérin, Le Tribunal de cassation et les pouvoirs sous la Révolution (1790-1799), con prefazione di Gérard Sautel, Paris, 1987 (nella «Bibliothèque d’histoire du droit et droit romain», sotto la direzione di P.C. Timbal), 266.
[42] Non va evidentemente presa alla lettera la affermazione ad effetto secondo cui – dopo il colpo di stato di brumaio (9 novembre 1799, 18 brumaio secondo il calendario rivoluzionario) – “in meno di 15 settimane Napoleone aveva efficacemente posto fine alla rivoluzione francese”: A. Roberts, Napoleone il Grande, (2014), trad. it. Torino, 2015, 304. Eventi simili si verificano, come ovvio, gradualmente (e del resto “proprio nel continuum Rivoluzione – età napoleonica” “nasce l’individuo moderno” – così, richiamandosi ad Adolphe Thiers, L. Mascilli Migliorini, Napoleone, Roma, 2001, 9). In ogni caso anche il grandioso progetto di riforma legislativa di Napoleone (mentre esprime un connotato tipico della rivoluzione come “idea che si possa cambiare verso il futuro” attraverso la legge: S. Valzania, Napoleone, Palermo, 2011, 23, 25) si pone in radicale discontinuità con il passato. V. infra in nota 46.
[43] Dopo tutto anche Merlin è, per così dire, figlio della Rivoluzione francese (v., sulla sua vicenda personale, i rapidi cenni di U. Petronio, op. cit., 121-122). Egli prese parte a tutta la evoluzione politica e amministrativa rivoluzionaria: deputato del terzo stato per il baliaggio di Douai agli Stati generali del 1789; membro di rilievo alla Assemblea costituente (nella quale emersero le sue notevoli doti di legiferatore, fra l’altro in materia successoria); deputato alla Convenzione; fra i capi della reazione termidorista; fra coloro che il 13 vendemmiaio conferirono i pieni poteri a Barras e Bonaparte; più volte ministro; membro del Direttorio; collaboratore di Napoleone nelle sue riforme legislative; fra l’altro, procuratore generale in Cassazione e consigliere di stato a vita. Dopo la caduta dell’imperatore fu costretto a lasciare la Francia fino al 1830. Forse anche alla luce di questa esperienza si può spiegare la posizione espressa da P.-A. Merlin, op. cit., 226 sul punto sotto esame (una posizione consonante con quella oggi accolta dalla Cassazione): secondo il giurista francese “i diritti che al momento in cui una legge si pubblica sono acquistati sulla materia che essa concerne, sono per sé stessi indipendenti dalle nuove regole che la medesima stabilisce, perché sotto questo aspetto appartengono al passato. Ma quanto al modo di loro esecuzione appartengono all’avvenire, e per conseguenza è la legge nuova che a questo riguardo dee tenersi per guida”.
[45] Se si dà credito alla traduzione del lavoro di Merlin che abbiamo sotto gli occhi.
[46] Quando alla fine di gennaio del 1801 Napoleone, ancora console (sarebbe divenuto console a vita nel 1802 ed imperatore nel 1804), inaugurò il suo ambizioso progetto di riforma legislativa (destinato a concludersi negli anni avvenire) erano “in vigore non meno di 366 codici locali, e nella Francia meridionale si osservava un insieme di principi legali fondamentalmente diversi, basati sul diritto romano e non sulla legge consuetudinaria come nel nord”: A. Roberts, Napoleone il Grande, cit., 334. Continuava ad essere diffusa la aspirazione (tipicamente rivoluzionaria) di fare piazza pulita (in ogni modo) di tutti gli svariati diritti locali e consuetudinari per sostituire ad essi una legislazione uniforme per tutta la nazione.
[47] “Quindi sebbene sotto l’impero della Costumanza di Parigi sia stato stipulato un contratto autentico, il quale a tenore della detta Costumanza non poteva esser messo dal creditore in esecuzione contra gli eredi del debitore se non dopo averlo fatto dichiarare esecutorio contro di essi in virtù di sentenza, non lascia di essere suscettivo dell’applicazione” della norma che estende agli eredi i titoli esecutivi contro il defunto: così P.-A. Merlin, op. loc. cit.
[49] In “quell’età di rivolgimenti sociali che iniziatasi con la Rivoluzione francese concluse alla formazione dei Codici”: N. Bobbio, La consuetudine come fatto normativo, Padova, 1942, 13.