Azione revocatoria e stati soggettivi rilevanti: le Sezioni Unite definiscono il concetto di dolosa preordinazione dell’atto al fine di pregiudicare il soddisfacimento del creditore. Alcune riflessioni di complemento.

Di Pier Girolamo Attanasio -

Cassazione civile, Sez. Unite, 27/01/2025, (ud. 08/10/2024), n. 1898 (Pres. D’Ascola – Rel. Mercolino – P.M. Troncone [accoglimento] – Avv.ti Migliazzo e Sassani)

In tema di azione revocatoria, quando l’atto di disposizione è anteriore al sorgere del credito, ad integrare la “dolosa preordinazione” richiesta dallo art. 2901, primo comma, cod. civ. non è sufficiente la mera consapevolezza, da parte del debitore, del pregiudizio che l’atto arreca alle ragioni dei creditori (c.d. dolo generico), ma è necessario che l’atto sia stato posto in essere dal debitore in funzione del sorgere dell’obbligazione, al fine d’impedire o rendere più difficile l’azione esecutiva o comunque di pregiudicare il soddisfacimento del credito, attraverso una modificazione della consistenza o della composizione del proprio patrimonio (c.d. dolo specifico), e che, trattandosi di atto a titolo oneroso, il terzo fosse a conoscenza dell’intento specificamente perseguito dal debitore rispetto al debito futuro

1.Introduzione. Con la sentenza in rassegna, le Sezioni Unite risolvono una questione interpretativa dall’esito, francamente, scontato, non fosse altro perché il disposto dell’all’art. 2901, comma 1, c.c., è chiaro nel contemplare – quale requisito necessario della frode pauliana ante creditum (vale a dire, macchinata in vista della futura stipulazione dell’obbligazione) – un “atto (…) dolosamente preordinato al fine di pregiudicar[n]e il soddisfacimento [n.d.r. delle ragioni del creditore]”[1].

Tale concetto, infatti, veniva inopinatamente inteso in maniera diversa da due opposti orientamenti qualificabili, con linguaggio mutuato dal diritto penale, del “dolo specifico” e del “dolo generico”.

Secondo l’orientamento del dolo specifico (quello esatto, già maggioritario), la dolosa preordinazione dell’atto a pregiudicare il creditore sarebbe stata costituita da un “intento fraudolento” in capo al disponente, il quale avrebbe constato – a seconda delle tante enunciazioni della fattispecie pauliana di volta in volta divisate – ora della “volontà di stipular[e] al fine precipuo di nuocere [ai creditori]”[2]; ora della “intenzione di contrarre debiti ovvero (…) consapevole[zza] del sorgere della futura obbligazione” (volendo l’autore compiere l’atto “in funzione del sorgere dell’obbligazione, per porsi in una situazione di totale o parziale impossidenza, in modo da precludere o rendere difficile al creditore l’attuazione coattiva del suo diritto”)[3]; ora della “dolosa preordinazione dell’alienazione ad opera del disponente rispetto al credito futuro”, non essendo sufficiente “l’accertamento del consilium fraudis[4].

Non mancavano casi dove la giurisprudenza, sempre richiamandosi alla tesi del dolo specifico, si limitava a parlare di “dolosa preordinazione” senza esibire analiticamente il concetto, a riprova che esso, per come scolpito dalla littera legis, già fosse sufficientemente chiaro per essere afferrato saldamente dall’intelletto dell’interprete[5].

Una sentenza relativamente recente – richiamata, infatti, dallo stesso provvedimento qui annotato – precisava i connotati della frode pauliana ante creditum in termini di “calliditas” e “animus nocendi” del debitore, “in luogo della semplice scientia damni”, aggiungendo che la prospettazione dell’anteriorità dell’atto al sorgere del credito “muta radicalmente il thema decidendum e il thema probandum della proposta azione revocatoria[6].

La tesi contraria – sostenuta da un indirizzo minoritario, ma di rapidissimo successo – si accontentava, invece, del semplice “dolo generico”, “id est la mera previsione, da parte del debitore, del pregiudizio dei creditori”, sufficiente a far nascere nel disponente il c.d. “animus nocendi”.

Nella pronuncia che, prima nella giurisprudenza pratica[7], additava quest’ultima soluzione, veniva negata sia l’esigenza di verificare la “consapevole volontà di contrarre debiti” in capo al tradens (non ancora debitore, trattandosi – lo ribadiamo – di frode ante creditum) sia la “consapevolezza da parte sua del sorgere della futura obbligazione[8]; soprattutto, si negava l’irriducibile esigenza che il futuro creditore agisse al solo intento di porsi in una “situazione di totale o parziale impossidenza”, idonea a “precludere o rendere difficile al creditore l’attuazione coattiva del suo diritto”; essendo sufficiente, al contrario, il semplice “dolo generico, sostanziantesi nella mera previsione del pregiudizio dei creditori”, ovverosia nell’ormai ridotta portata della frode pauliana ante creditum alla semplice previsione “dell’insorgenza del debito e del pregiudizio”. Tali assunti, infine, si consolidavano nella massima secondo cui “in tema di azione revocatoria, quando l’atto di disposizione è anteriore al sorgere del credito, ad integrare l’animus nocendi richiesto dall’art. 2901, comma 1, n. 1, c.c. è sufficiente il mero dolo generico e, cioè, la mera previsione, da parte del debitore, del pregiudizio arrecato ai creditori, non essendo invece necessaria la ricorrenza del dolo specifico, vale a dire la consapevole volontà di pregiudicare le ragioni creditorie[9].

Alla soluzione cui pervengono, oggi, le Sezioni Unite vi si sarebbe potuti giungere anche attraverso considerazioni di altro ordine che, in questa sede, offriamo a corredo dell’ampio iter motivazionale di cui la sentenza in rassegna dà eccellentissimamente conto. Si procederà, così, dalla previa ricognizione storica degli elementi essenziali della fattispecie pauliana, per poi illustrare l’ambito obiettivo della norma (cosa si intende per ragione di credito, o credito futuro?) e, solo infine, giustificare l’attuale soluzione nomofilattica, oltre che sulla scorta dell’argomento letterale, anche in considerazione della necessaria coerenza sistematica in cui devono armonizzarsi, nella loro teleologica monoliticità, i vari orientamenti di cassazione[10].

Gioverà, in primis, un breve cenno all’evoluzione giurisprudenziale (sia teorica che pratica) della nozione di “frode pauliana”, relativamente ai negozi dispositivi compiuti obligatione pendente, per poi verificare differenze e analogie con l’attigua vicenda della frode anteriore alla nascita del credito.

Si noterà che il contrasto interpretativo risolto dal Supremo Collegio prende l’abbrivio da una disputa che imita, per così dire, “in piccolo” (se non altro perché i casi di frode ante creditum sono statisticamente minori dei casi di frode in pendenza dell’obbligazione) le nomenclature, i temi e gli argomenti di una vexata e risalente questione relativa all’esatta interpretazione del concetto di “frode” e “pendenza dell’obbligazione”, discussa nel vigore dell’art. 1235 del codice civile antevigente e sopita, ratione auctoritatis, dai codificatori del ’42; i quali – questi ultimi – preferirono, tuttavia, conservare la nozione compendiosa e sintetica del concetto di frode pauliana per le sole ipotesi di atto anteriore alla nascita del credito[11].

Emergerà anche la circostanza che i limiti della nozione di “ragione del credito” – di amplissima latitudine e pressocché sconfinati – sono tali far ricadere nel concetto di frode commessa obligatione pendente anche vicende in cui il credito lesionato dal congegno pauliano si riveli, giuridicamente, come una semplice eventualità, più o meno probabile; circostanza di non poco momento, non fosse altro perché quanto più si dilata il campo di applicazione dell’azione sorretta dalla semplice scientia damni (propria, come si vedrà, della pauliana esperita contro un atto compiuto obligatione pendente), tanto più rari diventeranno i casi in cui occorrerà provare la “dolosa preordinazione” del debitore per reprimere gli effetti dannosi della disposizione fraudolenta.

Il reciproco effetto tra i risultati di tali indagini offrirà la dimostrazione che (almeno in tema di obbligazioni contrattuali) in caso di credito posteriore al compimento dell’atto impugnato, la possibilità, per il giudice, di pronunciare l’accoglimento dell’azione contempli, necessariamente, tra le sue condizioni di legittimità, l’accertamento di una machinatio, di una calliditas o di una fallacia, come esattamente affermato dalle Sezioni Unite, alle si aderisce con la presente nota.

2.Osservazioni preliminari sulla scelta della Corte di cassare con rinvio. Ma prima di entrare nel merito della elevatissima questione sostanziale che ci occuperà nelle successive pagine, ci premono alcune osservazioni in ordine alla dinamica processuale che ha condotto, all’esito della cassazione della sentenza impugnata, il giudice di legittimità a disporre il rinvio alla Corte territoriale, con l’indicazione di “indagare in ordine all’intento specificamente perseguito da[i contraenti] attraverso il compimento dell’atto ed all’eventuale conoscenza di tale intento da parte dell’Immofinanziaria, terza acquirente degli immobili alienati”.

Dalla narrativa dei fatti di causa, emerge che la Corte d’appello abbia fondato la sua decisione sulla circostanza “che l’atto impugnato [non] fosse anteriore al sorgere del credito”, salvo precisare che “quando l’atto dispositivo è anteriore al sorgere del credito, per la sussistenza dell’animus nocendi non occorr[a] il dolo specifico, ossia la consapevole volontà di arrecare pregiudizio ai creditori, ma [sia] sufficiente il dolo generico, cioè la previsione di tale pregiudizio, mentre la participatio fraudis del terzo può essere accertata anche mediante il ricorso a presunzioni, laddove, quando l’atto è successivo al sorgere del credito, è sufficiente la consapevolezza del medesimo pregiudizio”; avrebbe poi presunto l’esistenza di evenuts e scientia damni dall’anomalia dell’operazione, “costituit[a] dal contestuale trasferimento di una pluralità di beni”, dando atto, infine, “della corrispondenza intercorsa tra il creditore e la terza acquirente, con cui il primo aveva portato a conoscenza della seconda l’esistenza del credito vantato nei confronti della venditrice, nonché dell’anticipato pagamento del corrispettivo, non accompagnato dal rilascio di alcuna garanzia, desumendone la participatio fraudis”.

La Corte territoriale, pertanto, aveva ricostruito i fatti non come frode revocatoria ante creditum, bensì come fattispecie pauliana posteriore all’assunzione dell’obbligazione, salvo lasciarsi andare a dissertazioni obiter sulla fisionomia spirituale dell’elemento soggettivo del disponente, quando si tratti di frode anteriore al credito.

In questo scenario, allora, sarebbe stato più corretto che la Suprema Corte si limitasse a confermare la sentenza impugnata, salvo correggere i falsi giudizi in jure, lì contenuti, applicando l’art. 384, comma quarto, c.p.c., a mente del quale “Non sono soggette a cassazione le sentenze erroneamente motivate in diritto, quando il dispositivo sia conforme al diritto; in tal caso la Corte si limita a correggere la motivazione[12].

L’ampissima latitudine raggiunta dal concetto di “ragione” di credito, come si vedrà funditus nel prosieguo, contribuirà a rafforzare la nostra convinzione, essendo estremamente probabile che nei fatti offerti all’esame del giudice di merito si sarebbero potuti già scorgere gli estremi dell’atto posteriore al sorgere del credito, così da confermare, senz’altro, la sua decisione.

3.Lo stato soggettivo del debitore. Premessa storica.

L’elemento del consilium fraudis è di antichissima memoria e risale al diritto romano, nel quale si consolidarono almeno tre strumenti revocatori, tutti fondati sulla frode ai creditori: la denegatio actionis ob fraudem, la restitutio in integrum ob fraudem e l’interdictum fraudatorium.

La principale misura revocatoria era la restitutio in integrum ob fraudem, figura centrale intorno alla quale si sviluppò, nel corso dei secoli, l’istituto della revoca fraudationis causa. Questa clausola restitutoria veniva concessa dal magistrato contro gli atti “quae fraudationis causa gesta erunt cum eo, qui fraudem non ignoraverint” (D., 42, 8, 17, 1 pr.).

Un frammento centrale, pervenutoci attraverso D. 50, 17, 79, prescriveva che “Fraudis interpretatio semper in iure civili non ex eventu dumtaxat, sed ex consilio quoque desideratur”, in modo tale da mettere subito in chiaro che l’accento logico dell’intera disciplina avrebbe dovuto poggiare sulla dimostrazione di un maligno stato subiettivo del fraudator.

Nell’epoca giustinianea, tutti i rimedi confluirono in un’unica actio pauliana, sempre fondata sul consilium fraudis, elemento subiettivo che, però, aveva iniziato a suscitare alcune perplessità già nei giureconsulti di età classica[13].

Secondo alcuni, infatti, l’elemento subiettivo dell’actio pauliana si sarebbe appuntato sulla diretta intenzione del fraudator di nuocere ai creditori; secondo altri, invece, esso sarebbe comunque emerso con l’accertamento dalla semplice consapevolezza in capo al debitore disponente della propria insolvenza, ovvero dell’aggravarsi di essa come immediato riflesso dell’atto che ci si accingeva a compiere.

Alcuni frammenti della Compilazione, a ben guardare, mostrano che, in alcune ipotesi come quella di una manomissione servile o di un filius familias, la semplice conoscenza in capo al dominus della propria insolvenza era condizione sufficiente all’accoglimento del rimedio revocatorio: un parere di Giuliano, riportato in D. 42, 8, 17, 2, attesta che chi trasferiva l’intero suo patrimonio sapendo di essere debitore avrebbe potuto, per ciò solo, essere legittimamente ritenuto colpevole di frode[14].

Con il passare dei secoli – e soprattutto con lo sviluppo del diritto commerciale moderno – l’accertamento del consilium fraudis venne agevolato, in risposta alla necessità politica di difendere tanto più energicamente il ceto creditorio quanto più l’evento (ma anche il solo rischio) dell’insolvenza avrebbe potuto rovinosamente ripercuotersi nella restante parte “sana” del mercato, con un sofisticatissimo sistema di presunzioni legali relative, tutte ispirate all’id quod plerumque accidit nella pratica dei commerci quando taluno si ritrovi in istato di insolvenza.

Gli statuti comunali, così, traslarono l’onere di provare l’onestà dell’operazione (i.e., l’ignoranza di accipere o acceptare da un mercante decotto) dal creditore revocante al terzo, estraneo al rapporto obbligatorio a garanzia del quale la pauliana veniva concessa; venne altresì creato – come già accennato – uno specifico elenco di atti “anomali”, ritenuti di per sé sospetti di frode, e un vero e proprio arco temporale, anteriore alla dichiarazione di fallimento, durante il quale ogni atto compiuto dall’insolvente si sarebbe legittimamente reputato compiuto con la complicità del terzo, salvo prova contraria a carico di quest’ultimo (c.d. “periodo sospetto”)[15].

Queste manipolazioni probatorie si irradiavano anche sul terreno sostanziale, conformando la stessa struttura teorica di quello che veniva chiamato, ormai da secoli, consilium fraudis.

Muovendo dalla massima che il debitore non potrebbe, senza sua colpa, ignorare il nocumento che la propria mala gestio recherebbe alla massa di tutti i suoi creditori – non essendo verosimile che taluno, capace di intendere e volere, possa ignorare la consistenza della propria fortuna o l’andamento del proprio commercio – si attestò, in ambito fallimentare, la convinzione che la prova del consilium fraudis potesse dissolversi nel puro e semplice accertamento dello stato di insolvenza; detto altrimenti, posta la necessaria conoscenza, da parte di una persona ordinariamente diligente, del proprio patrimonio netto e delle ripercussioni (anche solo contabili) che una certa operazione di sicuro avrà sulla solidità del proprio bilancio, ove l’operazione abbia ciononostante luogo, si dovrà ragionevolmente concludere che il disponente abbia voluto scientemente anche lesionare le ragioni dei suoi creditori.

La revocabilità degli atti precedenti alla declaratoria fallimentare, invece, si basava sull’idea che lo stato di insolvenza non fosse tanto una situazione costituita ex re dalla sentenza di fallimento quanto, piuttosto, la presa d’atto di una situazione di obiettiva impotenza finanziaria del commerciante, da sola sufficiente a spossessarlo, già allo stato di fatto, di tutti i suoi averi[16].

4.Segue. Il dibattito nel vigore del Codice Pisanelli e il suo esito definitivo nel Codice del ’42 relativamente alle frodi commesse obligatione pendente. L’art. 1235, comma 1, Codice Pisanelli, permetteva “[a]i creditori [di] impugnare in proprio nome gli atti che il debitore [avesse] fatti in frode delle loro ragioni”, imitando l’art. 1167, comma 1, Code Napoléon che, in tema di effetti delle obbligazioni, accordava ai creditori la facoltà di “attaquer les actes faits par leur débiteur en fraude de leur droits”.

Ai fini dell’impugnazione dell’atto, tale frode avrebbe dovuto assumere struttura “unilaterale” o “bilaterale” a seconda della natura gratuita ovvero onerosa dell’alienazione censurata, in virtù dell’antico principio per cui qui certat de damno vitando vada preferito a qui certat de lucro captando.

Va tenuto a mente che il Codice Pisanelli non forniva alcuna distinzione, di ordine cronologico, circa il momento dell’atto lesivo o del costituirsi dell’obbligazione.

Intorno alla nozione di frode si formarono, quasi immediatamente, due opposte teorie, volte entrambe a definire la nozione di consilum fraudis: la teoria dell’animus nocendi e la teoria della scientia damni.

Per la prima teoria, elaborata in Germania, il consilium fraudis[17] veniva integrato dall’animus nocendi, vale a dire la specifica intenzione del debitore diretta alla rovina dei propri creditori tramite l’atto dispositivo; il tutto con la dovuta specificazione che tale finalità offensiva non avrebbe dovuto costituire, necessariamente, la causa impulsiva dell’atto (la primaria ragione per cui il debitore si fosse determinato a disporre), ma avrebbe potuto rilevare anche sotto veste di causa remota, venendosi a formare il consilium fraudis anche in tutti quei casi in cui il disponente avesse avuto di mira il semplice conseguimento di un arricchimento proprio o altrui, a detrimento dei suoi creditori.

Il pregio di questa teoria fu, certamente, quello di offrire una giustificazione teorica al bisogno di sottrarre alla revoca pauliana atti palesemente diretti a conseguire scopi ultronei e finanche meritori, nonostante la deminutio patrimonii che, loro tramite, veniva a realizzarsi; sua pecca, invece, l’indugiare in sottigliezze spirituali ipercritiche e imperscrutabili, anche stimolate dell’erronea supposizione che il consilium fraudis, per diritto romano,  richiedesse un quid pluris rispetto al tipico interesse del creditore a evitare, con ogni mezzo (e, quindi, anche tramite l’esercizio dell’autonomia privata), di lasciarsi spogliare di tutti i suoi beni dalle azioni esecutive dei creditori[18].

Specularmente, la teoria della scientia damni peccava di eccessiva generalizzazione posto che, ritenendo sufficiente la semplice “conoscenza” del pregiudizio, si esponeva al rischio di far cadere nel concetto di frode atti chiaramente encomiabili, come la vendita liquidatoria a giusto prezzo fatta per tacitare i creditori scaduti che minacciano imminenti azioni esecutive[19].

È allora interessante notare che, a scioglimento di queste possibili aporie valoriali, si fece sempre più largo il ricorso a una decisa (e, francamente, generosa) estensione del concetto di “pagamento”, atto irrevocabile per definizione e che, difatti, i codificatori del ’42 disciplinarono espressamente al comma terzo dell’art. 2901 c.c.

L’esclusione del pagamento del debito scaduto dal novero degli atti revocabili si basava, infatti, sulla considerazione che il concetto di un pagamento dovuto e al contempo fraudolento fosse intrinsecamente contraddittorio e, quindi, inconcepibile per ragioni logiche prima ancora che giuridiche. Se non si escludesse il pagamento dalla revoca – veniva acutamente osservato – si cadrebbe nel paradosso di un atto giuridico dovuto il cui compimento, però, integra simultaneamente gli estremi dell’atto illecito.

Passando attraverso lo spiraglio dell’atto dovuto, quindi, tutte le attività del debitore finalizzate a conseguire la provvista necessaria al pagamento di crediti scaduti si considerarono, nel loro complesso, ricadenti nella sfera del “dovuto”; soluzione che permise anche di evitare – lo si rileva en passant – il paradosso di un’inammissibile “insolvenza civile”, che non avrebbe lasciato altra scelta al debitore di abbandonare i propri beni all’espropriazione collettiva dei suoi creditori.

I codificatori del ’42, quindi, aderirono alla nozione di consilium fraudis in termini di scientia damni; statuirono espressamente l’irrevocabilità dei pagamenti scaduti e, infine, ammisero e disciplinarono expressis verbis la revoca dell’atto anteriore al credito, subordinandolo a condizioni speciali in tema di consilium fraudis[20]. Sarà, allora, di massimo interesse un’indagine su cosa si debba intendere per “credito anteriore” e “credito posteriore”[21].

5.Anteriorità e posteriorità del credito rispetto all’atto dispositivo. La legittimazione all’esercizio dell’azione revocatoria non richiede la titolarità di un credito esigibile, essendo sufficiente l’affermazione in giudizio della titolarità di una semplice “ragione” di credito. Quando i legittimati appartenenti a quest’ultima categoria agiscono in revocatoria, la loro azione assume un carattere schiettamente preventivo, coerentemente al generale potere conservativo riconosciuto dalla legge agli acquirenti di un diritto sotto condizione sospensiva o a termine (art. 1352, comma 1, c.c.)

A tali conclusioni era già approdata, in via interpretativa, la giurisprudenza pratica e teorica formatasi sotto l’imperio del Codice Pisanelli, positivamente recepita dal Nuovo Codice[22], il quale estese la legittimazione pauliana ai creditori eventuali, intesi come tutti quei soggetti per i quali la fattispecie costitutiva dell’obbligazione non si fosse ancora perfezionata ma che, comunque, avrebbero potuto aspettarsi, con buona ragione, di ritrovarsi, nel prossimo futuro, in condizione di dover avanzare pretese di credito nei confronti del debitore insolvente; per esempio, il fideiussore, benché limitatosi a promettere verso il creditore, comunque sarebbe interessato, indirettamente, al rapporto fondamentale tra promissario creditore e suo debitore principale, costituendosi, egli, garante per l’inadempimento di quest’ultimo, salve le consuete ragioni di regresso[23].

Attualmente, un orientamento ultratrentennale considera “eventuali” anche i crediti litigiosi, di qualsiasi natura, anche aquiliana, essendo credito “anteriore”, per i giudici ermellini, addirittura quello liquidato nella sentenza di condanna al risarcimento del danno ingiusto (cagionato, come è ovvio, anteriormente alla domanda), sulla base del forte assunto dogmatico che l’obbligazione risarcitoria nasca ipso facto, senza che all’uopo necessiti, in chiave costitutiva, la pretesa sanzionatoria/risarcitoria avanzata dall’interessato[24].

Tutto ciò sottolinea l’importanza di definire con precisione il concetto di credito per poter correttamente circoscrivere la portata dei concetti di credito anteriore e di credito posteriore e risolvere, così, il quesito se la frode pauliana ante creditum richieda necessariamente l’accertamento, in fatto, di una trama fraudolenta, di una sottile astuzia o di un inganno, pianificato dal contraente a detrimento del suo creditore; ovvero sia sufficiente la semplice consapevolezza che, per effetto dell’atto, il proprio futuro creditore (che, attualmente, assume, rispetto al disponente, la posizione di terzo assolutamente estraneo e indifferente) verrà deprivato della propria garanzia patrimoniale.

6.Conclusioni. Una questione dall’esito scontato. In questo quadro, è davvero arduo comprendere come si sia potuti pervenire al contrasto risolto dalla sentenza in rassegna, non foss’altro perché, già dal primo esame della littera legis (e a meno che non si voglia operare un’inammissibile interpretatio abrogans, di modo che il diverso requisito subiettivo dell’azione promossa ante creditum si confonda e sfumi in quello dell’azione promossa obligatione pendente) è lampante che, nei (soli) casi di frode ante creditum la legge richieda quella tradizionale machinatio, calliditas o fallacia, da sempre ritenuta contrassegno rimarchevole del consilium fraudis, inteso non solo nella più povera accezione di scientia damni, ma in termini di vero e proprio raggiro, artifizio o, almeno, dissimulazione di insolvenza, causalmente incidente sulla conclusione del contratto di assunzione del debito; requisito tradizionale che, nel suo rigore, la giurisprudenza fallimentare ebbe da subito a “stemperare” con generose semplificazioni probatorie, in ossequio al principio del favor creditoris, e che i codificatori del ’42, nell’ottica della ben noto tentativo di avvicinare il diritto civile al diritto commerciale, scelsero di recepire nella generale materia delle obbligazioni limitatamente, però, alle frodi commesse obligatione pendente.

La scelta politica inaugurata dai codificatori del ‘42, vista in controluce al duplice e alternativo dato testuale, sembra inequivoca: la dilatazione massima della tutela del creditore obligatione pendente attraverso un’apposita distinzione degli stati soggettivi rilevanti del debitore ratione temporis, in combinato con l’estensione iperbolica del concetto di credito, tale da emergere anche col venire in essere di una semplice “ragione” di esso.

Non sarebbe teoricamente immaginabile, allora, una soluzione ermeneutica in cui la frode ante creditum del debitore possa prescindere dall’accertamento di un elemento materiale quale un artificio, un raggiro, un trucco o una qualsiasi altra maligna escogitazione (ancorché risolventesi, infine, nel semplice contegno dissimulatorio della propria insolvenza da parte dello stipulante – futuro debitore), senza scontrarsi, frontalmente, con il fondamentale principio di materialità dell’illecito, a cui anche la fattispecie pauliana deve prestare ossequio[25]. Altrimenti, si dovrebbe rivisitare, in chiave restrittiva, la nozione di ragione di credito onde poter giustificare l’utilizzo della teoria del dolo generico a vantaggio, per esempio, del fideiussore, considerato, però, alla stregua di una vittima frodata con atto anteriore al credito. Detto altrimenti, la teoria del “dolo generico” si sarebbe potuta sostenere solo a costo di sacrificare, per ovvia coerenza, il consolidato orientamento sull’ampia nozione di credito anteriore all’atto fraudolento; nozione – come si è visto – da sempre allargata dalla giurisprudenza fino al punto di abbracciare la semplice sussistenza di una mera eventualità del credito tutelando. Così impostata la ricostruzione dell’istituto, si sarebbe certamente giustificato un alleggerimento dell’onere probatorio a carico del creditore eventuale tale da assimilare, di fatto, il concetto di dolosa preordinazione a quello, più ampio, di conoscenza del pregiudizio recato alle ragioni del creditore[26].

Includere l’ipotesi di credito eventuale, già dolosamente deteriorato, sotto il cappello della frode obligatione pendente, impone all’interprete, viceversa, di concludere che, nei veri e propri casi di frode ante creditum[27], sia sempre necessario verificare, quale imprescindibile elemento di materialità del fatto da aggiungere all’animus del frodatore, un qualche artificio o raggiro capace di dare, se così si può dire, un corpus mechanicum alla vicenda[28] (in mancanza, vi sarebbe frode tutte le volte in cui il debitore, disponendo, pensi, tra sé e sé, di poter avere, un domani, un rapporto obbligatorio con qualcuno).

L’esigenza di una quid pluris rispetto alla mera consapevolezza del contraente di obbligarsi all’adempimento di una prestazione rispetto alla quale egli resta fin da subito insolvente, si giustifica anche in ragione del dovere dello stipulante di valutare diligentemente, con un giudizio di carattere personale, la fiducia che può ragionevolmente riporre in chi ha davanti[29]. Il credito, infatti, si basa sulla fiducia, non sulla garanzia patrimoniale del debitore[30]: qualora l’atto dispositivo preceda l’assunzione del debito, la circostanza dell’insolvenza potrà essere facilmente appurabile dallo stipulante, il quale, preso atto dell’insolvenza, avrà l’onere di rifiutarsi di contrarre, onde evitare il danno.

Specularmente, deve restare a carico dello stipulante (e non dell’avente causa dal promittente) il rischio da questi volutamente assunto di aver dato fiducia a chi già fosse chiaramente insolvente, non essendo sufficiente, per la revoca pauliana dell’atto dannoso, il mero interesse a rimuovere i danni derivati dal concretarsi di questo pericolo, altrimenti evitabile. Unica eccezione legittima, l’ipotesi in cui il promittente abbia volutamente dissimulato il proprio stato di insolvenza al momento della conclusione del contratto. In quest’ultimo caso, infatti, il promittente induce in errore (o mantiene attivamente ignorante) lo stipulante circa le concrete condizioni disastrose del proprio bilancio, apparendo solvibile pur non essendo tale e commettendo, così, l’atto “dolosamente preordinato” di cui fa parola l’art. 2901 del Codice civile.

Certamente, l’intensità decettiva di tale (preordinata) dissimulazione (ovvero, ancor peggio, artificio, raggiro, trucco, imbroglio, falso ecc…), determinante del consenso della controparte, andrà valutata caso per caso, avuto riguardo alle qualità personali dei contraenti e ai rapporti tra di loro correnti, oltre che alla causa della concreta operazione[31]. In altri termini, il giudice, a seconda del grado di diligentia in contrahendo ordinariamente imposta dalla natura dell’affare o dai peculiari frangenti in cui esso viene concluso, fisserà il limite oltre cui l’operoso sperticarsi del contraente per accreditarsi agli occhi del finanziatore (non potendosi escludere la configurabilità di un dolus bonus anche nelle operazioni di credito) travalichi i confini della frode pauliana, dando luogo a una vicenda illecita; tali comportamenti, a titolo d’esempio, potranno andare dalla semplice reticenza al vero e proprio falso, nei casi più clamorosi[32]. Ma ciò non toglie che, anche nei casi da giudicare con la massima severità, debba venire accertato, sulla base di prove necessariamente offerte dal creditore revocante, un quid facti di carattere decettivo imputabile al debitore.

In conclusione, nei casi di preordinazione fraudolenta a nocumento del futuro (e non ancora tale) creditore, l’esistenza di un qualche escamotage tra gli elementi essenziali del thema probandum è inevitabile per evidenti ragioni di certezza giuridica dell’accertamento, venendosi altrimenti a violare il basilare principio “cogitationis poenam nemo patitur”.

[1] La sentenza in commento stima assai l’argomento letterale, che viene esibito con cura al capo 6.1 della pronuncia, come primo motivo di accoglimento del ricorso. Come osserva il collegio, “la mera considerazione del significato letterale delle espressioni utilizzate nell’art. 2901, primo comma, cod. civ. risulta di per sé sufficiente ad evidenziare l’intento del legislatore di subordinare l’accoglimento della revocatoria a presupposti soggettivi diversi, a seconda che la stessa abbia ad oggetto un atto posto in essere in epoca anteriore o successiva al sorgere del credito allegato a sostegno della domanda”.

[2] Cfr. Cass., Sez, III, 07/06/23, N° 16092 (Pres. Scrima – Rel. Rossetti).

[3] Cfr. Cass., Sez. III, 15/11/16, N° 23205 (Pres. Chiarini – Rel. Barreca).

[4] Cfr. Cass., Sez. II, 20/02/15, N° 3461 (Pres. Oddo – Rel. Migliucci).

[5] Cfr. Cass., Sez. III, 18/09/15, N° 18315 (Pres. Spirito – Rel. Scrima).

[6] Cfr. Cass., Sez. III, 29/05/13, N° 13446 (Pres. Trifone – Rel. Amendola).

[7] Cfr. Cass., Sez. III, 07/10/08, N° 24757 (Pres. Vittoria – Rel. Scarano), cui hanno dato seguito Cass., Sez. III, 15/10/10, N° 21338 (Pres. Trifone – Rel. Urban); Cass., III, 28/07/14, N° 17096 (Pres. Petitti – Rel. D’Ascola), per la quale sarebbe irrilevante la “callida volontà dell’obbligato di danneggiare il creditore”.

[8] Per la verità, tale ipotesi sembrerebbe evocata a sproposito, non solo perché parifica l’ideazione del contratto futuro alla semplice coscienza della futura, inevitabile, insorgenza dell’obbligazione, ma anche perché, se quest’ultima fosse davvero obiettivamente inevitabile, tale inevitabilità già costituirebbe, di per sé, “ragione” di tutela del credito, meritevole fin da subito dell’azione revocatoria e, quindi, da trattare quale ipotesi di fraus post creditum facta.

[9] Cfr. Cass., Sez. III, 27/02/23, N° 5812 (Pres. Scarano – Rel. Giaime Guizzi); Cass. Sez. III, 04/09/23, N° 25687 (Pres. Sestini – Rel. Moscarini).

[10] Cosa di cui si occupa egregiamente la sentenza in rassegna, che analizza il problema, oltre che dal punto di vista della nuda lettera legislativa, anche sotto il profilo storico – sistematico per poi passare, infine, all’analisi funzionale dell’istituto (e dei suoi correlati limiti) nel quadro dinamico della circolazione dei diritti.

[11] In ordine ai negozi dispositivi compiuti obligatione pendente, infatti, l’art. 2901 c.c. è chiaro nel definire ciò che tradizionalmente viene identificato con la locuzione “consilium fraudis” nella conoscenza del pregiudizio che l’atto reca alle ragioni del creditore.

[12] Affinché la Suprema Corte possa cassare la sentenza impugnata per errore di diritto, occorre che questo sia stato determinante nell’allocazione della ragione e del torto tra i litiganti (ex multis, Cass., 13/08/04, n. 15764; Cass. 18/03/05, n. 5954; Cass., 06/03/08, n. 6041/08). Come rileva Luiso, Diritto processuale civile, II, Milano, 2023, 480, “Quando la Corte riconosce fondate le lamentele prospettate nel ricorso, prima di cassare la sentenza deve valutare la causalità dell’errore commesso dal giudice della sentenza impugnata e riconosciuto come tale dalla Corte” (v. anche Auletta, Diritto giudiziario civile, Torino, 2021, secondo cui “l’ordinamento garantisce decisioni, non anche motivazioni giuridicamente corrette (…) non rileva[ndo] l’apparato argomentativo utilizzato in diritto per giustificare la decisione”; Redenti, Diritto processuale civile, II, Milano, 1957, 464, secondo cui “La disposizione sembra avere in realtà un fondamento razionale perché se la Corte cassasse, dovrebbe pur sempre prescrivere al giudice ad quem di ragionare più correttamente, ma di tener ferma la decisione”).

[13] Cfr. Talamanca, Azione revocatoria (Diritto Romano), in Enc. Dir., Torino, 1959, 883.

[14] Come rileva Impallomeni, Studi sui mezzi di revoca degli atti fraudolenti nel diritto romano classico, Padova, 1958, 122 ss., l’elemento soggettivo dell’actio pauliana venne individuato, in linea di principio, nell’intenzione diretta al danno dei creditori, come dimostrerebbero, inconfutabilmente, espressione quali “fraudationis causa”, “in fraudem facere” o, addirittura, “fraudare velle”. Tuttavia, altre leggi della Compilazione sembrerebbero accontentarsi – ai fini dell’accoglimento dell’azione – della semplice conoscenza, da parte del debitore disponente, di rendersi insolvente o di aggravare la propria insolvenza a seguito dell’atto. Così, ad esempio, in tema di manomissioni, D. 40, 9, 16, 5 impedisce la liberazione del figlio da parte del padre tutte le volte in cui uno dei due avesse saputo che, a seguito della manumissio, il padre sarebbe divenuto insolvente (“Si voluntate patris filius manumiserit, sive pater sive filius sciat solvendo patrem non esse, libertas impedietur”). Analogamente, viene considerata “semper in fraudem creditorum” la liberazione dello schiavo da parte dell’insolvente, anche se lo schiavo fosse meritevole di essere liberato (“quamvis bene dedisset merenti hoc”) (D. 40, 9, 23). Ancora, D. 42, 8, 17, 2 riporta un parere di Giuliano circa la revocabilità degli atti di colui che, avendo creditori (“cum haberet creditores”), trasferisca l’intero suo patrimonio ai propri servi o figli naturali (“libertis suis isdemque filiis naturalibus universas res suas tradidit”). In tal caso, secondo il giureconsulto, l’esistenza di un vero e proprio disegno fraudolento (“consilium fraudandi”) non sarebbe stata decisiva, poiché chi aliena ogni suo bene sapendo di avere creditori, va considerato, per ciò solo, intenzionato alla frode (“intellegendus est fraudandorum creditorum consilium habuisse”). Quest’ultimo frammento è di massimo interesse poiché, rispetto ai primi due, distingue, dal punto di vista concettuale, il piano “naturalistico” dal piano “normativo”: chi dismette l’intero suo patrimonio sapendo di essere oberato di debiti, dice Giuliano, non è per ciò solo intenzionato alla frode, ma come tale va considerato (“intelligendus est”). Se è vero che quando c’è differenza tra la struttura di un fatto e il modo di provarlo, fattispecie e thema probandum tendono a collimare (così Sacco, La fattispecie? Sì, ma … (un frammento di teoria generale), in Foro it., 2018, V, 288), il frammento richiamato potrebbe raffigurare il primo caso di giudizio pauliano risolto attraverso la tecnica delle presunzioni juris tantum e juris et de jure le quali, come vedremo, costituiranno – dall’età intermedia sino ai giorni nostri – il “cuore” della disciplina dell’azione in campo fallimentare.

[15] Cfr. Lucchini – Guastalla, Danno e frode, cit., 243, il quale spiega, con dovizia di particolari, come nel corso dei secoli – e soprattutto con lo sviluppo del diritto commerciale medievale e moderno – la prova del consilium fraudis sia stata sempre più agevolata, vista l’enorme sproporzione tra la difficoltà di un accertamento diretto dell’intenzione di frodare e la forte domanda degli operatori commerciali (specie i banchieri) di una difesa quanto più energica possibile del ceto creditorio dalle abusive macchinazioni volte a eludere il basilare principio di responsabilità patrimoniale illimitata. A ciò va aggiunto che, in quell’epoca, l’azione pauliana veniva sperimentata quasi esclusivamente in campo fallimentare, valendo per le obbligazioni civili il più efficace sistema dell’ipoteca tacita, al quale si riallacciava l’altrettanto efficace sistema degli strumenti guarentigiati, antesignani del “titolo esecutivo” (cfr. Sacco, Il potere di procedere in via surrogatoria, Torino, 1955, 16).

[16] La presunzione che ogni individuo sia al corrente di quale sia l’andamento delle proprie finanze si fonda sul principio dell’auto-responsabilità individuale e sulla consapevolezza dell’uomo circa gli effetti, buoni o cattivi, delle proprie azioni (cfr., Aristotele, Etica Nicomachea, Bari, 1999, passim). A tale proposizione aderisce anche Cirulli, Porfili processuali dell’azione revocatoria, Pisa, 2020, 148, secondo cui “il debitore capace di intendere e di volere (…) non può ignorare che l’alienazione di un bene pignorabile riduce la garanzia patrimoniale dei suoi creditori”. Questa presunzione è alla base di molte soluzioni giuridiche, specialmente in materia concorsuale. Celebre la massima, attribuita a Baldo, “decoctor ergo fraudator” (“falliti dicuntur fraudatores. Nec excusantur ob adversam fortunam; est decoctor ergo fraudator”), che sottolinea l’idea secondo cui la bancarotta o, più in generale, il fallimento non possa essere giustificato con l’ignoranza della propria condizione finanziaria, dovendo chi gestisce i propri asset essere al corrente del proprio eventuale squilibrio di bilancio, onde agire in modo responsabile nei confronti dei creditori, in caso di sofferenza. Questa correlazione automatica fra scientia decotionis e consilium fraudis portò, addirittura, la dottrina penalistica a considerare i fatti costitutivi dei reati di bancarotta alla stregua di mere condizioni obiettive di punibilità fissando, invece, il momento della consumazione del reato direttamente alla data della dichiarazione di fallimento (cfr. Conti, Fallimento (reati in materia di), voce del Dig., Disc. pen., Torino, 1991).

[17] Occorre precisare che sul concetto di “consilium fraudis” l’incostanza terminologica, anche in dottrina, fu (e continua a essere) somma: se per alcuni esso sarebbe consistito, essenzialmente, nella conoscenza del pregiudizio procurato alle ragioni dei creditori – di modo che la pura rappresentazione del danno avrebbe posto il debitore, per ciò solo, in una maligna disposizione d’animo – secondo altri il consilium fraudis si sarebbe identificato nella “frode” di cui all’art. 1235 c.c. 1865 e, di conseguenza, nella dolosa preordinazione ancora oggi contemplata dal Nuovo codice (in quest’ultimo senso si veda, ad esempio, Cirulli, ivi, 145). Nessun dubbio, invece, sullo stato soggettivo del terzo: oggi, come allora, è sufficiente che questi si limiti a conoscere le prave intenzioni del proprio dante causa affinché possa darsi il via libera nei suoi confronti alla revoca pauliana, come dimostra, tra l’altro, l’art. 2652 c.c. che, in tema di trascrizione, definisce la participatio fraudis in termini di malafede. A tale conclusione perviene anche l’autore da ultimo citato, ibidem, secondo cui non occorre, ai fini della revoca, “la prova che il terzo fosse conscio di pregiudicare specificamente il revocante”, e che precisa, ivi, 153, che “la consapevolezza è quindi sinonima della mala fede e si identifica con la conoscenza del pregiudizio arrecato ai creditori quale conseguenza voluta dell’atto (art. 43 c.p.)”.

[18] Cfr. Giorgi, nota a Cass. Napoli, 2 ottobre 1897, in Foro it., 1898, I, 23, il quale evidenzia che espressioni quali “animus nocendi” e simili “erano esagerazioni e formule imperfette, ma i dottori e i pratici del tempo antico non sognarono mai quella sottigliezza di analisi che contraddistingue la scienza moderna. Intravidero tutto; solo mancò loro la precisione scientifica; sicché resero con frasi iperboliche il resultato di quei momenti psicologici, che per difetto di acutezza analitica non discernevano separatamente”; per contro cfr. E. Serafini, Della revoca degli atti fraudolenti compiuti dal debitore secondo il diritto romano, Pisa, 1887, 30 ss., secondo cui, aderendo alla tesi del dolo specifico, non vi sarebbe alcuna necessità di affermare che “l’unico fine del debitore debba essere il danno dei creditori; questo fine può essere remoto, ma deve esistere in qualche modo; altri fini prossimi è ovvio che non lo escludono”. A sostegno della sua tesi, l’autore evidenzia che “in diritto civile non vi è nessuna legge che proibisca a un insolvente di alienare, perché possa dirsi reo di un delitto civile quando conosca la sua insolvenza e nonostante diminuisca il suo patrimonio”.

[19] Sull’evoluzione teorica e giurisprudenziale in tema di vendita a giusto prezzo con finalità liquidatorie, si rinvia a Lucchini – Guastalla, Danno e Frode, cit., 286.  Quando la vendita è a giusto prezzo (magari anche conclusa in periodo di congiuntura favorevole) e il ricavato è interamente devoluto ai titolari di debiti scaduti, essa è atto certamente meritevole poiché riflette l’intenzione di gestire le proprie finanze in modo onesto e diligente. In questa circostanza, infatti, il debitore cerca di liquidare parte del suo patrimonio per ottenere i fondi necessari a tacitare quei creditori che minaccino nei suoi confronti azioni esecutive, così evitando anche un ulteriore recrudescenza del suo bilancio negativo, quale risulterebbe dall’addizione, ai debiti che già lo gravano, delle spese processuali. Tutto ciò cagiona, inevitabilmente, un pregiudizio ai titolari di ragioni non immediatamente azionabili; ma tale pregiudizio rileva necessariamente alla stregua di mero fatto: come rileva Sacco, Il potere di procedere, cit., 134 ss. “il creditore ha interesse d’aumentare illimitatamente le proprie garanzie; tale interesse sussiste anche al di là dei limiti del pericolo serio, spingendosi fino alla prevenzione di quel pericolo soltanto ipotetico, improbabilissimo, ed evanescente, che è insito anche nell’impoverimento o del mancato arricchimento del più ricco e solvibile fra i debitori. Ciò è tanto vero, che taluni poteri cautelari sono attribuiti al creditore, indipendentemente dal concreto stato di pericolo (ad es.: il potere di effettuare la separazione dei beni del defunto da quelli dell’erede”.

[20] Per Nicolò, Dell’azione revocatoria, in Commentario del Codice civile Scialoja – Branca, Bologna-Roma, 1959, 181 ss., la soluzione giurisprudenziale, all’epoca invalsa, di ammettere la revoca anche a tutela di crediti posteriormente sorti, sarebbe stata “assolutamente aberrante” alla stregua di una rigorosa interpretazione dell’art. 1235 Cod. Pisanelli.  Così, ad esempio, Angeloni, L’avallante e l’azione revocatoria contro l’avallato, in Foro it., 1934, I, 159, nega l’azione all’avallante sostenendo che, in tali casi, il pagamento costituisce non già una condizione dell’azione di regresso, ma la vera e propria fonte di esso. Tuttavia, le SS.UU., 22/12/30, (Pres. – Est. D’Amelio) in Giur. it., 1931, 5, già affermarono che “la giurisprudenza non ha chiesto in modo rigoroso l’anteriorità del credito per la pauliana e l’ha concessa anche nel caso che l’atto anteriore alla frode fosse stato compiuto con l’obliquo intento di rendere vano il credito, che stava per sorgere, togliendo al creditore le garanzie sulle quali poteva contare. In questo caso, il creditore è vittima della frode al pari di colui che vanti un credito anteriore”. Detto principio fu enunciato per risolvere un conflitto fra acquirenti dal medesimo dante causa in cui il secondo acquirente preveniva il primo nella trascrizione, attuando un disegno fraudolento tra dante causa e secondo acquirente, ordito a danno del primo acquirente – e in un contesto in cui la codificazione patria si limitava a dichiarare trascrivibile l’azione revocatoria nei registri immobiliari, senza null’altro aggiungere in ordine agli stati di scienza o di ignoranza dei soggetti coinvolti nella vicenda (cfr. art. 1933 Cod. Pisanelli) – ci si chiese se il diritto al risarcimento del danno maturato dal primo acquirente a causa della prioritaria trascrizione del secondo divisasse un’ipotesi di credito anteriore o posteriore alla commessa frode. Tale questione sembrò cruciale al Procuratore Generale che, nella sua requisitoria, concentrò i suoi sforzi sulla questione dell’anteriorità del credito a supporto del rigetto della domanda. Eppure, tale aspetto non sembrò decisivo alle Sezioni Unite che ammisero, teoricamente, la revoca dell’atto ante creditum.  Come spiega il Nicolò, ivi, 209, “la giurisprudenza aveva ammesso che la revocatoria potesse colpire anche atti anteriori al sorgere del credito o della ragione di credito, quando essi fossero stati messi in essere con l’intenzione specifica di recar danno ai futuri creditori. Quest’ultima affermazione era basata sulla considerazione che, quando il debitore si pone preventivamente con dolose macchinazioni in condizione di non poter rispondere dell’inadempimento del proprio debito futuro, il creditore è vittima della frode al pari di colui che vanti un credito anteriore e la legge non può non accordare la propria tutela a chi resti danneggiato da questo più raffinato consilium fraudis”. Tutto ciò è perfettamente corrispondente alla stessa Relazione al Re N° 1182 (“Nella disciplina dell’azione revocatoria ho avuto cura di risolvere le più importanti questioni pratiche che si sono agitate nel campo di questo istituto. Il consilium fraudis, requisito tradizionale dell’azione revocatoria, è dall’art. 2901, in conformità del concetto prevalso in dottrina e in giurisprudenza, individuato nella conoscenza del pregiudizio che l’atto arreca alle ragioni del creditore. L’azione non è sempre legata all’anteriorità del credito rispetto all’atto che s’impugna; anche quando l’atto è anteriore al sorgere del credito l’azione è ammissibile, se l’atto è dolosamente preordinato al fine di pregiudicare il soddisfacimento del credito stesso. La deroga al principio dell’anteriorità del credito è giustificata dalla particolare nota di perversità che caratterizza in questo caso il consilium fraudis. La disposizione codifica una massima più volte enunciata dalla corte di cassazione e s’ispira allo stesso concetto che informa l’art. 194 del codice penale, nel quale, del pari, l’anteriorità del credito non costituisce uno dei presupposti per la dichiarazione d’inefficacia dell’atto”). Interessante, certamente, il richiamo alla revocatoria penale volta a colpire tutti quegli atti compiuti dal reo al solo scopo di realizzare la propria insolvenza prima dello sfogo criminoso, onde poter utilmente schivare – se scoperto – le azioni civili intentabili dall’offeso danneggiato.

[21] Prima, però, notiamo, con interesse, come la parabola delle condizioni di legittimazione e dei presupposti della pauliana rispecchino a pieno titolo la tendenza del legislatore storico a tutelare, sempre più intensamente, le ragioni del credito (specie delle banche). Da un primo momento, in cui la revoca era ammessa solo per frode in senso stretto e a tutela di crediti sorti e azionabili necessariamente prima dell’atto dispositivo, si passò, in via giurisprudenziale, ad ammettere sia la tutelabilità, in via pauliana, del credito anteriore alla frode, sia la sufficiente consistenza del credito anche al suo più infimo stadio di credito “embrionale” sia, infine, all’eliminazione, pressocché totale, della frode intesa nella sua accezione naturalistica, sostituita con la conoscenza (o, addirittura, conoscibilità, come predicato da Natoli, ivi, 892) del pregiudizio; soluzioni recepite dalla codificazione del ’42 a maggior tutela, appunto, del ceto creditorio (specie, lo ripetiamo, le banche).

[22] Il quale ha certamente avuto anche il merito di meglio esplicitare i rapporti intercedenti fra azione pauliana e azione esecutiva che, invece, è subordinata al titolo certo, liquido ed esigibile. Come già abbiamo avuto modo di spiegare, Giustiniano riunì i plurimi mezzi revocatori sotto la rubrica di un’unica “actio pauliana” ma non mutò, tuttavia, il principio secondo cui tale azione avrebbe dovuto obbligatoriamente essere esercitata nel contesto dell’espropriazione, alla stregua di un rimedio successivo e sussidiario alla procedura esecutiva. Dal necessario nesso di anteriorità/posteriorità fra le due azioni ne conseguì, naturalmente, la regola secondo cui, per agire in revocatoria, occorresse disporre di un valido titolo per l’esecuzione forzata. Dalla duplice premessa che l’esercizio dell’azione esecutiva supponesse l’esistenza del titolo esecutivo, e che l’azione pauliana potesse essere sperimentata solo e soltanto se vi fosse stato l’infruttuoso esercizio dell’azione esecutiva, si sarebbe concluso, in seguito, che ai fini della revoca pauliana il possesso del titolo esecutivo fosse requisito a fortiori indispensabile per il creditore. Sul punto, diffusamente, Nicolò, ivi, 201 ss.; Lucchini Guastalla, ivi, 51 ss. e 150 ss.; Cirulli, ivi, 111, il quale evidenzia che la concezione della pauliana come actio posterior sopravvive, tutt’oggi, negli ordinamenti spagnolo, svizzero e germanico.

[23] Cfr., oltre al Nicolò, ivi, 205, Natoli, Azione revocatoria, voce dell’Enc. Dir, Milano, 1959, che ammettono alla revoca il terzo datore di ipoteca, di pegno, l’avallante, il fideiussore, il coobbligato solidale se il debito si divide nei rapporti interni, il girante del titolo di credito all’ordine ecc… Per la tesi più rigida, invece, si veda l’opinione di De Martini, Azione revocatoria, voce del Noviss. Dig., Torino, 1957, 158, secondo cui “per quanto indubbiamente il rapporto di garanzia preesista al mancato pagamento, questo rapporto non contiene già in sé una ragione creditoria verso il debitore garantito, come non la contiene la posizione di coobbligato solidale: la ragione di credito sorgerà soltanto dal pagamento quando questo avverrà”. A ciò si replica agevolmente con due argomenti: il primo è che il pagamento effettuato dal garante si inserisce, comunque, nel rapporto di garanzia, a sua volta collegato al credito, con la conseguenza che esso potrebbe costituire atto autonomo solo in mancanza di un rapporto di questo tipo, come sarebbe nel caso di pagamento spontaneo del terzo; in secondo luogo, l’azione di rilievo concessa al fideiussore contro il debitore principale, affinché questi gli procuri la liberazione o, in alternativa, “presti le garanzie necessarie per assicurargli il soddisfacimento delle eventuali ragioni di regresso” (art. 1953 c.c.), dimostra chiaramente l’intenzione del legislatore di attribuire anche al fideiussore i poteri conservativi in ordine al patrimonio del debitore principale; strumenti conservativi con i quali la stessa azione pauliana può condividere la natura di fondo. Discorso simile valga per l’ipoteca (art. 2852 c.c.), la quale può essere iscritta “per crediti che possano eventualmente nascere in dipendenza di un rapporto già esistente fra le parti” (cfr. Nicolò, ivi, 206), anch’essa ordinata alla medesima funzione latamente cautelare della pauliana. Sull’ampia latitudine che può assumere una nozione lata (anzi, latissima) di provvedimento cautelare, cfr. Calamandrei, Introduzione allo studio sistematico dei provvedimenti cautelari, in Opere Giuridiche, IX, Roma, 2019.

[24] Cfr. Cirulli, ivi, il quale evidenzia l’assenza di nessi di pregiudizialità – dipendenza fra accertamento del diritto di credito e del diritto alla revoca. In giurisprudenza, cfr. Cass., Sez. III, 09/03/23, N° 25879/2023 (Pres. Cirillo – Rel. Guizzi) che considera “del tutto irrilevante (…) la circostanza (…) che l’atto (…) risulti anteriore alla pronuncia (…) della sentenza di condanna (…) al risarcimento dei danni (…), visto che «in caso di credito litigioso, comunque idoneo a determinare l’insorgere della qualità di creditore che abilita all’esperimento dell’azione revocatoria, per stabilire se esso sia o meno sorto anteriormente all’atto di disposizione del patrimonio è necessario fare riferimento alla data del contratto, ove sia un credito di fonte contrattuale, o a quella dell’illecito, qualora si tratti di credito risarcitorio da fatto illecito» (da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 10 giugno 2020, n. 11121, Rv. 658141-01)”; Cass., Sez. III, 10/06/20, N° 11121 (Pres. Amendola – Rel. Tatangelao) la quale precisa che, in caso di atto dispositivo anteriore alla domanda di revoca, “non trattandosi [l’azione a fondamento del credito vantato] di un’azione costitutiva, ma di una ordinaria azione di condanna, è applicabile il principio generale costantemente affermato da questa Corte, secondo cui «per l’esercizio dell’azione revocatoria è sufficiente una ragione di credito eventuale, mentre il requisito dell’anteriorità del credito rispetto all’atto impugnato in revocatoria deve essere riscontrato in base al momento in cui il credito stesso insorga e non a quello del suo accertamento giudiziale» (cfr., ex multis: Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 22161 del 05/09/2019, Rv. 654936 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 1968 del 27/01/2009, Rv. 606331 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 12678 del 17/10/2001, Rv. 549698 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 8013 del 02/09/1996, Rv. 499434 – 01). In particolare, nel caso di credito litigioso – comunque idoneo a determinare l’insorgere della qualità di creditore che abilita all’esperimento dell’azione revocatoria – per stabilire se esso sia o meno sorto anteriormente all’atto di disposizione del patrimonio è necessario fare riferimento alla data del contratto, se di fonte contrattuale, o alla data dell’illecito se si tratta di credito risarcitorio da fatto illecito”. Entrambe le sentenze si pronunciano in cause vertenti sulla revoca di atti che deterioravano obbligazioni ex delicto. Il principio che il credito eventuale, in veste di credito litigioso, conferisca al suo titolare legittimazione pauliana è affermato anche da Cass., Sez. II, 26/02/86, N° 1220 (Pres. Maresca – Rel. Pierantoni), in un giudizio di rivalsa per credito sorto anteriormente all’atto, secondo cui “se è vero che l’art. 2091 C.C., tendendo a tutelare il creditore da atti di disposizione del patrimonio del debitore pregiudizievoli per le sue ragioni, postula per la sua applicabilità non necessariamente la sussistenza di un credito certo, liquido ed esigibile ma anche la sussistenza di una mera ragione di credito, quindi di un’aspettativa fondata su una situazione di fatto già esistente, aspettativa che può evolversi o meno, a seconda degli eventi, nella nascita di un diritto di credito effettivo, ciò non toglie che l’azione revocatoria di cui alla citata norma produce i suoi effetti esclusivamente in relazione ai crediti ovvero alle ragioni di credito sulla base dei quali l’azione stessa viene esercitata”.

[25] Discorso a parte andrebbe svolto per i casi di revocatoria penale volta a combattere alienazioni fraudolente compiute dal reo prima di accingersi alla commissione del reato, al solo scopo di preparare la propria insolvenza in vista della pressocché certa azione risarcitoria della vittima. A tal proposito, è utile distinguere tra reati contro il patrimonio commessi con cooperazione artificiale della vittima e reati di aggressione patrimoniale unilaterale (per la distinzione, cfr. Mantovani, Diritto penale, Parte speciale, Delitti contro il patrimonio, Torino, 2021, 10 ss.). Nei primi vale il discorso che verrà approfonditamente svolto in riferimento alla disciplina generale dei contratti concluse ante fraudem; per le vicende criminali che si manifestano, invece, sotto veste di aggressione unilaterale del patrimonio della vittima, l’elemento materiale della frode va necessariamente ravvisato nel reato stesso, elevato a presupposto di mero fatto del diritto alla revoca pauliana (sulla pregiudizialità della situazione penale, cfr. Allorio,  La cosa giudicata rispetto ai terzi, Milano, 1935, 243).

[26] L’attività volta a realizzare le condizioni affinché venga in essere la mera “ragione” del credito, ancora eventuale, rileverebbe non tanto come dies a quo della pendenza dell’obbligazione, quanto, piuttosto, come momento incipiente di quella dolosa preordinazione destinata a consumarsi con l’atto dispositivo, indipendentemente dal tempo della maturazione del credito, da semplice eventualità a vero e proprio diritto esecutivamente azionabile.

[27] Quando, cioè, al venir in essere del credito, o anche di una semplice ragione di esso, stipulante e promittente siano, tra loro, assoluti estranei, e quest’ultimo si sia già reso incapiente con atti dispositivi precedentemente compiuti.

[28] Che la macchinazione, la callidità o la fallacia debbano essere necessariamente indirizzate alla futura vittima, con la quale si entrerà in affari solo dopo la spoliazione dei propri beni da parte del fraudator, ovvero possa indirizzarsi a un terzo ovvero, ancora, consistere in una condotta non direttamente rivolta nei confronti di qualcuno, è tema di vasta indagine che qui non può essere sufficientemente affrontato.

[29] Sul punto, cfr. Mantovani, ivi, 248, secondo cui esulerebbe dalla nozione di mezzo fraudolento “il comportamento che (…) difetta di ogni attitudine anche soltanto a celare tale stato [di insolvenza], sicché chi pone in essere l’atto dispositivo non potrà essere considerato vittima dell’altrui frode e, se versa in errore o in stato di ignoranza, questi non potranno imputarsi all’agente”. Profilo valorizzato dalla stessa sentenza, che sapientemente lo indaga, “sul piano della certezza e della rapidità dei traffici giuridici”, al punto 6.5. della motivazione.

[30] La circostanza che la garanzia patrimoniale non sia elemento strutturale del rapporto obbligatorio si evince anche, a nostro avviso, dall’art. 1462 c.c., che dà facoltà al contraente di recedere dal contratto in caso di mutamento delle condizioni patrimoniali dell’altra parte. La circostanza che in tali ipotesi si tratti di effetto scaturente da un’opzionale manifestazione di volontà del contraente e non prodotto automaticamente per effetto del deterioramento patrimoniale dimostra che la garanzia patrimoniale non costituisce elemento strutturale dell’obbligazione. Altrimenti, si cadrebbe nel duplice assurdo che la mancanza assoluta di fondi comporti la perdita automatica della capacità di obbligarsi; e che il sopravvenuto venir meno di una capiente garanzia generica determini ipso facto lo scioglimento dell’obbligazione (circostanze smentite, rispettivamente, dagli artt. 1380 e 1462 c.c.).

[31] Ad esempio, laddove si tratti di un credito d’impresa, l’attitudine decettiva della condotta del debitore anteriore al sorgere del credito dovrà valutarsi avuto riguardo alle dimensioni e alla natura della stessa, al pacifico andamento dei pregressi rapporti con la controparte, tali da aver ingenerato una più o meno elevata fiducia reciproca, alla circostanza che – in ragione dell’affare o del particolare settore in cui opera l’impresa – la prassi contrattuale imponga l’assunzione di specifiche garanzia o l’espletamento di più o meno approfondite indagini di merito di credito. Potrebbe allora venire in soccorso, a questi fini, l’elaborazione teorica sviluppatasi intorno allo stato soggettivo del terzo accipiens particeps fraudis. Come rileva Cirulli, ivi, 154, in riferimento allo stato soggettivo di quest’ultimo, pacificamente inteso come mala fede, essa “è integrata anche dal dolo eventuale. Il terzo che, conoscendo o potendo conoscere la situazione debitoria del suo dante causa, stipuli nondimeno l’atto, accettando il rischio che la garanzia patrimoniale dei creditori ne resti menomata, versa in mala fede. L’onere conoscitivo va commisurato alla diligenza media ed all’accessibilità alle informazioni relative alla situazione debitoria dell’alienante. Il terzo non può, quindi deve, assumere informazioni presso la centrale dei rischi, gli agenti della riscossione o gli enti previdenziali in merito all’esposizione debitoria del contraente. Può e deve, invece, consultare i pubblici registri immobiliari e rilevare eventuali iscrizioni e trascrizioni pregiudizievoli, che pur non gravando sul bene acquistando denuncino l’insolvenza”. Il rispetto di tali cautele può essere preteso, a nostro avviso, anche dal creditore con la precisazione, però, che l’esigibilità, in concreto, di certe tipologie di accortezze dovrà essere valutata avuto riguardo alla natura dell’affare e ai peculiari frangenti in cui esso si inserisce. Non va neppure totalmente obliterata, infatti, la circostanza che la posizione del terzo acquirente è ontologicamente differente da quella del creditore. Il primo acquista una res e, quindi, è tenuto a focalizzare la propria attenzione sulla cosa, potendo le sue indagini patrimoniali in merito alla controparte limitarsi a quanto basti a sincerarsi che la res tradita sia, effettivamente, libera. Il secondo, invece, sceglie di confidare nella correttezza e nella lealtà del contraente, qualità attinenti alla persona e non già alla res (parliamo del cosiddetto intuitus personae, elemento di valutazione presente in ogni contratto), per giovarsi degli effetti lucrativi di un’operazione di credito (quandanche per erogare il finanziamento il creditore abbia sopportato dei costi egli, rispetto al terzo acquirente, sembra più qualcuno qui certat de lucro captando, piuttosto che de damno vitando).

[32] Cfr. Mantovani, ivi, 249, secondo cui il grado di severità del giudizio dovrebbe basarsi sulle concrete “regole del mondo degli affari”. Come rileva l’illustre criminalista, ivi, 250, “nella pratica la dissimulazione si riduce, normalmente, a battere il connaturale settore degli affari spiccioli, ove le abitudini contrattuali portano a disporre, a fare credito senza indagare l’altrui situazione economica, sulla pura base della mancanza di indizi esteriori di precarietà o cattive intenzioni. Al più intenso ed efficace mezzo fraudolento dell’artificio o raggiro è, più propriamente, riservato il settore degli affari, in cui gli usi operano in senso contrario al suddetto: la simulazione della propria solvibilità è, qui, più idonea a funzionare della semplice dissimulazione della propria insolvibilità. Ed, infine, pressoché sfugge a qualsiasi espediente di un soggetto insolvibile il settore degli affari per i quali la legge impone o gli usi consigliano particolari precauzioni (es.: ipoteca legale nella vendita dell’immobile, ipoteca volontaria, riserva di proprietà, garanzie personali del credito)”.