Attuazione spontanea, attuazione giudiziale e prassi: rileggendo un saggio di Angelo Falzea

Di Antonio Briguglio -

Sommario: 1. Premessa (dove si parla anche di diritto positivo, facoltà ed obbligo, ADR, giudicato e transazione, standards e clausole generali). – 2. L’attuazione spontanea delle norme processuali; è dato distinguere fra attuazione giudiziale ed attuazione spontanea anche quando la norma processuale ha per destinatario diretto il giudice? – 3. Segue: la maggiore tracciabilità della attuazione spontanea delle norme processuali; la inattuazione spontanea ragionevolmente ammissibile. – 4. L’attuazione giudiziale delle norme processuali; prevedibilità versus adattabilità delle regole generali e astratte e delle regole casuali del processo civile; dal quid facti al quid iuris nella enucleazione della regola casuale in materia processuale; standards valutativi nelle norme processuali; l’auspicabile self-restraint della giurisprudenza processualcivilistica e l’overruling. – 5. Riflessioni sulla consuetudine come prassi genetica ed insieme attuativa. – 6. Segue: consuetudine, prassi in senso stretto, legge; digressione verso le prassi processuali in senso stretto; le regole del gioco e le regole per giocare meglio. – 7. La prassi giudiziaria come prassi genetica; il precedente nei sistemi di diritto scritto e di diritto giurisprudenziale; interpretazione giudiziale astratta ed ars distinguendi nella utilizzazione dei precedenti.

1.Premessa (dove si parla anche di diritto positivo, facoltà ed obbligo, ADR, giudicato e transazione, standards e clausole generali).

1.1. Nel 1997 Angelo Falzea – che aveva allora 83 anni quanto all’anagrafe e 40 ben portati quanto alla fulminea ed imperiosa corsa del suo pensiero – pubblicò la sua Relazione di apertura alla 51° Sessione della Société De Visscher pour l’Histoire des Droits de l’Antiquité, intitolandola «La prassi nella realtà del diritto»[1].

Punti di ancoraggio dello scritto, che si rapporta ad altri numerosi dell’Autore e si amplia a raggiera verso svariati temi e sottotemi, mi paiono, non necessariamente nell’ordine in cui Falzea li espone, i seguenti:

– il diritto positivo è tale solo se effettivo nella materialità e concretezza della vita reale;

– la norma posta, quale che sia secondo le regole ordinamentali il fatto produttivo della sua posizione, si volge tosto sul classico e ideale piano del dover essere; perché essa sia effettiva e dunque positiva non è sufficiente la materialità e concretezza della sua produzione, ma occorre soprattutto la concretezza della sua attuazione nella prassi e cioè nella vita reale e concreta dei cives;

– l’attuazione è spontanea o giudiziale (quest’ultima con le sue insopprimibili caratteristiche di creatività vuoi quanto alla interpretazione astratta e cioè alla ricostruzione del significato possibile delle espressioni verbali della norma posta, vuoi quanto alla interpretazione-applicazione concreta);

-l’una, l’attuazione giudiziale, è naturalmente suppletiva rispetto all’altra, ma entrambe sono caratterizzate dalla individuazione, di fronte al caso singolo e reale, di una “regola casuale” rispondente alla norma generale e astratta;

– la individuazione della “regola casuale” si scandisce nei tre momenti del quid facti, del quid iuris e del quid agendi; (scansione questa – mi permetto di osservare – che, quanto alla attuazione giudiziale, è uno dei molti modi di disegnare o colorare il sillogismo del giudice e dunque erediterebbe quel tanto di asseritamente sorpassato che connota quella figura, ed ha invece il pregio di rappresentarne quasi graficamente la intrinseca relatività, nonché la inevitabile parziale sovrapponibilità degli elementi logici nella mente di chi decide, siccome muove dal quid facti, e con il quid iuris in posizione mediana che plasticamente si proietta all’indietro verso il quid facti quanto alla componente della regola descrittiva del fatto, e si proietta in avanti verso il quid agendi quanto alla componente effettuale della regola);

– la prassi giuridica, e cioè l’esplicarsi della materialità e concretezza del diritto nella vita reale dei consociati, non è per altro solo “prassi realizzatrice” (nelle due forme della attuazione spontanea e della attuazione giudiziale), ma a certe condizioni ed in certi contesti può volgersi in “prassi genetica”.

1.2. La rilettura di questo scritto non notissimo, denso quanto agile, ma collegato a tante altre più ponderose e più note indagini teorico-generali di Angelo Falzea, mi ha suggerito le divagazioni che qui seguono sul ponte fra la teoria generale e il processo, quello civile in particolare, e sotto al cartello segnaletico a frecce convergenti: “attuazione spontanea – attuazione giudiziale del diritto posto”; ove il riferimento di Falzea alla “prassi” è riferimento utile su entrambi i versanti, evocando esso la stessa materialità e concretezza o realtà di ogni attuazione (inattuazione) dell’ideale dover essere normativo, e però variamente declinabile fino a giungersi, come vi giunge Falzea, dalla “prassi realizzativa” alla vera e propria “prassi genetica” in due contesti fondamentali: quello della consuetudine e quello dello stare decisis (anche ma non solo) in sistemi di diritto non scritto, ai quali dedicherò la seconda parte di questo saggio.

Vorrei però premettere alcune considerazioni di fondo sulla dialettica fra attuazione spontanea ed attuazione giudiziale quali elementi alternativi e complementari di effettività e perciò di positività del diritto comunque posto.

Falzea scrive acutamente (La prassi cit., 433) che «i giuristi si sono soffermati» sulla attuazione giudiziaria «ed hanno sorvolato sulla attuazione spontanea». E le ragioni non mancano, avendo su ciò «influito anzitutto il fatto che l’attuazione spontanea, in quanto fenomeno convissuto socialmente, è più intuibile con il sentimento e l’esperienza che conoscibile con l’intelletto e la razionalità; mentre l’attuazione giudiziaria, legata al pensiero riflesso perché dotata di forme ostensive ed evidenziatrici che ne assicurano la diffusione, entra d’autorità nella sfera della conoscibilità comune»; a tacere «in secondo luogo» della «autorevolezza della prassi istituzionale rispetto alla ufficiosità della prassi spontanea».

Non si potrebbe essere più chiari e realistici, soprattutto ponendo mente, come Falzea mostra implicitamente di fare, al diritto sostanziale. Sennonché, prima che il giurista abbandoni l’attuazione spontanea al sociologo o peggio al giornalista – ciò che Falzea non vuole affatto («L’attuazione spontanea del diritto», egli scrive alla pagina precedente, «è un fenomeno al quale deve essere riconosciuta dignità scientifica pari alla importanza che esso riveste nel processo di realizzazione del diritto»), ovvero prima che il teorico generale si limiti soltanto a postulare in astratto che l’attuazione spontanea, siccome logicamente «preliminare» nonché «più genuina e libera» rispetto all’attuazione giudiziale, è la base su cui «si edifica la coscienza giuridica della società»[2] ed al sociologo o allo storico del diritto sia affidato il comunque arduo compito di verificare in che misura ciò sia o sia stato vero, qualche ulteriore riflessione può essere svolta rivolgendo attenzione in prevalenza ai compiti del cd. giurista positivo.

1.3.      Bisogna – credo – anzitutto intendersi su due sensi possibili di “attuazione spontanea” connessi rispettivamente alla alternativa facoltà/obbligo riscontrabile nel diritto posto.

Nell’area della facoltà – che è soprattutto, anche se non solo, quella della autonomia negoziale – e se una facoltà è davvero correttamente esercitata e dunque se non vi sia dubbio o controversia sui suoi limiti, l’attuazione spontanea delle norme poste è senz’altro interessante e doverosamente considerabile dal giurista, ma non tanto per il suo contenuto (di solito oltretutto agevolmente riscontrabile) rigorosamente attuativo e cioè combaciante con la applicazione della norma ed in ultima analisi con il semplice profittare della facoltà, quanto per il suo contenuto necessariamente innovativo, anch’esso eminentemente spontaneo, ma libero e indeterminato a priori e cioè non previsto dalla norma siccome appunto espressione della facoltà.

Un esempio per così dire apicale, ma reiterabile mutatis mutandis rispetto a numerosissime altre situazioni: quando due parti, in specie se successivamente imitate da altre, escogitano un nuovo schema ed assetto di interessi contrattuale non riconducibile ai modelli tipici, è fin troppo ovvio dire che esse hanno attuato spontaneamente l’art. 1322, c. II, c.c., e mutatis mutandis la stessa cosa accade rispetto a singole pattuizioni negoziali a fronte della facoltà assegnata dal comma I dell’art. 1322. Ma la cosa più importante e meritevole di studio, anzitutto da parte del giurista positivo, è il contenuto innovativo che quella prassi, “profittatrice” e perciò in altro senso attuatrice dell’art. 1322 e del permesso condizionato e limitato in esso enunciato, apporta all’esperienza giuridica (oltre che a quella economica e sociale). E si tratta di un apporto innovativo ben diverso da quello che comunemente si riferisce al grado insopprimibile di creatività della attuazione giudiziale (ed anche, in misura difficilmente ponderabile, di quella spontanea) sul differente piano di cui fra poco diremo, perché esso non passa per l’interpretazione astratta e neppure per l’interpretazione-applicazione concreta di una norma posta e dunque non si aggiunge più o meno creativamente quale glossa al testo della legge. In questo senso e su questo piano, insomma, la prassi spontanea attuativa o “realizzatrice” (come alternativamente la definisce Falzea) non si esplica affatto attraverso la triplice scansione “quid factiquid iurisquid agendi” che l’attuazione spontanea ha in comune con l’attuazione giudiziaria. O se si vuole, una volta riscontrati la sussistenza e lo spazio della facoltà a seguito della necessaria interpretazione-applicazione della norma posta che la attribuisce (qui l’art. 1322), l’esercizio concreto di quella facoltà consiste nell’immediata e libera individuazione del quid agendi, attuazione quindi della voluntas legis non strettamente interpretativo-applicativa (quel momento è già superato) bensì creativa di nuova esperienza giuridica (a sua volta emergente – almeno nell’esempio dato – in forma di precetto negoziale e dunque suscettibile, sotto l’ombrello delle- ed in una con le norme giuridiche generali o speciali sul contratto, di ulteriore attuazione spontanea o giudiziale).

È  chiaro allora che il giurista, ed anzitutto il giurista positivo, pratico non meno che teorico, debba – quando ne ha l’occasione che è doveroso anche ricercare – indagare il contenuto concreto dei concreti contratti atipici o delle libere pattuizioni negoziali dettate dalla fantasia pragmatica e dagli interessi contingenti, per come tali contratti e pattuizioni volta a volta e perfino isolatamente affiorano, e così pure di ogni altra libera creazione della autonomia privata nell’area del permesso normativo e cioè della facoltà. E ciò non solo perché – per restare all’esempio apicale assunto – la ricognizione di quel contenuto concreto giova, nel fluire della esperienza giuridica, anche ad interpretare ed applicare a nuovi casi il precetto ex art. 1322 e cioè a concretizzare, per via di interpretazione-applicazione spontanea o giudiziale dell’art. 1322, cosa debba intendersi per “interessi meritevoli di tutela” ecc. e dunque a rinvenire, qui nuovamente scansionando “quid facti-quid iuris-quid agendi”, la regola casuale volta a volta corrispondente alla regola generale ed astratta che attribuisce il permesso o facoltà. Ma anche perché il puro agere giuridicamente rilevante, che consiste nell’ escogitare e dare contenuto specifico a nuove clausole o nuovi contratti, nell’area aperta dalla facoltà, rende meglio decifrabile attraverso la esperienza, ben al di là dalla singola norma scritta, un complessivo istituto o concetto giuridico. Vale a dire molto banalmente: salvo che nella torre eburnea di un formalismo probabilmente mai esistito, né il giurista teorico né quello pratico (e di riflesso e nel suo volo d’aquila neppure il teorico generale) possono sensatamente svolgere un discorso o un argomento giuridico sul “contratto” e sul “diritto dei contratti” ignorando del tutto il wording delle clausole contrattuali reali e dunque in che modo i cives profittano della facoltà loro attribuita dal secondo ma anche dal primo comma dell’art. 1322 (quanto, e con quale dettaglio, lo possano o lo debbano conoscere quel wording, è altra storia).

È su questo piano che il deficit di indagine evocato da Falzea risulta significativo e forse in buona misura permane a tutt’oggi: nella non sufficiente attenzione dedicata a ciò che davvero accade negli studi legali e notarili e negli uffici legali delle imprese, tutti concentrati come siamo a leggere piuttosto massime giurisprudenziali e sentenze, oltre che norme scritte; deficit di indagine sicuramente, e pur con le difficoltà dovute al minor grado di pubblicità ed alla maggiore riservatezza, colmabile, e perciò doverosamente da colmare[3], visto che quel tipo di esperienza si manifesta, (quasi) al pari delle sentenze dei giudici, nelle «forme ostensive ed evidenziatrici che ne assicurano la diffusione» cui alludeva Falzea nel passo prima riportato.

1.4.      Le «forme ostensive ed evidenziatrici» fanno difetto invece alla attuazione spontanea sull’altro versante: quello dell’obbligo (o del divieto o del limite alle facoltà ed ai permessi) nonché della corrispondente situazione soggettiva pretensiva, nonché dunque dei dubbi e controversie e potenziali inattuazioni a riguardo.

Qui riprende sommamente vigore la empirica e notevolissima differenza, quanto a percepibilità e decifrabilità, fra l’attuazione giudiziale e quella spontanea.

Qui della attuazione spontanea di una norma posta il giurista:

(i) deve assumere in termini generali ed alla stregua di un a priori la rilevanza ai fini della effettività di quella norma;

(ii) può e deve constatare nei congrui casi il macrofenomeno del suo contrario, e cioè la radicale inattuazione[4] (con la assai problematica conseguenza della abrogazione per desuetudine ove contemplata, diversamente da quanto per noi emerge formalmente a contrario dall’art. 15 delle Preleggi[5], o altre limitate conseguenze giuridicamente plausibili).

Ciò che di regola e per forza di cose non può invece fare è:

(i) acquisire contezza – sufficiente ad una qualche utilità per la scienza giuridica – riguardo al numero di volte in cui, in un determinato ambito spazio-temporale, una determinata norma posta è stata attuata o inattuata (non essendo evidentemente a ciò sufficienti i dati desumibili dai casi giudiziari, i quali rappresenteranno di regola solo poco più della punta dell’iceberg della attuazione o inattuazione spontanea, mentre un eccesso di casi giudiziari dimostrativi di una reiterata ed abnorme questionabilità della norma posta rientra nella possibile constatazione dei macrofenomeni, utile al giurista soprattutto nella particolare veste di tecnico-garzone del legislatore, il quale ultimo dovrà essere indotto a ripensarci);

(ii) e soprattutto non può acquisire contezza – sufficiente ad una qualche utilità per la scienza giuridica – sul come e con quali eventuali varianti evolutive l’attuazione spontanea si sia verificata, e se esse vi siano state o invece vi sia stato, da parte di uno o dall’altro fra i soggetti implicati, qualcosa d’altro: inconsapevolezza, semplice acquiescenza ecc.; (quando in uno a caso della miriade di rapporti di locazione ad uso commerciale più o meno sconvolti dal covid – e parlo ovviamente di quelli non finiti nelle aule di giustizia – il signor Tizio locatore ha accettato per mesi, senza colpo ferire e senza nulla formalmente rinegoziare, novare o pattuire, un canone ridotto dalla s.r.l. Caia o dalla merciaia sig.ra Sempronia, cosa ha fatto? ha attuato spontaneamente e più o meno evolutivamente le norme sulla interpretazione ed esecuzione di buona fede del contratto o l’art. 1464 c.c. sulla impossibilità parziale, oppure si è semplicemente accontentato, visto che altrimenti la Caia sarebbe fuggita e l’immobile sarebbe rimasto sfitto per anni, oppure ancora si è impietosito di fronte alle geremiadi della merciaia Sempronia? E che, diversamente dalla prima, la seconda e la terza ipotetica regola casuale non siano, pur con tutta la buona volontà, attuazione spontanea del nostro diritto posto, è comprovato dal fatto che esse non potrebbero trovare alcuno spazio in quel succedaneo della attuazione spontanea che è l’attuazione giudiziale e cioè in qualsivoglia motivazione di giudice che, in caso di lite, avalli l’auto-riduzione del canone).

Insomma – e per tornare ai concetti di Falzea – su questo secondo versante dobbiamo sì ipotizzare che attuazione spontanea ed attuazione giudiziale siano quest’ultima il surrogato eventuale della prima e che abbiano in comune, oltre alla complementare integrazione della positività del diritto e proprio perciò, la individuazione di una “regola casuale” ricondotta caso per caso alla regola generale ed astratta. Ma se non prima sorgano il dubbio, la crisi e la controversia e questi non vengano superati dalla attuazione giudiziale, ben difficilmente saremo in grado di riconoscere le singole regole casuali individuate dai cives nelle loro spontanee prassi realizzatrici, ed ancor più difficilmente saremo in grado di riconoscere, e tanto meno nelle loro reciproche interrelazioni, le tre scansioni successive, dal quid facti al quid iuris al quid agendi, di quella regola casuale.

Naturalmente ogni postulato ha la sua eccezione e vedremo (infra ai §§ 2 e 3) che ad esempio quanto alla attuazione spontanea delle norme processuali le cose non stanno del tutto così.

Ma quel che mi preme specialmente è la coda del discorso. E la coda del discorso (piuttosto scontata per vero) è che per sapere non tanto e solo se una norma sia effettiva e positiva ma come essa lo sia – a fortiori poi se il focus si sposta dalla singola norma ad un conglomerato di norme sistematicamente correlate o ad un istituto – il giurista non può che affidarsi alla attuazione giudiziale. È questa che consente di tracciare nei dettagli la evoluzione del sistema. È questa che può essere, con la accuratezza necessaria, discussa, criticata, imitata o contestata. E’ questa che – ben oltre la sua utilità solutoria della singola controversia, nonché risolutoria della singola crisi di certezza riguardo alla norma posta, nonché satisfattiva della singola situazione soggettiva minacciata o pregiudicata (compresa ovviamente quella del convenuto tendente all’accertamento negativo della altrui pretesa) – riveste una essenziale e perfettamente comprensibile, studiabile e rielaborabile utilità e valenza prospettica.

E tale valenza e tale utilità – sia detto per incidens e pur senza voler essere troppo jehringhiani – non possono essere dimenticate di fronte all’enfasi spesso eccessiva ed impropria (quando non puerile) sui vantaggi delle ADR non aggiudicative e perciò in definitiva (tale essendo il risultato comune di quasi tutti questi meccanismi) delle transazioni o conciliazioni.  È scontata la necessità di deflazionare, nei limiti del possibile, le aule giudiziarie e di scoraggiare la litigiosità capricciosa o abusiva o anche quella con semplice buona volontà evitabile. Ma non è certo da pensare – se non con mentalità pan-conciliativa di stampo confuciano e perciò di stampo intrinsecamente autoritario ed antilibertario (come fortemente autoritario ed antilibertario era il Celeste Impero) – che la soluzione giudiziale delle liti sia un male, e neppure un male necessario. Essa è fonte di giurisprudenza vale a dire di prudente e meditata (almeno sul piano degli auspici ed anche della ragionevole normalità) elaborazione del diritto di fronte alla realtà, e perciò non solo di attuazione (fosse solo per quello sarebbe preferibile l’attuazione spontanea compresa quella “transattiva”), ma anche di esplicazione del diritto posto siccome positivo. Senza di essa e senza il suo miglior possibile funzionamento, che le ADR sono in grado di supportare ma non di sostituire, saremmo tutti affidati agli insondabili percorsi dell’attuazione o inattuazione spontanea. Da ciò non solo la ovvia ineliminabilità – ut sit finis litium e ne cives ad arma veniant – della funzione giurisdizionale rispetto ai singoli casi concreti ed al possibile affiorare in essi, e nelle corrispondenti prassi spontanee, di prepotenze o debolezze rinunciatarie. Ma anche – e la cosa è forse meno ovvia o meno pensata dai cheerleaders delle ADR – la sua intrinseca pregevolezza pro futuro. È insomma il giudicato ed il suo effetto preclusivo così caro a Falzea (impediente lo sguardo al passato) ad essere pressoché integralmente sostituibile dalla transazione avente identico effetto. Ma se non al giudicato ed al suo effetto preclusivo rispetto alla singola lite pensiamo, bensì a quel medesimo prodotto della attuazione giudiziale riguardato però come precedente, ebbene la transazione non può surrogare o sostituire un ben nulla[6].

1.5.      Dopo di che può comunque senz’altro dirsi – con Falzea (La prassi cit., 433) – che «l’attuazione spontanea, anche in presenza dell’attuazione autoritativa, non rimane del tutto ininfluente perché ad essa gli stessi giudici finiscono col fare riferimento allorché nelle loro decisioni utilizzano, esplicitamente o implicitamente, i criteri della esperienza comune ovvero si richiamano alla coscienza sociale. Sicché, pur entro certi limiti, l’attuazione giudiziaria diventa rappresentativa dell’attuazione spontanea».

Il problema è che siffatta influenza della attuazione spontanea sulla attuazione giudiziaria è solo occasionalmente riscontrabile e con grande difficoltà dai testi delle decisioni, mancando oltretutto ad un riscontro sicuro l’altro termine di confronto e cioè la chiara rappresentazione del livello e dei modi della attuazione spontanea pur se si isola un ambito spazio-temporale circoscritto. E su un piano di maggior rigore dogmatico vi è poi che i giudici – salve la ipotesi di constatazione della radicale non positività di una norma o più plausibilmente della radicale escludibilità di una opzione interpretativo-applicativa della medesima sopravvenute per il complessivo atteggiarsi della (in)attuazione spontanea – non sono ovviamente tenuti né si sentono tenuti di fatto a trarre lumi dalla attuazione spontanea, proprio perché appunto assai arduo è decifrarne le modalità ed impossibile individuarne con certezza le regole casuali che in essa si incorporano. Mentre la utilizzazione pro futuro della attuazione giudiziale, anche prescindendo dal grado della sua eventuale doverosità, è favorita naturaliter dall’essere ben percepibile proprio la regola casuale e dal rappresentare il precedente “interpretazione” e perciò concretizzazione pur sempre precettiva del comando generale e astratto della norma posta.

In un solo caso – al quale verosimilmente Falzea pone mente scrivendo quella frase – il giudice ha il dovere almeno virtuale di riferirsi alla attuazione spontanea, ed è dunque con maggiore certezza predicabile una rifluenza integrativa e contenutistica della attuazione spontanea sulla portata della norma posta. Ed è quello in cui entri in gioco una clausola generale e perciò uno standard valutativo[7] mutevolmente ancorato all’evolversi della coscienza sociale (tema questo che rappresentò autentico cavallo di battaglia dell’ultimo Falzea e del quale egli si occupa brevemente anche nella seconda parte dello scritto da cui ho preso le mosse). Dove altro, infatti, se non nella diffusa prassi realizzativa che concreta, in un contesto spazio-temporale dato, la nozione aperta di “buona fede” o quelle similari il giudice dovrebbe rinvenire la regola casuale idonea a stabilire se inviare alla controparte su whatsapp invece che via pec una avvertenza fondamentale in corso di trattative contrattuali risponda al parametro di condotta imposto dall’art. 1337 c.c.?

Che poi a questa operazione corrisponda solitamente una sorta di precomprensione intuitiva ed in larga misura assertiva piuttosto che una difficile e dettagliata ricognizione motivazionale è anche vero. Ma se la “esperienza comune” e la “coscienza sociale”, quali dati eminentemente fattuali di prassi attuativa dei valori generici espressi dalla clausola generale, non assurgessero in questi casi a priori ad elementi integrativi in iure della norma posta, ben difficilmente si aprirebbe alla Cassazione il varco che questa ha da tempo, e pur con oscillazioni ed espressioni un tantino ipocrite, attraversato verso il sindacato pregnante della applicazione concreta delle clausole generali.

Lo si può anche chiamare, come è stato a volte chiamato, giudizio di terzo tipo, intermedio fra giudizio di fatto o di diritto, ma a me pare che questa definizione, pur quando adeguatamente argomentata e specificata di là dalla sua espressione verbale, sia troppo confusoria rispetto ai connotati di ogni giudizio giuridico ove per vari aspetti sono frammisti “fatto” e “diritto”. Preferisco allora dire senza mezzi termini che la Cassazione, astretta ovviamente al fatto storico reale quale accertato nel merito (le concrete circostanze di quell’invio su whatsapp), può però e deve controllare e sindacare il modo in cui il giudice di merito ha assunto, nella concretizzazione dello standard, la diversa realtà, anch’essa eminentemente fattuale ma integrativa del dover essere normativo, corrispondente alle generalizzate condotte dei cives che consentono o non consentono di ritenere conforme a buona fede la condotta accertata[8].

Già Falzea in altro scritto[9] aveva posto con lapidaria intuizione questa particolare realtà fattuale di prassi realizzatrice, questi fatti “di tutti gli altri”, al centro della scena della applicazione giudiziale degli standards, indicando i cives come destinatari primari delle clausole generali, e la loro eventuale applicazione giudiziale come un posterius rispetto alla prassi attuativa spontanea, la quale non può pertanto essere trascurata dal giudice: «la prassi, in questo caso, come dispositivo che concorre alla determinazione dell’effetto giuridico, subisce una mutazione e si trasforma in valore, con un processo simile a quello della consuetudine». E non importa qui che il valore sottostante alla clausola generale, ad esempio quello della buona fede, preesista nella coscienza sociale e nella esperienza comune al momento in cui il legislatore lo recepisce in questa o quella norma di legge, perché la preesistenza del valore alla posizione della norma è o dovrebbe essere normale anche ove la norma nulla abbia a che spartire con una clausola generale[10]. Importa invece che si tratti di un valore che a contatto con la prassi muta nel tempo in modo consistente ed imprevedibile la sua portata, e che dunque da un lato il legislatore sia costretto a recepirlo, nell’art. 1337 ad esempio, in modo particolarmente generico ed aperto al mutamento, d’altro lato il giudice, già nell’interpretare in astratto l’art. 1337, non possa non considerare la “buona fede” nella realtà fattuale della coscienza sociale e della esperienza comune al tempo del fatto singolo accertato in giudizio. Mentre il giudice può tranquillamente, e salvi casi particolarissimi, ignorare i “fatti degli altri” e cioè la circostante realtà della prassi realizzatrice, e concentrarsi invece sulla relazione tra il fatto concreto accertato nel processo e la norma astratta e la sua interpretazione quando si tratti di capire cosa voglia dire “estorto con violenza” o “carpito con dolo” ai sensi dell’art. 1427 c.c. (qui i “fatti degli altri” saranno semmai i fatti singoli e particolari accertati in altri giudizi, in guisa di attuazione spontanea o viceversa violazione della norma posta, dei quali il giudice terrà conto nell’esercitare l’ars distinguendi in relazione ai presunti precedenti formatisi in quei giudizi; ma di ciò oltre).

2.L’attuazione spontanea delle norme processuali; è dato distinguere fra attuazione giudiziale ed attuazione spontanea anche quando la norma processuale ha per destinatario diretto il giudice?

L’attuazione spontanea è invece più sicuramente e concretamente monitorabile rispetto alla norma processuale, poiché tale attuazione ha luogo nella ufficialità pubblica del processo, ed inoltre e correlativamente perché la norma processuale ha, salvo casi limitatissimi, come destinatario diretto anche, e spesso in primo luogo, il giudice.

Segue da ciò, anzi, la apparente difficoltà di distinguere, rispetto alla norma processuale, attuazione spontanea da attuazione giudiziaria, perché il giudice nel processo non fa (o non dovrebbe fare) che applicare continuativamente la legge processuale e ciò non parrebbe che definibile come attuazione spontanea. Mi sembra tuttavia che il criterio distintivo passi attraverso il porsi della questione interpretativo-applicativa della norma processuale e l’affiorare dunque della sua soluzione in forma provvedimentale o per lo meno motivazionale.

Se si condivide questo criterio, è assolutamente agevole e perfino lapalissiano (altrimenti si giungerebbe all’opposto assurdo che tutto o quasi nel processo è attuazione giudiziale) dire, ad esempio, che quando il presidente del collegio in Cassazione dà la parola al procuratore generale e successivamente al difensore del ricorrente sta attuando spontaneamente la regola processuale scritta nell’art. 379, c. III, c.p.c..

Meno agevole – sempre riguardando il processo civile – è ricondurre alla attuazione spontanea o viceversa a quella giudiziale la soluzione implicita di questioni processuali o l’implicito assorbimento di questioni di rito o di merito. Queste situazioni hanno dato luogo, come è ben noto, a complessi dibattiti nella dottrina e nella giurisprudenza processualistica, culminati nelle teoriche sul giudicato implicito e nelle controversie sulla sua estensione, e comunque tutti accomunati dal ravvisarsi, nelle medesime situazioni, sempre una decisione giudiziale implicita, funzionale, nel primo caso, al dispiegarsi della successiva attività decisoria, e nel secondo (quello dell’assorbimento) alla logica accettabilità di un esercizio della attività cognitiva solo apparentemente difettoso rispetto alle richieste delle parti.

A me pare tuttavia che, sul versante della teoria generale, siffatte decisioni (processuali) implicite debbano ascriversi alla attuazione spontanea delle regole processuali da parte del giudice. Ciò che conta non è il loro effetto finale, visto che su quel piano l’effetto della attuazione spontanea e della attuazione giudiziale è sempre la concretizzazione materiale del diritto posto o del dover essere normativo che dir si voglia. Ciò che conta ed è discriminante è invece la modalità della attuazione. E di attuazione giudiziale conviene discorrere, per la norma processuale come per quella sostanziale, solo quando essa sia esplicitamente solutoria di dubbi e questioni ed aggiunga alla spontanea e materiale concretizzazione del diritto posto una traccia “giurisprudenziale” variamente utilizzabile pro futuro. Rispetto alla norma processuale, insomma, si avrà attuazione giudiziale solo quando sia tangibile e tracciabile non solo l’attività materiale (anche implicitamente evincibile) del giudice quale destinatario diretto della regola, ma la sua attività intellettuale eppur pragmatica e rapportata al caso concreto, quale interprete non altrimenti sostituibile di fronte alla res dubia sollevata dalle parti o rilevata d’ufficio. Di guisa che, esattamente come accade (v. § 1.4) per l’attuazione delle norme sostanziali, sebbene qualunque forma di attuazione conduca – come osservava Falzea – «dalla norma generale, astratta e indeterminata, alla regola casuale, concreta e determinata», è solo l’attuazione giudiziale che consente la successiva analisi del percorso e dunque la sua imitazione o critica in casi simili.

Quando dunque il giudice decide il merito egli ha implicitamente affermato la propria giurisdizione. Avrà allora anche senso dire che ha attuato spontaneamente (se correttamente o meno lo diranno le impugnazioni) le norme processuali sulla giurisdizione e potrà anche dirsi che lo ha fatto in modo tracciabile, mentre assai più chimerica resta la tracciabilità della attuazione spontanea delle norme sul contratto ad opera di contraenti che non si rivolgono per le ragioni più disparate ad un giudice e neppure a legali che formalizzino fra loro una qualche controversia. Avrà invece poco senso discorrere di attuazione giudiziale sol perché è il giudice a porla in essere siccome destinatario di quelle norme, ma senza che una regola casuale solutoria di controversia sia, non solo tracciabile (come in effetti è), ma anche descrivibile, analizzabile ed imitabile[11].

3. Segue: la maggiore tracciabilità della attuazione spontanea delle norme processuali; la inattuazione spontanea ragionevolmente ammissibile.

Ciò premesso, resta appunto il fatto che l’attuazione spontanea delle regole processuali, ad opera del giudice o delle parti, sebbene non “faccia giurisprudenza”, sia maggiormente constatabile e controllabile di quanto non accada per l’attuazione spontanea del diritto sostanziale.

Da essa – da non confondersi con le prassi processuali nelle zone lasciate sgombre dai precetti normativi di cui dirò oltre – possono trarsi anche statistiche attendibili, sol che serva e che lo si faccia con metodi idonei, cosa in Italia piuttosto rara[12]. E si tratterebbe – quel che più importa sul piano teorico – di statistiche fondate su dati particolari in larga prevalenza direttamente documentati negli incartamenti (o oggi e sempre più nei file informatici) processuali. Mentre, ad esempio, le statistiche, rectius le geremiadi, sul grado di attuazione o inattuazione delle norme tributarie sostanziali non si fondano del tutto su dati minutamente documentabili (il sommerso o nero che dir si voglia è per definizione senza traccia), bensì su riscontri macroeconomici comparativi ed altre più o meno raffinate metodologie induttive.

Soprattutto, a differenza che sul versante del diritto sostanziale, è ben difficile che anche nel singolo caso, o per lo meno nella maggioranza dei singoli casi, la norma processuale resti inattuata senza che il dubbio o contrasto o volontà e/o condotta violativa che ha determinato la sua inattuazione non sia superato dalla attuazione giudiziale nel medesimo processo e se del caso nei suoi vari gradi, sicché alla (mancata) attuazione spontanea si sostituisce immediatamente l’attuazione giudiziale riducendosi per forza di cose le zone d’ombra della inattuazione. Non così evidentemente quando sia inattuata o violata, nella dimensione spontanea e precontenziosa, una regola sostanziale sul contratto o sulla proprietà ecc.: l’attuazione giudiziale prenderà allora il posto della inattuazione spontanea non certo immediatamente, ma solo per il tramite di apposito esercizio del diritto di azione, né sarà agevole controllare quante volte e perché ciò non accada. Insomma la differenza fra il versante del diritto processuale e quello del diritto sostanziale, quanto alla interrelazione fra attuazione spontanea ed attuazione giudiziale, consiste in ciò che il carattere «rimediale» ed il «compito sostitutivo» della «attuazione autoritativa» «affidato ad un terzo che ne è istituzionalmente investito» (sono sempre espressioni di Falzea) prendono luogo della «prassi attuativa spontanea» solo occasionalmente ed a significativa distanza temporale sul versante del diritto sostanziale, e sull’altro versante invece ciò accade nella immediatezza del processo e con la frequenza assicurata dal controllo officioso del giudice sul processo[13].

All’opposto è più agevole nel processo verificare la ormai radicale e generalizzata inattuazione, con il pieno ed indispensabile assenso dei giudici, di norme remote, sostanzialmente e de facto abrogate per desuetudine[14] perché, sebbene tutt’altro che oggettivamente questionabili sul piano interpretativo astratto, la loro spontanea attuazione è risultata nel tempo o forse fin da subito ultra vires: si pensi all’art. 130 c.p.c. che ancora imporrebbe la presenza del cancelliere, quale probo amanuense, in udienza, ovvero all’art. 81 disp.att. c.p.c. che vieterebbe, salvo esplicita e motivata giustificazione, un intervallo maggiore di quindici giorni fra una udienza e l’altra[15]. Ed in effetti nei casi menzionati si sarebbe di fronte a vere e proprie prassi contra legem, le quali, a fortiori in materia processuale, non dovrebbero trovare alcuna cittadinanza nell’ordinamento, se non fosse che proprio in termini di teoria generale e di logica può dirsi eliso a monte il loro carattere contra legem dalla constatata totale ineffettività del diritto posto siccome ritenuto diffusamente e ragionevolmente inattuabile (diritto posto, dunque, ma non più positivo). La cosa è ovviamente ammissibile solo in via eccezionale e quando non siano in gioco, come qui non lo sono, valori costituzionali. Ed infatti prassi contra legem, costituzionalmente illegittima perché violativa del diritto di difesa e della funzione giurisdizionale nel suo complesso, oltre che del tutto irragionevole e solo comodista di fronte a disposizioni tutt’altro che inattuabili, è stata per tempo non breve ed in aree territoriali tutt’altro che irrilevanti, ed è ormai fortunatamente sorpassata, quella della audizione dei testi fuori dall’aula di udienza ed a cura dei soli avvocati.

Naturalmente, prima di discorrere di vera e propria “inattuazione” di norme processuali, occorrerà verificare se la regola sia semplicemente scarsamente attuata per mancanza di occasioni e si avvii semmai (ma la conseguente decisione abrogativa spetta al legislatore) verso una sorta di obsolescenza per inutilità, ovvero sia scientemente e più o meno giustificabilmente “inattuata”, nella sostanza sistematicamente violata o aggirata e perciò non più effettiva e positiva. A questa seconda ipotesi sono evidentemente da ricondursi gli esempi sopra menzionati; la prima ipotesi riguarda ad esempio l’art. 114 c.p.c. sul giudizio di equità sol perché le parti non concludono mai il relativo accordo, e così pure l’art. 516 c. II, c.p.c. sol perché è ormai pressoché chimerico il pignoramento dei bachi da seta. Questa distinzione e le relative constatazioni sono ovviamente comuni anche a chi indaghi sull’attuazione spontanea del diritto sostanziale e la distinzione dipende dal se la regola della cui attuazione si tratta si inserisce in un segmento cogente e necessitato rispetto a fatti o atti giuridici precedenti ovvero entri in gioco solo a seguito di una opzione riservata alla autonomia dei privati e dipendente dall’ affiorare o meno di loro concreti interessi. Qui si vuol solo tornare a sottolineare che essendo il processo nel suo complesso un meccanismo progressivo e funzionale governato da una larga percentuale di norme (nominalmente) imperative agevolmente identificabili ed inoltre, e come già ricordato, un meccanismo documentale e idoneo a documentare anche i suoi segmenti opzionali, le due ipotesi sopra cennate sono più facilmente individuabili e riconoscibili. E ciò vale insomma anche per l’ipotesi della non attuazione spontanea per mancanza di occasioni, la quale appunto non elide la effettività e positività della norma. Viceversa, sul versante del diritto sostanziale, e sebbene gli sciami d’api e soprattutto gli animali mansuefatti circolanti sul territorio nazionale siano fortunatamente ancora numerosi, sarebbe davvero difficile dire (o che il sociologo o lo statistico dicano al giurista) se gli artt. 924 e 925 del codice civile siano norme non più positive per sostanziale “inattuazione” o solo norme di rarissima applicazione anche spontanea.

4.L’attuazione giudiziale delle norme processuali; prevedibilità versus adattabilità delle regole generali e astratte e delle regole casuali del processo civile; dal quid facti al quid iuris nella enucleazione della regola casuale in materia processuale; standards valutativi nelle norme processuali; l’auspicabile self-restraint della giurisprudenza processualcivilistica e l’overruling.

4.1.      Quanto alla attuazione giudiziale del diritto processuale, moltissimo ovviamente vi sarebbe da dire, ma se si resta nelle campiture generali tracciate da Falzea e la si confronta con l’attuazione giudiziale del diritto sostanziale può forse essere sufficiente annotare quanto segue.

a) Non sembrano esservi ragioni logiche o di teoria generale idonee a distinguere l’attuazione giudiziale di una norma processuale da quella di una norma sostanziale.

b) Sul piano empirico tuttavia, e con ripercussioni giuridicamente rilevanti di tutta evidenza, accade che nella individuazione della regola casuale attuativa della norma processuale scritta il giudice abbia, in teoria ed anche in pratica, il compito semplificato nel primo momento e cioè in quello della individuazione del quid facti e nell’immediato e conseguenziale ed inscindibile passaggio[16] alla individuazione del quid iuris: i fatti ai quali la norma processuale si riferisce – vuoi quando si tratti di fatti pre o extra-processuali (ad es. la situazione di fatto idonea ad affermare o negare la competenza territoriale) vuoi a fortiori quando si tratti di fatti che accadono nello stesso processo (ad es. la avvenuta costituzione del convenuto, il rifiuto di rispondere all’interrogatorio formale) – sono sì contemplati dalla norma scritta in termini generali ed astratti, ma la generalità ed astrattezza è desunta da una ipotetica realtà fattuale concreta, immaginata dal legislatore, ben più ripetitiva e standardizzata, nell’ambito della risalente esperienza processuale, di quanto di solito non accada per i fatti contemplati in astratto nelle norme sostanziali. Perciò l’operazione – la quale è pur sempre un giudizio di diritto – di riconduzione del fatto concreto al fatto generale ed astratto previsto dalla norma processuale è operazione assai più semplice siccome non sconta di solito, come accade invece per la norma sostanziale, l’emersione continua di realtà concrete eterogenee e nuove richiedenti altrettanto continui ripensamenti della disposizione formale in funzione della creazione di una regola casuale. Senza contare che anche l’accertamento del fatto concreto in sé, e cioè il vero è proprio giudizio di fatto, si giova di una semplificazione cognitiva e probatoria che riduce il margine di incertezza e di alea e perciò in definitiva il margine di indeterminata e di difficilmente verificabile varietà ed oscillazione nelle attuazioni giudiziali della medesima disposizione. Il fattore di una tale semplificazione è ovviamente intrinseco allorché il fatto accade nel processo ed apud iudicem, e virtuale invece e voluto dallo stesso legislatore allorché il fatto è extraprocessuale ma occorre accertarlo prima facie ai soli fini della applicazione della regola processuale senza rifluenze su eventuali applicazioni nello stesso processo di regole sostanziali che contemplino il medesimo fatto (si veda l’art. 38, u.c., c.p.c.).

c) Inoltre la norma processuale è, per forza di cose, posta dal legislatore sulla base di scelte valoriali di ordine prevalentemente tecnico-giuridico piuttosto che socio-economico, almeno una volta che la Costituzione o altro insieme di principi ordinamentali sovraordinati abbiano definito anche per il processo la cornice ideologico-politica di riferimento; scelte valoriali tecnico-giuridiche, dunque, destinate ad omogeneizzare il più possibile lo svolgimento concreto dei processi nello spazio ma anche nel tempo, e nel tempo anzi vocate a durare indefinitamente, essendo il processo un contenitore tendenzialmente neutro idoneo alla soluzione delle controversie ed alla attuazione del diritto oggettivo sostanziale quali che siano le norme di quest’ultimo ed il loro evolversi. Il che ovviamente non vuol dire che anche la norma processuale quando si fa, in mano al giudice, regola casuale, ed in particolare nella “enucleazione” falzeiana del quid iuris e nel passaggio da questo al quid agendi, non sia suscettibile di una pluralità di opzioni attributive di significato alle parole in thesi polisenso del legislatore, o perfino di sobrie varianti interpretativo-applicative commisurate al caso concreto, e neppure vuol dire che le norme processuali non debbano potersi adattare attraverso l’opera degli interpreti a realtà fattuali del tutto nuove ed imprevedibili al momento della loro posizione (si pensi ad esempio a come e quanto svariate regole del nostro processo civile dovranno fare i conti con il fenomeno del third party litigation funding e con la preoccupante figura del “finanziatore della lite”). Ma solo vuol dire che il processo, come contenitore neutro legittimante l’attuazione giudiziale del diritto sostanziale, richiede una particolare e potenziata uniformità spazio-temporale della stessa attuazione giudiziale delle sue regole.

Mi pare insomma si possa affermare che, data una decente e ragionevole durata media della norma di legge prima che essa divenga obsoleta e sia formalmente modificata (il legislatore che cambia capricciosamente idea ogni piè sospinto finisce col perdere la tempra e la credibilità di legislatore), la norma sostanziale è per sua natura “aperta” all’affiorare di nuove situazioni di interesse rinvenienti dal tumultuoso evolversi dei rapporti socio-economici, il quale troverà un riscontro in regole giudiziali dei casi concreti variate ed evolute a misura che i casi concreti varino e gli interessi si evolvano (e se così non fosse il legislatore sostanziale dovrebbe reintervenire pressoché mensilmente). La norma processuale invece – ed oltretutto anche e proprio affinché quella “apertura” della norma sostanziale si riveli legittima e rispettosa del principio di eguaglianza nel fluire della esperienza giudiziale e dei processi – è per sua natura “chiusa”, risultando la pressione degli interessi concreti sulla sua interpretazione evolutiva ben minore della esigenza di sua tendenzialmente invariabile certezza di regola del gioco nel tempo e non solo nello spazio.

Facciamo un semplice confronto (e ci si potrebbe divertire a farne tantissimi): l’art. 2049 c.c. è rimasto e resterà per molto tempo del tutto invariato, ma ai due sintagmi “padroni e committenti” e “nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti” è stata riferita una varietà crescente di significati astratti e concreti, a volte perfino in apparenza contraddittori, mano a mano che le dinamiche dell’attività di impresa e del mercato si complicavano e si diversificavano rispetto alla realtà rudimentale delle primordiali fabbriche e dei tradizionali esercizi commerciali dell’Italia d’antan. Anche l’art. 105 del c.p.c. è rimasto invariato, ma – senza nulla togliere alle pregevoli e sempre vive riflessioni dottrinali sull’intervento del terzo – anche il suo standard applicativo nei nostri tribunali, adeguatamente restrittivo, è rimasto sostanzialmente inalterato, sebbene l’indubbio complicarsi, intrecciarsi e correlarsi delle esperienze e dei rapporti socio-economici potesse in astratto favorire una rapido accrescimento ed una rapida diversificazione – proprio come nel caso della “responsabilità dei padroni e committenti” – delle situazioni giustificatrici della partecipazione volontaria di un terzo al processo.

E se si vuole allargare lo sguardo alla Storia e cioè a quella più remota ma anche nota, risulta assai significativo che, nei momenti di maggiore accentramento dei poteri, i tentativi di sopprimere il generale ed insopprimibile quoziente di creatività della interpretazione giudiziale del diritto posto ed in particolare del diritto sostanziale sono stati numerosi – e Falzea ricorda i principali, dalla imperatoria interpretatio di Valentiniano ad altri esempi romanistici successivi, fino al référé legislatif (e dovrebbero aggiungersi ovviamente la rigida equiparazione robespierriana interpretazione = violazione della legge, nonchè la originaria versione rivoluzionaria del Tribunal de Cassation) – tutti però destinati al fallimento. «Il potere autoritario» – osserva Falzea (La prassi cit., 449) – «ha cercato…di riserva[re] a se stesso il potere interpretativo o il controllo degli interpreti: ma l’interpretazione, per la incoercibile forza delle cose, gli è sempre sfuggita di mano». Un solo tentativo si è rivelato invece al postutto coronato da parziale successo evolutivo ed andrebbe rammentato su un binario parallelo agli altri: è quello culminato nel trionfo del Re Sole sui Parlements locali, non tanto quanto alla intentio regale, anche in quella contesa manifesta, di conculcare la loro creatività di fronte al diritto sostanziale, ma sì quanto alla eliminazione della loro autodichia regolamentare riguardo alle regole processuali degli stessi giudizi loro affidati. Ne è sortita l’Ordonnance Civile del 1667 e di seguito ed in tutta Europa la statualizzazione accentratrice della procedura e nella sostanza non si è tornati più indietro. In versione moderna – e ad esempio nel nostro art. 111, c.I, Cost. – alla istanza statalistica ed egemonica si è sostituita l’istanza della certezza nonché della particolare e rafforzata prevedibilità delle regole del gioco. In questo contesto la interpretazione giudiziale in materia processuale ha anch’essa un insopprimibile quoziente di creatività, ma est modus in rebus.

Conferma a contrario di tutto ciò si ha nel fatto che quando gli interessi concreti (quelli del lavoratore dipendente come parte asseritamente debole, quelli collettivi della classe di danneggiati o dei potenziali pregiudicati da clausole contrattuali seriali ed abusive, quelli del mercato di fronte alla impresa in crisi ecc…) premono in realtà e prepotentemente sul crinale fra diritto sostanziale e processo e perciò anche su quest’ultimo, il legislatore processuale è chiamato ad intervenire formalmente perfino  più di quanto non lo sia il legislatore sostanziale: quest’ultimo può affidarsi alla giurisprudenza, quanto all’altro è miglior partito che provveda egli stesso novellando o riformando. Ed in fin dei conti – paradosso solo apparente, visto quanto fin qui osservato – se si guarda al sistema del diritto civile italiano nel suo complesso ed al sistema del diritto processuale civile italiano nel suo complesso, il primo, fatte le debite proporzioni quantitative, non è stato nel dopoguerra più riformato che non il secondo, perfino ove si sconti, riguardo a quest’ultimo, la tara della frenetica mania novellatrice del legislatore processuale dell’ ultimo trentennio, dovuta in larga misura non ad esigenze imprescindibili di adeguamento, ma alla sola risaputa contingenza politica secondo cui le riforme del c.p.c. non costano nulla e sono dunque il più conveniente, anche se il più inutile, modo attraverso cui la maggioranza di turno può reclamizzare il suo impegno per risolvere la crisi della giustizia.

d) In definitiva: in base a quanto rilevato sub b) è possibile (o è maggiormente possibile) ed in base a quanto rilevato sub c) è anche doveroso (o è vieppiù doveroso) che nella attuazione giudiziale della medesima disposizione processuale le regole casuali restino fra loro sempre assimilabili e sostanzialmente combacianti nello spazio e solo lentamente variabili nel tempo. Fuor dalle concettualizzazioni ciò significa che la giurisprudenza in materia processuale ha da essere più stabile che in materia sostanziale e che l’overruling in materia processuale richiede da un lato cautela particolarissima, d’altro lato accorgimenti peculiari idonei a sterilizzarne gli effetti a sorpresa siccome particolarmente iniqui,[17] accorgimenti questi che in altri contesti ordinamentali, non a caso connotati dalla efficacia de iure dello stare decisis, sono da tempo noti ed utilizzati anche e ove del caso in relazione ai precedenti di diritto sostanziale: si pensi alla distinzione fra prospective e retrospective overruling, o alla dottrina della Corte di giustizia sulla efficacia nel tempo delle pronunce pregiudiziali.

Naturalmente tutto è relativo e massimamente qui. Il processo ed in particolare il processo civile come pura forma insensibile al contesto socio-economico è una chimera, altrimenti e per dirne una sola saremmo ancora alla “prova tassata” siccome dotata di una sua astratta ed intrinseca razionalità formale, e non saremmo passati all’opposto principio della libera valutazione. Ed oltretutto vi è che anche fra le norme processuali si riscontrano, pur rari, esempi di utilizzazione di standards valutativi, la cui attuazione è per definizione ben aperta, del tutto analogamente a quanto si verifica sul versante del diritto sostanziale, al mutare anche frenetico della esperienza di vita sociale esterna al processo: si pensi alla “normale prudenza” dell’art. 96 c.p.c., o alle “gravi ragioni di convenienza” dell’art. 51, o al “conflitto di interessi” dell’art. 79, ed in fin dei conti allo stesso “avervi interesse” dell’art. 100[18].

Specularmente anche il formante giurisprudenziale del diritto processuale è stato o è a volte fortemente condizionato dal contesto esterno, pur se a questo il legislatore formale non si sia nemmeno implicitamente riferito, di guisa che gli esiti quantunque consolidati della attuazione giudiziale della norma processuale meritano di essere rinnegati, con la dovuta prudenza ed evitando per quanto consentito sorprese, di fronte al tramonto di quel contesto esterno d’origine. Un esempio evidente è la nota affermazione giurisprudenziale, del tutto posticcia rispetto al tenore letterale dell’art. 77 c.p.c., circa la imprescindibile necessità del conferimento di sottostanti poteri di rappresentanza sostanziale ai fini della valida investitura di un procuratore speciale quale rappresentante processuale: comprensibile semmai decenni e decenni or sono di fronte al rischio che designando solo per “quel” processo il sindaco o il parroco del paese come mero rappresentante processuale la parte sostanziale riuscisse ad influenzare il giudice, ridicola oggi quando impone almeno per prudenza che la multinazionale stia in giudizio in persona del legale rappresentante statutario, e non del general counsel o di altro soggetto munito di procura speciale…. non si sa mai qualcuno questioni sui “sottostanti poteri sostanziali”.

4.2.      In conclusione: nella tensione dinamica fra l’apporto creativo non arbitrario ma inevitabile di qualsiasi decisone giudiziale (per lo meno e sempre sul piano della applicazione a fatti concreti, se non sempre e necessariamente su quello della interpretazione astratta) e la indispensabile quanto relativa certezza del diritto, quest’ultima deve e può incidere di fronte alla legge scritta processuale più di quanto non accada di fronte alla legge scritta sostanziale, e di fronte alla prima, più che di fronte alla seconda, con maggiore e più pregnante estensione dal livello sincronico (ove la certezza del diritto manifesta per logica la sua più ovvia espansione) al livello diacronico (ove, via via che l’orizzonte temporale si allunga, la certezza del diritto è comunque costretta a relativizzarsi onde non volgersi in inattualità del diritto).

Convergono in questa prospettiva, da un lato, la particolare funzionalità della certezza del diritto quando si tratta di regole del gioco, le quali servono a loro volta a garantire la intrinseca legittimità e giustizia delle decisioni giudiziali sul merito e perciò applicative del diritto sostanziale, di guisa che il valore intrinseco della interpretazione astratta migliore ed in ipotesi correttiva può in certi contesti cedere di fronte al valore intrinseco della interpretazione astratta consueta della disposizione processuale; d’altro lato la non assoluta ma sicuramente maggiore possibilità di invarianza, o di variazione poco rilevante sul piano socio-economico e dei valori, che i fatti concreti prospettano quando si tratti di quelli cui deve applicarsi la norma processuale, e perciò la non assoluta ma sicuramente maggiore possibilità che anche l’applicazione giudiziale concreta di essa sia più stabile.

Fuori dai singoli casi di specie, ed una volta accettata la cennata differenza, resta eminentemente empirica e ben difficile da definire a priori, di fronte a qualunque norma posta sostanziale o processuale, la tensione fra elasticità e certezza: quanta elasticità? e quanta certezza?

Il connotato assai elementare ed assolutamente tradizionale di questa impostazione è a mio avviso la migliore riprova della sua correttezza di fondo. Essa dunque non merita di essere superata o sbilanciata né verso visioni nichilistiche che mortifichino la rilevanza della posizione formale delle norme scritte predicando una inverosimile preponderanza ed anche indeterminatezza della creatività giurisprudenziale; e neppure verso richiami alla “calcolabilità” delle decisioni dei casi concreti, i quali richiami – di là dalla loro giusta valenza di sottolineatura della esigenza di certezza e dalla loro portata di implementazione di raffinati strumenti predittivi utili al mondo della economia e della gestione aziendale – pretendano invece la futura sostituzione dello strumento informatico al cervello ed alla sensibilità umana nella soluzione delle liti. Nel che non vi sarebbe nulla di particolarmente sbagliato, se non fosse che il necessario quoziente di elasticità di fronte alle infinite varianti dei fatti concreti (sostanziali ed anche, sebbene in minore misura, processuali) dovrebbe essere assicurata da un raffinato “programma” umanamente escogitato. E “programma” umanamente escogitato è già la buona vecchia norma di legge scritta, concettualmente non distinguibile, per ciò che qui interessa, da un “programma informatico” solutorio delle liti, se non per un maggior grado di specificità di quest’ultimo. Sennonché la rincorsa verso un “programma solutorio” sempre più specifico, onde raggiungere la comprensione decisioria di fatti concreti per definizione nuovi, è rincorsa ad infinitum, e l’ultimo tratto da percorrere andrà sempre assegnato al programmatore e cioè alla mente umana, almeno se un sufficiente grado di elasticità si vuole garantire. Ed allora e per quest’ultimo segmento preferisco il giudice in carne ed ossa come programmatore immediatamente posto innanzi ad un fatto reale, piuttosto che un programmatore che alla consolle selezioni differenze ed equivalenza fra una pluralità di fatti passati prima che il nuovo fatto reale si sia verificato.

Riflessioni sulla consuetudine come prassi genetica ed insieme attuativa.

Quando Falzea si occupa e non può non occuparsi della consuetudine, come eminente esempio di prassi giuridicamente rilevante siccome addirittura prassi genetica, non riesce più a chiamarla – e la cosa è in apparenza ben comprensibile – prassi attuativa, e cioè non riesce ad omologarla alla attuazione spontanea del diritto sebbene sia in essa certamente fondamentale, specialmente ma non solo all’origine, il momento della spontaneità. La chiama prassi genetica o genericamente prassi giuridica, ma mai prassi attuativa (salvo che in un passo che andrà significativamente ricordato al termine del presente paragrafo). Ma neppure dice che non lo sia del tutto.

«La prassi attuativa, come si è visto, agisce in presenza di una norma generale di cui porta ad effetto la tensione verso la realizzazione. Ma vi è pure un tempo diverso in cui la prassi giuridica esercita una influenza essenziale nel diritto. E’ il tempo della tessa formazione della norma generale, il tempo in cui essa agisce come prassi genetica. Questa forma, sotto il profilo logico, precede la prassi attuativa, perché attiene al tempo della fondazione stessa del diritto (….).

Il fenomeno di prassi genetica più noto nell’esperienza giuridica è quello della consuetudine. Anche nella prassi genetica consuetudinaria, non diversamente da quanto avviene nella prassi attuativa, è fondamentale il ruolo della norma casuale, che si svolge però, in una direzione inversa rispetto a quella della prassi attuativa. Laddove la prassi attuativa conduce il diritto dalla norma generale alla norma casuale, la prassi genetica consuetudinaria lo conduce dalla norma casuale alla norma generale. Come è una norma casuale a concludere, nelle sue singole specificazioni, il ciclo di vita della norma generale, è pure una norma casuale, quando avvia un processo di reiterazione generalizzante, ad aprire il ciclo di formazione della norma generale consuetudinaria» (La prassi cit., 437-438).

Sembrano quindi consentiti i seguenti svolgimenti.

(i)         Alla consuetudine corrisponde una prassi genetica, il cui primo ideale momento logico è la creazione di una norma casuale non preceduta da una norma generale.

(ii)        Sennonché questo primo momento logico – virtuale e immaginifico quanto si voglia e non esattamente individuabile nel tempo e nello spazio, ma autentico a priori della consuetudine – non può dirsi a rigore attuazione spontanea perché non è attuazione di null’altro che vi restrostia; ragionando con le scansioni falzeiane, cui corrisponde l’emergere della regola casuale, dovrebbe dunque dirsi che dal quid facti si passa direttamente al quid agendi, saltando il quid iuris; ed è poi questione di scelta filosofica e non teorico-generale (distinzione alla quale Angelo Falzea era sempre sensibile nella sua giustapposizione-cooperazione creativa e feconda con i filosofi del diritto) dire se nella genesi della consuetudine l’agere scaturisce dal fatto in ragione o meno di un generico senso di giustizia o della semplice convenienza: si tratterà, a quello stadio ipotetico, pur sempre di convenienza occasionale e individuale o di senso di giustizia personale ed individuale (quanto innato esso sia è appunto faccenda riservata ai filosofi); dell’una e dell’altro il giurista può convenientemente disinteressarsi.

(iii)       Il giurista torna in campo nei momenti logici successivi; ed i momenti logici successivi, con ogni probabilità non ordinabili fra loro e perciò contestuali per ciò stesso che essi sono fra loro coessenziali, consistono nella reiterazione e nella formazione della opinio iuris atque necessitatis. Mano a mano che la regola casuale è reiterata significativamente come regola dell’agire e si forma fra i consociati o in una particolare cerchia di consociati la convinzione della sua vincolatività, vuol dire che la prassi genetica consuetudinaria ha condotto “[il diritto] dalla regola casuale alla regola generale”; ove invece la prassi attuativa vera e propria e cioè la attuazione spontanea conduce il diritto dalla regola generale alla regola casuale.

(iv)       Ma prima che ciò accada e che perciò, di fronte alla consuetudine ormai effettivamente integrata e riscontrabile come fonte giuridica, la prassi genetica ridivenga prassi attuativa come di fronte a qualunque altra regola giuridica generale, deve necessariamente ipotizzarsi un momento in cui la reiterazione della regola casuale non è puramente accidentale bensì dovuta al diffondersi della opinio di “vincolatività”, altrimenti la mera reiterazione non apporterebbe alcun connotato di giuridicità e darebbe luogo ad una semplice abitudine o a una moda giuridicamente irrilevante; un momento dunque in cui i soggetti che adottano la regola casuale che sta per divenire consuetudinaria e perciò giuridicamente rilevante percorrono tutte e tre, compresa quella di mezzo, le scansioni falzeiane tipiche della attuazione spontanea come di quella giudiziale: dal quid facti, al quid iuris (cosa, secondo la mia opinio iuris atque necessitatis in relazione ai fatti concreti, sarei tenuto a fare o a dare ecc… o dovrei attendermi di ricevere) al quid agendi.

(v)        Insomma – senza necessità di scomodare troppo il principio di indeterminazione e/o la meccanica quantistica e bastando invece ciò che dovrebbe essere noto ai giuristi da secoli e che cioè in diritto ed anche in teoria generale del diritto non sempre 2+2 fa 4 – accade quanto al fenomeno complessivo della consuetudine, nel suo logico dispiegarsi, che la prassi attuativa o attuazione spontanea intervenga non solo dopo che la consuetudine si sia formata ma anche durante la sua formazione e che dunque al formarsi della consuetudine corrisponda non solo il dispiegarsi di una prassi (e cioè di una condotta materiale e di una corrispondente regola casuale) genetica (che non è attuazione di nulla), ma anche e via via di una prassi attuativa. In fin dei conti – in ciò l’evidente carattere indeterministico della conclusione – l’attuazione spontanea della consuetudine come regula iuris comincia un momento prima che la consuetudine sia una regula iuris.

Ed ecco perché Falzea, con la densità pregnante di parole non accidentali bensì piene di significato, conclude quella breve pagina sulla consuetudine dicendo che «in un ordinamento giuridico consuetudinario» – ma naturalmente si potrebbe anche dire, in versione meno iperbolica, “all’interno di un segmento di regolazione riservato da ordinamento di diritto scritto alla consuetudine” – «è la prassi, prassi genetica e prassi attuativa [enfasi mia], che governa l’intero corso della vita giuridica. Nella sua applicazione la norma consuetudinaria riprende le vesti di norma casuale con cui si era presentata alla sua origine, ma ormai come norma casuale appartenente alla giuridicità».

6.Segue: consuetudine, prassi in senso stretto, legge; digressione verso le prassi processuali in senso stretto; le regole del gioco e le regole per giocare meglio.

Altre parole di Falzea (La prassi cit., 438) mi sembrano, sotto profili correlati, particolarmente feconde in quelle pagine sulla consuetudine.

«L’aurora del diritto è annunciata dal formarsi delle norme casuali consuetudinarie. L’itinerario che porta, oggi come ieri, alla norma consuetudinaria – regola giuridica condivisa dal gruppo sociale e perciò stesso astratta e generale – muove da un caso singolo e dal modo specifico in cui i soggetti in esso coinvolti danno una risposta al problema specifico nel quale si trovano impegnati. Ma la risposta singola ad un singolo problema non è ancora né una regola sociale né una regola giuridica….».

A Falzea – cultore ben più che hobbystico anche di antropologia ed etnologia – non poteva sfuggire che l’ipotesi, in termini di storiografia ideale, di un’aurora del diritto senza diritto positivo nel senso di diritto anzitutto posto, bensì fatta solo di prassi spontanea ma allora anche di soluzioni primordiali di controversie, una aurora del diritto fatta insomma solo di attuazione spontanea o giudiziale di ciò che ancora non si può attuare perché non c’è, non è forse e non sarà mai verificabile con certezza[19]. Quella ipotesi è però altamente probabile se si riflette che le condotte umane esteriorizzate e le relazioni fra gli uomini vengono necessariamente prima delle regole idonee a disciplinarle, e se le condotte e le relazioni vi sono e le regole ancora no, l’urgenza di risolvere le divergenze ed i conflitti che da quelle condotte e relazioni derivano, e attraverso le singole soluzioni trovare le regole casuali, deve essere stata troppo forte per non precedere l’idea di precetti generali e astratti.

Ma la cosa può ripetersi, e Falzea la ripete, anche in dimensione metastorica o se si vuole guardando al presente ed al futuro:

«E poiché la consuetudine, qualunque sia la posizione che la legge adotta per gli usi, è dotata di una forza giuridica che le deriva dalla sua appartenenza alla natura delle cose, la prassi giuridica genetica resta tuttora la via principale attraverso cui le nuove situazioni di interesse penetranto nella vita sociale e giuridica, secondo la intuizione di F. Geny».

Verità plastica e palpabile questa. Ed importante e significativa per il giurista non solo e non tanto allorché una consuetudine in senso proprio si volga nel corso del tempo in norma scritta, ma soprattutto in due casi: a) allorché una prassi materiale non sia divenuta consuetudine in senso proprio bensì rimanga a livello di attitudine o abitudine pur diffusa e socialmente (ma non giuridicamente) rilevante, e non di meno essa suggerisca ad un legislatore formale particolarmente attento l’emersione di un interesse meritevole di tutela; b) allorché una prassi non possa divenire consuetudine in senso proprio ed accada non di meno la medesima cosa è cioè la sua recezione in legge scritta.

a) Esempi del primo tipo – due fra molti – sono oggi dati: dalle cd. “informazioni non finanziarie”, dapprima affacciatesi e diffusesi sempre più di frequente come abitudini degli amministratori di grandi società e gruppi industriali ispirate, per ragioni ideali o reputazionali, ad una social responsibility in materia ambientale e di sostenibilità non ancora giuridicizzata, ma da ultimo rese a certe condizioni obbligatorie da normativa di origine euro-unionale; ovvero dalle prassi relative al fact-finding ed in particolare all’assunzione della prova nell’arbitrato internazionale. Queste ultime, da un lato, tendono utilmente a mediare fra impostazioni normative cogenti per il giudice statuale e diverse fra civil law e common law, che non si imporrebbero agli arbitri (vista la nota loro estraneità alla lex fori arbitri), ma all’una o all’altra delle quali ed in ragione della loro estrazione culturale gli arbitri potrebbero supinamente adeguarsi; d’altro lato queste prassi “mediatrici” non hanno certo raggiunto il livello di vincolatività della lex mercatoria sostanziale (autentica consuetudine) ed infatti sono spesso adeguate o all’occorrenza ampiamente derogate (altre volte invece fin troppo acriticamente accettate). La loro trasformazione in leggi nazionali o in strumenti normativi sovranazionali di diritto uniforme – auspicabilmente mediante scelta sobria e meditata fior da fiore e che salvaguardi la intrinseca elasticità di ogni singolo arbitrato – è ancora di là da venire, ma rappresenta una frontiera alla lunga non eludibile.

b) Esempi del secondo tipo sono le prassi processuali, costrette a rimanere mere prassi, in nessun modo cogenti, dalla riserva di legge che l’art. 111, c. I, Cost. impone alla regolazione del processo civile.

Il discorso sulle prassi processuali è particolarmente sfuggente, oltre a ricondurre in termini generali alle peculiarità della attuazione spontanea delle norme processuali (di cui si è detto ai §§ 2 e 3).

Con esse, se intese in senso stretto e proprio, non vanno ovviamente confuse le prassi interpretativo-applicative di norme processuali. La distinzione concettuale fra prassi come possibile fonte di consuetudine negli spazi lasciati liberi dalla legge e prassi interpretativa della legge, e cioè in definitiva e più semplicemente giurisprudenza reiterata, deve essere chiara anche sul versante del diritto sostanziale. Ma questa differenza, in concreto, può essere molto più sfumata sul versante processuale; per forza di cose e cioè per la vocazione pervasiva della legge processuale – per lo meno per via di interpretazione quando non sia possibile per via di norma espressa – a regolare l’intero fenomeno del giudizio come tendenzialmente chiuso[20] e neutro e molto meno aperto, rispetto a qualsiasi istituto o fenomeno sostanziale, al continuo evolversi delle istanze socio-economiche (Falzea ha per altro ben ragione nell’indicare alcuni settori del diritto sostanziale come più aperti all’affiorare di nuove istanze evolutive attraverso l’insorgere di regole casuali nuove e di conseguenti prassi consuetudinarie, ed altri – ad esempio la materia successoria – a ciò meno aperti).

Ad esempio: sicuramente prassi interpretativa della legge processuale, il cui connotato “vincolante” – sebbene riferito a condotta eminentemente pragmatica e materiale – promana dalla stessa legge che interpreta, è stata quella della “delega ai notai” inizialmente mercé una interpretazione-applicazione evolutiva delle norme sulla vendita forzata; viceversa autentica prassi processuale, non vincolante e formatasi negli spazi vuoti dalla legge, è la, sempre maggiore o forse solo sempre maggiormente auspicata, attitudine alla brevità degli scritti difensivi, oppure quella del “deposito cartaceo di cortesia” o quella del deposito in udienza o prima dell’udienza di un “foglio” di precisazione delle conclusioni, le quali de iure potrebbero essere tranquillamente precisate a verbale di udienza.

Stando così le cose, o se le cose stanno così, l’ambito delle autentiche prassi processuali non può che ridursi o per lo meno occupare  – e lì aver semmai modo di espandersi – non tanto l’area delle vere e proprie “regole del gioco” processuale quanto quella delle “regole per giocare meglio”[21] e cioè le tecniche di utilizzazione degli strumenti processuali allo scopo: (i) di renderli più utili e produttivi per la efficienza del servizio giustizia (ed allora la prassi si originerà dal dialogo fra ceto giudiziario e ceto forense: si pensi alla prassi, affiorata anni or sono e poi fortunatamente tramontata perché probabilmente perfino contra legem, dell’“in Cassazione parla solo un avvocato per parte”, o più seriamente alla consacrazione ricognitiva di prassi attraverso la moda dei “protocolli”, il più importante fra i quali è oggi quello fra Corte di Cassazione, Procura generale e CNF), ovvero (ii) di renderli più utili e produttivi per il perseguimento degli interessi difensivi della parte (ed allora le prassi andranno ricercate e constatate nel chiuso degli studi legali, e poiché esse esprimeranno la più schietta possibile versione delle “regole per giocare meglio” sarà necessario arrendersi al loro carattere ondivago e plurale, opportunamente aperto alla adattabilità vibratile del caso per caso invece che compresso da esigenze di certezza che qui, non trattandosi di “regole del gioco”, non sono particolarmente avvertite: così ad esempio è inutile sclerotizzarsi sulla prassi “lo scritto difensivo finale prima della decisione del giudice si deposita nell’ultimo giorno utile in modo da avere più tempo a disposizione per redigerlo e da non dare possibilità all’avversario di tenerne conto pur surrettiziamente nel suo scritto finale”, perché ha piena cittadinanza, a seconda dei casi, la prassi diametralmente opposta secondo cui “lo scritto finale si deposita con qualche anticipo in modo da dare più tempo al giudice per leggerlo”).

Due notazioni, con qualche omofonia fra loro, vanno aggiunte, l’una prevalentemente sociologica, l’altra prevalentemente giuridica.

La prima riguarda solo le prassi processuali in senso stretto, assentite congiuntamente da giudici e avvocati, ed il loro frequente recepimento in “protocolli” (non solo quello apicale sopra ricordato). Viene qui in considerazione – mediante siffatti strumenti di cd. soft law il cui pendant sul versante sostanziale è dato dai numerosi codici etici o deontologici – un generale fenomeno di aspirazione al formalismo ed al correlato maggior connotato di certezza anche in relazione a ciò che tutto dovrebbe essere salvo che formalizzato. Altro modo di vedere la cosa è però il seguente: la prassi processuale, che non può farsi norma consuetudinaria, proprio perciò aspira alla veste ricognitiva e lessicale della norma anche allo scopo di stimolare un qualche futuro legislatore, oltre che a quello, un tantino paradossale, di stimolare una pseudo opinio iuris atque necessitatis in realtà irrilevante.

La seconda notazione è che sia le prassi interpretative delle leggi processuali sia le prassi processuali nel senso stretto chiarito (e mi riferisco ovviamente sempre a quelle che nascono dal dialogo fra curia e foro e non a quelle puramente avvocatesche) danno a volte luogo a successiva loro consacrazione normativa espressa e perciò convalidano, nel particolare ambito del processo, la constatazione falzeiana da cui abbiamo poc’anzi preso le mosse, e che Falzea riferisce alla intuizione di Geny, circa la generale funzione della prassi come fattore evolutivo del sistema.

Ciò è – nei limiti di un ragionevole mantenimento in dimensioni semplici e non sovrabbondanti del codice di rito – sacrosanto quanto alle prassi interpretative di norme processuali (è accaduto per la cennata delega ai notai delle operazioni di vendita forzata, divenuta, da prassi interpretativo-applicativa, norma, e così pure per il “principio di non contestazione” consacrato expressis nell’art. 115 c.p.d. dopo anni di stiracchiamento interpretativo dell’art. 167, ecc…). Si suggella così l’evoluzione mercé un crisma di certezza e si impedisce sacrosantemente il sempre possibile ma pernicioso overruling in materia di regole del gioco di cui si è detto in precedenza al § 4.

Quanto invece alla trasformazione in legge delle regole pragmatiche “per giocare meglio”, nate dalla cooperazione tra curia e foro, la considero operazione più delicata e da imprendere con particolare circospezione proprio perché si tratta solo di regole “per giocare meglio”. E viene dunque ancor qui al proscenio, e massimamente in questi casi, uno dei vantaggi generali – rispetto alla fissazione del dover essere normativo, necessariamente proiettata verso un tempo futuro indeterminato quale sempre uguale a sé medesimo almeno formalmente – della prassi come attività materiale che si perpetua giorno per giorno finché praticamente utile e del pari si elasticizza giorno per giorno senza sclerosi e proprio per essere praticamente utile. Insomma: è accaduto ed accadrà ancora che che la “sintesi” degli atti processuali, già sbandierata in vari dei cennati protocolli siccome almeno in parte assimilata nella prassi, divenga legge; però, per cortesia, senza sclerosi e dunque senza sanzioni almeno in termini di inammissibilità o improcedibilità.

7.La prassi giudiziaria come prassi genetica; il precedente nei sistemi di diritto scritto e di diritto giurisprudenziale; interpretazione giudiziale astratta ed ars distinguendi nella utilizzazione dei precedenti.

«Natura genetica possiede, in secondo luogo, la prassi giudiziaria. Ciò è evidente negli ordinamenti giuridici a base giurisprudenziale, quale fu in Roma tutta l’epoca di formazione del diritto classico ed è attualmente il modello del common law, anche se in questa forma di produzione del diritto è sempre presente ed ha un peso non trascurabile il vincolo della tradizione o del precedente, ma soprattutto il condizionamento ai principî generali che l’esercizio dell’attività giudicante va progressivamente costruendo. Negli ordinamenti giuridici a base legislativa, l’attività dei giudicanti non può mai raggiungere il livello di creatività che essa possiede nei sistemi di produzione giurisprudenziale del diritto, essendo in essi riservato istituzionalmente al potere legislativo il compito di dettare le leggi ed ai giudici il solo compito di attuarle. Ma è innegabile che agli organi della giurisdizione spetta un potere coadiuvante nella costruzione dell’ordinamento giuridico. Già l’ufficio ermeneutico di enucleare, tra i significati possibili dell’enunciato legislativo, il significato più conveniente al problema giuridico che sta a base della legge, offre al potere giurisdizionale un ampio spazio di intervento nella ricostruzione deontica della norma di legge. Ma dove la prassi giudiziaria si rivela maggiormente produttiva è nell’utilizzo della tecnica di interpretazione estensiva e nelle operazioni ermeneutico-ricostruttive dirette a colmare le macrolacune del sistema legislativo con la elaborazione di nuovi istituti ed alla reintegrazione dell’ordinamento giuridico in presenza di lacune minori» (La prassi cit., 439-440).

7.1.      Posto di fronte al problema della prassi giudiziaria come prassi (anche) genetica, Falzea lo risolve, in parte esplicitamente in parte implicitamente, attraverso il confronto tradizionale civil law-common law, giovandosi all’evidenza di acquisizioni dei comparatisti italiani già allora assai sviluppate e pur restando, nelle poche ma intense righe sopra trascritte, al livello dei concetti teorico-generali.

A me – del tutto sommessamente – pare sempre un buon modo di inquadrare le cose, perché consente di decifrare, il più possibile semplicemente, i confini tra la prassi giudiziaria come attuativa del diritto posto (vera e propria attuazione giudiziale del diritto, indispensabilmente surrogatoria della attuazione spontanea) e la prassi giudiziaria come posizione del diritto, rispetto alla quale dunque sia dato discorrere di una successiva attuazione spontanea o giudiziale; e tuttavia di calibrare in relazione all’uno o all’altro scenario, o se si vuole anche in relazione al primo dei due scenari, il modo o senso dell’apporto comunque creativo della giurisprudenza. Il che è a dire che la locuzione “creatività della giurisprudenza”, ormai da tempo sdoganata e perfino abusata al punto da diventare spesso anodina, si riferisce non solo ed ovviamente ai sistemi o ai momenti in cui la giurisprudenza è propriamente fonte di diritto, ma altresì, ed in senso pregnante seppur diverso, ai sistemi o ai momenti in cui la giurisprudenza non lo è.

7.2.      L’acquisizione comparatistica di fondo che a mio avviso Falzea tiene ben presente – sebbene con lo sguardo dall’alto della teoria generale che deve forzatamente trascurare i particolari – consiste in ciò: la vera differenza fra civil law e common law non risiede tanto nel vincolo, fattuale e debole per la prima consuetudinario ma giuridico e forte per la seconda[22],  al precedente giudiziale.

Su questo piano oltretutto l’avvicinamento ordinamentale ed anche culturale è tangibile in senso convergente. Basterà ricordare che anche nel variegato universo di common law vi è una cospicua area occupata dal persuasive (piuttosto che binding) precedent, per ragioni geografiche, ovvero all’interno del medesimo ordinamento per ragioni connesse ai rapporti gerarchici far le corti o ad altro. Ancora andrà ricordato che a partire dal Practice Statement del 1966 la allora House of Lords si è formalmente autolegittimata all’overruling del proprio precedente[23]. Ciò che è del tutto pacifico possano fare le Cassazioni o Corti supreme continentali ed anche la Corte di Giustizia UE: che nella prima ipotesi debba concettualmente dirsi re melius perpensa errata la precedente soluzione concreta del medesimo caso, e nel secondo debba dirsi, invece, errata la interpretazione della identica norma di legge scritta la quale permane, in quanto scritta, identica a sé medesima, è differenza in fin dei conti epidermica, o meglio il cui significato ridonda su quella che è la autentica differenza fra civil law e common law.

D’altro lato, e quanto al mondo di civil law – scontata la distanza pragmaticamente tutt’altro che abissale fra una efficacia vincolante de facto solo purché persuasivo del precedente ed una sua efficacia vincolante de iure ma a fondamento consuetudinario – vi è che momenti di giuridicizzazione formale della efficacia del precedente giudiziale non mancano: per restare al nostro ambito nazionale (ed anche nella sua interazione con quello sovranazionale) si pensi già alla risalente dottrina del “diritto vivente” di cui lo stesso Falzea si occupa in altra parte del saggio, e che in fin dei conti può ben riguardarsi come un vincolo che la Corte costituzionale si è dato alla considerazione della disposizione questionata nel solo significato attribuitole dalla giurisprudenza consolidata della Cassazione, piuttosto che in qualunque altro plausibile e perfino quello che pur appaia prima facie dalla sua lettura. E si pensi poi al “vincolo” (che è vietato chiamar tale ma tale è) ai precedenti delle Sezioni Unite ex art. 374, c. III, c.p.c.; ed ancor di più alla efficacia erga omnes delle pronunce pregiudiziali della Corte di Giustizia; l’uno e l’altra, per vero, da ridimensionare in virtù della perdurante possibilità, rispettivamente, della sezione semplice o del giudice nazionale di sollecitare le Sezioni Unite o la Corte del Lussemburgo all’overruling, mediante apposita ordinanza di rimessione o rinvio pregiudiziale della medesima quaestio già risolta, né più e né meno di quanto – ulteriore sintomo di convergenza – il giudice di istanza inferiore inglese che diverga scientemente da un precedente della Supreme Court emana una pronuncia apparentemente contra ius, ma al contempo sollecita un potenziale overruling in alto loco e pertanto la consacrazione della sua scelta come invece conforme diritto. E che sia vera l’una o l’altra cosa lo si saprà solo dopo la pronuncia della Supreme Court, il cui intervento, tradizionalmente molto più raro di quelli di una qualsiasi corte suprema continentale, sarà in tal caso almeno fisiologicamente consentito dal vieppiù doveroso rilascio del leave e cioè del permesso alla impugnazione di ultima istanza. Da soggiungere – sul piano culturale – è la sempre più accentuata adozione del metodo casistico nella formazione universitaria del giurista in talune aree continentali, Francia e Germania in particolare, ancora molto meno da noi.

La autentica, o di gran lunga più rilevante sul piano teorico-generale, differenza fra civil law e common law consiste dunque e piuttosto, quanto del tutto ovviamente, nella preesistenza o (possibile) non preesistenza della norma posta alla soluzione della controversia concreta.

Quando il precedente di common law nasce nella sua dimensione originaria e nelle aree lasciate libere dallo statutory law, l’esercizio della funzione giurisdizionale, oltre ad essere solutorio della controversia, è atto di posizione, prima ancora che di attuazione, del diritto non tanto in ragione della sua futura efficacia vincolante (quando essa vi è, e non vi è – come è noto – allo stesso modo in tutti gli ordinamenti di common law), ma in ragione della non preesistenza di una norma generale e astratta altrimenti posta. La circostanza che in questo momento integralmente creativo o di autentica posizione della regola il giudice si riferisca o meno a vaghi principî di giustizia immanenti al sistema del common law non muta la situazione, perché la assoluta genericità di quei principî è tale da escludere che li si possa ragguagliare alla preesistenza di una norma posta, generale e astratta sì, ma idonea a disciplinare una serie potenzialmente definita e segregata di casi concreti. Diremmo dunque la identica cosa se il nostro giudice fosse autorizzato a rinvenire la regola del caso concreto, in totale assenza di codice civile e leggi collegate e però tenendo conto dei principî costituzionali, oltretutto ben meno vaghi.

Nel momento ideale (ma occasionalmente anche reale) che sto considerando – precedente originario su controversia concreta con caratteristiche fattuali nuove – la individuazione della regola casuale solutoria della controversia concreta non può dirsi, in un sistema di diritto positivo non scritto, propriamente attuazione e deve dirsi posizione; posizione rispetto alla quale dovrà seguire, quale imprescindibile elemento reale di effettività e dunque positività, la successiva reiterata attuazione. Ed è a ciò – e non ai vaghi principî generali di giustizia ispiratori della genesi della soluzione-precedente – che si riferisce Falzea quando giustappone alla natura “genetica” della “prassi giudiziaria” di common law l’affermazione: «anche se in questa forma di produzione del diritto è sempre presente ed ha un peso non trascurabile il vincolo della tradizione o del precedente, ma soprattutto il condizionamento ai principî generali che l’esercizio della attività giudicante va progressivamente costruendo».

È chiaro infatti che la nascita del precedente come momento di produzione o posizione della regola è destinata, non meno o più di quanto accada nel mondo di civil law per la posizione della regola scritta, ad essere verificata nella sua effettività e positività dalla vera e propria attuazione spontanea[24] o giudiziale. È chiaro insomma – ma è ulteriore riprova dell’avvicinamento dei due sistemi a livello teorico-generale e quanto alla dinamica posizione/attuazione giudiziale della regola – che la prassi genetica per mano del giudice, in un sistema di diritto non scritto, finisce con la creazione del precedente. Dopo di che quella giudiziale diventa prassi attuativa nella misura in cui il precedente venga applicato a successivi casi analoghi e così completi altresì il suo volgersi in regola generale e astratta, sia pure – e se ne dirà fra breve – con un grado di generalità ed astrattezza diverso da quello della regola scritta. E si dà naturalmente che un somma di precedenti diversi si faccia sistema e generi principî generali (“che l’esercizio della attività giudicante va” dunque, e per adoperare nuovamente la espressione di Falzea, “progressivamente costruendo”) ed anche di essi vi sia attuazione giudiziale, la quale sarà però, insieme, produzione di nuove regole specifiche a misura che il caso concreto sia sufficientemente nuovo e diverso da quelli risolvibili sulla base di precedenti specifici già formati.

La natura delle cose impone insomma che il vincolo – de iure, consuetudinario, o anche de facto ma particolarmente rafforzato – al precedente sia figlio e non padre della assenza di norma scritta, perché la certezza dei rapporti giuridici è esigenza irrinunciabile e diffusa in ogni sistema. E quando il giudice di civil law diverge ed anche di molto da una altrui interpretazione-applicazione di disposizione scritta, l’usbergo della certezza del diritto può dirsi pro futuro sufficientemente assicurato dal permanere di quella disposizione; ed in relazione al caso deciso l’indubbio deficit di certezza ed anche di eguaglianza di fronte alla legge è anch’esso virtualmente colmato dal permanere della disposizione scritta. Perché rispetto a quel caso il sipario del giudicato e della sua efficacia preclusiva renderanno non più affermabile qualsivoglia “errore” della decisione compreso quello rappresentato dalla difformità in iure della regola casuale rispetto alla norma generale[25].  Mentre al di là del giudicato e nel prosieguo della esperienza giuridica quell’errore si rivelerà o isolato frutto di uno sfortunato accidente compatibile con il carattere necessariamente tendenziale e ottativo di ogni principio di eguaglianza, ovvero non più tale se confermato dalla successiva giurisprudenza; al consolidarsi della quale nuovamente una sorta di macro “efficacia preclusiva” – così emblematica del Falzea teorico generale, ma trasferita qui dal piano del giudicato a quello del precedente giurisprudenziale consolidato – verrà in gioco, nel senso che la norma scritta avrà avuto a posteriori ma tendenzialmente ex tunc[26] il significato attribuitole dall’ultima giurisprudenza consolidata e non avrà senso chiedersi, se non accademicamente, o fino alla prossima occasione evolutiva, se tale significato sia conforme a quello vero.

Viceversa in un sistema di diritto non scritto l’esigenza di certezza, non potendosi giovare dell’usbergo della volontà letterale di un legislatore, postula naturaliter un più intenso grado di ossequio al precedente o almeno a determinati precedenti, e cioè il farsi la regola casuale decisoria del singolo caso regola generale per i casi futuri, alternativa impraticabile essendo la assoluta libertà di ogni giudice di escogitare regole causali volta a volta diverse per casi simili.

È scontato poi che, a misura che la legge scritta occasionalmente sbiadisca di fronte all’emergere di nuove situazioni fattuali, anche nell’universo di civil law i connotati “genetici” della prassi giudiziaria riguadagnino campo su quelli “attuativi”. E Falzea osserva infatti: «dove la prassi giudiziaria si rivela maggiormente produttiva è nell’utilizzo della tecnica di interpretazione estensiva e nelle operazioni ermeneutico-ricostruttive dirette a colmare le macrolacune del sistema legislativo con l’elaborazione di nuovi istituti ed alla reintegrazione dell’ordinamento giuridico in presenza di lacune minori». È tuttavia estremamente significativo che tali operazioni di riempimento mediante analogia, estensione, utilizzazione di principî generali, o di elementi di sistema muovano sempre dalle norme scritte e che, del resto, si discorra elementarmente di “interpretazione” estensiva o analogica e dunque in definitiva di attuazione. E sempre nell’universo della civil law è emblematica – circa il retaggio della legislazione scritta e cioè della posizione formale di regole per mano dei conditores – nella ipotesi-limite in cui nessuna attuazione di norma può esservi, semplicemente perché norma preesistente non vi è né è rinvenibile muovendo da altre norme, la celebre missione affidata dal legislatore svizzero al suo giudice: decidere la controversia secondo la regola che egli adotterebbe “se fosse legislatore”; e dunque – almeno in teoria ma è ovviamente il valore simbolico di questa espressione professorale di formalismo illuminato primo-novecentesco che conta – non già di rinvenire una regola casuale solutoria del caso singolo senza norma scritta retrostante, bensì di porre egli stesso logicamente prima di applicarla una regola generale, “come legislatore” appunto.

7.3.      In questo quadro naturalmente, ove si isoli ora il segmento della attuazione giudiziale del diritto posto, essa si atteggia in modo in parte combaciante, in modo in parte diverso se il diritto posto sia rappresentato da norme scritte prodotte da legislatore ovvero da precedenti di produzione giudiziale.

Analogo almeno sul piano teorico, e con differenze solo contingenti, è il possibile quoziente di intrinseca creatività della attuazione nel senso della applicazione concreta della regola posta. Perché si tratta pur sempre di individuare una regola casuale in relazione a fatti che non saranno e non potranno mai essere assolutamente identici né a quelli ipotizzati della norma scritta né a quelli relativamente ai quali è stata a suo tempo individuata la regola casuale che si è fatta “precedente” e perciò norma posta.

Analoga sarà la insopprimibile libertà nella interpretazione astratta e cioè nella ricostruzione del significato da attribuire alle espressioni linguistiche che sono comunque proprie della regola posta.

Queste due affinità sconteranno tuttavia le seguenti differenze.

La norma scritta nasce per definizione, sul piano della forma insieme esteriore ed intrinseca, come precetto generale ed astratto: la sua interpretazione è essenzialmente la scelta fra più opzioni plausibili quale significato delle parole utilizzate dal legislatore. Il precedente nasce invece come regola casuale e la sua “interpretazione”, ai fini della concreta applicazione a controversia successiva, coincide essenzialmente – ed è cosa molto diversa dalla prima – nella enucleazione, dai segni scritti che documentano o riportano la decisione e le sue ragioni, della ratio decidendi e cioè – per usare ancora le espressioni care a Falzea – del quid iuris e del quid agendi. Non è un caso dunque che:

(i) la tesaurizzazione dei precedenti di civil law (massima, sú-mula brasiliana, doctrina legal spagnola ecc.) avvenga pressoché sempre in forma e stile precettivi, ed esplicitamente recanti il medesimo imprinting di generalità ed astrattezza della norma scritta: il principio di diritto della Cassazione fissa sì la corretta interpretazione della disposizione di legge in relazione ad un caso reale, ma abbandona la sua funzione puramente solutoria della lite singola (funzione non strettamente necessaria, del resto, perché la Cassazione a quello scopo potrebbe anche semplicemente cassare o respingere il ricorso e mandare, come faceva il Tribunal de Cassation originario che tutto era e doveva essere tranne che fonte di giurisprudenza) per acquistare vocazione pro futuro e cioè porsi come specificazione lessicale pur sempre generale e astratta, anche se con un grado di generalità e astrattezza più prossimo ai fatti concreti di quello della disposizione interpretata[27].

(ii) Sicché nelle esperienza reale del diritto giurisprudenziale o dell’uso della giurisprudenza di civil law, come in un gioco progressivo di scatole cinesi, si ripropone, anche ed in modo assai rilevante, una esigenza di interpretazione “astratta” del precedente sostanzialmente non diversa dalla interpretazione “astratta” della norma scritta (prendendo ancora ad esempio l’art. 2049, quando la Cassazione di fronte al sintagma “nell’esercizio delle mansioni a cui sono adibiti” ha preso a specificare, in punto di interpretazione astratta, che il suo significato ricomprendeva anche il nesso di semplice “occasionalità” pur “necessaria” rispetto alle “mansioni” del commesso o dipendente, si è trattato poi, nei casi successivi, di decifrare cosa volesse dire “occasionalità” ed in particolare “occasionalità necessaria” – singolare ossimoro questo – e cioè di specificare ulteriormente sintagmi anch’essi generali e astratti e così via).

(iii) Dato ciò, ben si comprende che i pratici e da un bel po’ anche i comparatisti ed in generale i giuristi continentali abbiano progressivamente scolorito, almeno nella sostanza, il dogma della distinzione rigorosa fra ratio decidendi ed obiter dictum (salvo ad invocarlo avvocatescamente e retoricamente quando occorra): in un sistema a precedente persuasivo e soprattutto a precedente “interpretativo” di norma scritta preesistente, un obiter della Cassazione è in fin dei conti la anticipazione, forse solo meno convinta e dunque meno persuasiva, di una futura interpretazione astratta, ma anche la ratio decidendi o il principio di diritto a questa correttamente corrispondente, una volta sorpassata la loro funzione solutoria della lite singola, altro non sono che una prognosi su future interpretazioni conformi, da parte della medesima Cassazione, in occasione di soluzione in sede impugnatoria di controversie analoghe.

(iv) Viceversa per il precedente di common law, quando esso è solutorio della lite singola senza passare per la interpretazione astratta di una preesistente norma scritta, non manca ovviamente nella sua applicazione successiva la attività gnoseologica di giudici e avvocati intesa alla interpretazione di segni scritti (quelli che documentano la pregressa decisione concreta), ma al proscenio sta la estrazione della ratio decidendi e cioè della ragione giuridica o di giustizia della decisione della lite singola, operazione volta per volta reiterabile, e connotata perdurantemente dal rigore nella distinzione del grano dal loglio e cioè della effettiva ratio decidendi dai meri obiter (i quali per altro, anche in quei lidi e specie se provenienti da corte superiore, non sono certo pro futuro destinati al cestino, ma degradano al livello della semplice ed eventuale persuasività e cioè facoltativa utilizzabilità). Detto in altri termini: ciò che conta per noi è constatare come uno o più giudici in passato, più o meno autorevoli anche in forza della piramide dell’Instanzenzug, hanno interpretato la norma scritta che ci è nuovamente davanti e che ci pone un problema interpretativo-applicativo; ciò che conta invece in un sistema di diritto non scritto è come ed in base a quale regola casuale uno o più giudici in passato hanno fatto giustizia in un caso concreto.

Questi primi profili di differenza sono sicuramente, specie oggi, più sfumati, sfaccettati e relativi di come li ho appena descritti, dovendosi oltretutto tener conto delle sensibili diversità, anche dai punti di vista presi in esame, all’interno di ciascuno dei due grands systèmes. Essi, in termini generalissimi, possono tuttavia – credo – essere tenuti fermi. E ad essi si correla altra differenza concernente questa volta il quid facti.

Nella invocazione ed eventuale applicazione o non applicazione o applicazione opportunamente adeguata del precedente di common law la scena, oltre che dalla estrazione della ratio decidendi, è occupata assai prepotentemente dal distinguishing. Il quale – in assenza di generalizzazioni astratte di ordine fattuale ad opera di una disposizione scritta che non c’è – è accurato, raffinato ed immaginifico raffronto diretto tra fatti concreti e reali: quelli di allora, sussunti nella regola casuale che si è fatta precedente, e quelli di ora.

Anche in un sistema di diritto scritto ad ormai forte connotazione giurisprudenziale l’esercizio forense e giudiziale, e naturalmente anche dottrinale, dell’ars distinguendi tra fatti concreti è cosa tutt’altro che trascurabile nella utilizzazione del precedente. Ma, da un lato, la sua importanza è in qualche modo erosa dalla preponderanza – crescente a misura che crescano le note oscurità e vaghezze lessicali dei recenti legislatori – della necessaria interpretazione astratta della legge scritta. D’altro lato è complicata, e forse perfino resa più affascinante, da due essenziali fattori: la interpretazione della norma scritta implica ovviamente già di per sé un confronto tra fatti e però non omogenei bensì uno astrattamente descritto e l’altro accertato in concreto ed in thesi riconducibile al primo; il precedente di civil law è precedente interpretativo ed in esso dunque si incorpora già anche quel confronto tra fatto astratto e fatto concreto, diverso quest’ultimo da quello accertato nel giudizio in cui si pone il problema della eventuale utilizzazione del precedente. Il distinguishing è dunque triangolare. Se il precedente esprime, in punto di interpretazione della norma, che A= X → B, ove A è il fatto astrattamente contemplato dalla norma scritta, B è l’effetto giuridico previsto dalla norma per come anche sul punto decifrata nel suo significato, e X è il fatto concreto accertato nel giudizio in cui il precedente si è formato, lo sforzo che si tenterà con il distinguishing, allo scopo di impedire nel nuovo giudizio l’applicazione dell’effetto B, sarà quello di dimostrare che X1, e cioè il fatto concreto accertato in tale nuovo giudizio, è così sensibilmente diverso da X da non poter essere ragguagliato ad A (e non semplicemente che X ed X1, e cioè i due fatti concreti, sono sensibilmente diversi).

E ad un livello di ancor maggiore sofisticazione vi sarà da riflettere su quanto il fatto concreto accertato nel giudizio in cui il precedente si è formato abbia allora influito sulla interpretazione della disposizione scritta che in quel precedente si incorpora, vuoi quanto alla specificazione del significato da attribuire alla descrizione normativa del fatto astratto, vuoi perfino quanto alla specificazione del significato da attribuire alla previsione normativa dell’effetto; di guisa che il distinguishing e cioè il maggiore o minore apprezzamento della diversità tra fatti concreti, quello di allora e quello di ora, potrà influire non solo sulla identificazione del precedente come effettivamente in termini, bensì, in non infrequenti ma neppur rari casi, sulla stessa condivisibilità o necessità di superamento o adeguamento del precedente[28].

Nota bibliografica

Questo scritto nasce dall’affetto e dal ricordo. Esso riproduce intenzionalmente, ad oltre quattro decenni di distanza, il tono colloquiale e riprende perfino alcuni argomenti specifici degli incontri con Angelo Falzea mentre preparavo sotto la Sua guida la mia tesi di laurea, e poi di quelli più fugaci ma per me altrettanto fondamentali che Egli mi concedeva negli anni immediatamente successivi, nelle occasioni dei miei ritorni a Messina mentre diventavo sempre più romano e sempre più processualcivilista (la prima cosa gli piaceva molto, la seconda un po’ meno).

È per ciò che un apparato bibliografico che avrebbe dovuto essere pressoché sterminato, ed i conseguenti ulteriori approfondimenti critici, sono omessi e sostituiti dallo scarno elenco di letture indicative che qui segue: elenco del tutto personale, e selezionato solo fra gli scritti della nostra letteratura successivi alla data del saggio di Falzea.

Quanto al ricordo ed all’affetto, essi non sono solo quelli miei per Lui (a quattordici anni dall’ultima volta che abbiamo parlato di diritto, nel giardino della sua villa di Mortelle, Falzea novantacinquenne più lucido che mai, ed io che – di fronte alla Sua voglia di discutere, a ricorso per cassazione non ancora pronto, di come avremmo impostato….il futuro giudizio di rinvio – cominciavo a pensare seriamente che non solo si sentisse, ma fosse eterno).

Ricordo ed affetto sono anche quelli che hanno legato un gruppo di ragazzini di un medesimo corso di laurea (alcuni dei quali promotori o partecipi di questo volume). Tutti uniti da ciò che Angelo Falzea sapeva suscitare nei giovani quando, sotto l’apparente distacco della sua allure, sceglieva di dialogare intensamente con loro: passione, competizione, spirito critico, e soprattutto la inebriante sensazione che lo studio del diritto fosse esercizio di inventiva e ardimento; l’esatto opposto del “Holzmehl das schon von tausenden Mäulern vorgekaut war” (F. Kafka, Brief an den Vater), la “segatura rimasticata da mille bocche”, che gli studenti di giurisprudenza di ogni tempo, a prescindere dal loro maggiore o minore successo di poi, sperimentano e soffrono, salvo che non abbiano la fortuna di incontrare Angelo Falzea o i pochi come Lui.

* * *

AA.VV., La consuetudine giuridica, in Teoria e problemi del diritto (a cura di S. Zorzetto), Pisa, 2008; D. BIFULCO, Il giudice è soggetto soltanto al diritto. Contributo allo studio dell’articolo 101, comma 2, della Costituzione italiana, Napoli, 2008; D. CANANZI, Enrico Paresce e l’attuazione spontanea del diritto, in Le radici del pensiero sociologico, Atti del Convegno nazionale della Sezione di Sociologia del diritto dell’Associazione Italiana di Sociologia, a cura di A. Febbrajo, Milano, 2013; B. CAPPONI, La legge processuale civile, Torino, 2009; A. CARRATTA, Il giudice e l’interpretazione della norma processuale, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2020 p. 101 ss.; P. CHIASSONI, Il precedente giudiziale: tre esercizi di disincanto, in P. Comanducci – R. Guastini, Analisi del diritto, 2004. Ricerche di giurisprudenza analitica, Torino, 2004; P. COMANDUCCI, Interpretazione e applicazione del diritto, Palermo, 2011; G. COSTANTINO, Riflessioni sulla giustizia civile, Torino, 2011 [sulle prassi processuali – Ndr.]; G. D’AMICO, Clausole generali e ragionevolezza, in La Corte costituzionale nella costruzione dell’ordinamento attuale. Principi fondamentali (Atti del 2° Convegno nazionale della Società italiana degli studiosi del diritto civile, Capri, 18-20 aprile 2006); F.M. DAMOSSO, Il vincolo al precedente tra sentenza di legittimità e massimazione, Torino, 2022; E. FABIANI, Clausole generali e sindacato della Cassazione, Torino, 2003; P. GROSSI, Introduzione alla ristampa di N. Bobbio, La consuetudine come fatto normativo, Torino, 2010; P. GROSSI, Ritorno al diritto, Bari, 2015; P. GROSSI, L’invenzione del diritto, Bari, 2017; P. GROSSI, Il diritto civile in Italia fra moderno e postmoderno dal monismo legalistico al pluralismo giuridico,  Milano, 2021; D. GUASTINI, Interpretare e argomentare, Milano, 2011; N. IRTI, Diritto senza verità, Bari, 2011; N. IRTI, Un diritto incalcolabile, in Riv. dir. civ., 2015, l, p. 19 ss.; N. IRTI, Viaggio tra gli obbedienti (quasi un diario, Milano, 2021; M. LUCIANI, La decisione giudiziaria robotica, in Nuovo Diritto civile, 2018, I p. 1 ss.; F.P. LUISO, La norma processuale e i suoi destinatari, in Riv. trim. proc. civ. 2017, p. 897 ss.; M. MARINELLI, voce Precedente giudiziario, in Enc. dir., Milano, 2002, VI, p. 881 ss.; A. PANZAROLA, Il processo civile tra regole e principi, in Principi, clausole generali, argomentazione e fonti del diritto, a cura di F. Ricci, Milano, 2018, p. 257 ss.; L. PASSANANTE, Il precedente impossibile. Contributo allo studio del diritto giurisprudenziale nel processo civile, Torino, 2017; S. PATTI, Ragionevolezza e clausole generali, Milano, 2016; L. PERA, Il puzzle della desuetudine, in Sociologia del diritto, 2014, p. 47-73; N. PICARDI, La giurisdizione all’alba del terzo millennio, Milano, 2007, passim nonchè spec. 122 ss. [sul contrasto ai poteri dei Parlements dell’ancien régime]; A. PIN, Precedente e mutamento giurisprudenziale. La tradizione angloamericana e il diritto sovranazionale europeo, Padova, 2017; A. PIZZORUSSO, Delle fonti del diritto, Bologna, 2011, p. 728; B. SASSANI, La deriva della Cassazione e il silenzio dei chierici, in Riv. dir. proc., 2019, p. 43 ss.; E. SCODITTI, Concretizzare ideali di norma, in Giustizia Civile.com, 4-2015; G. SORRENTI, Il giudice soggetto alla legge … in assenza di legge: lacune e meccanismi integrativi, Napoli, 2020; M. TARUFFO, Precedente e giurisprudenza, Napoli, 2007; G. TRACUZZI. Esistenza e possibilità. Contributo allo studio della completezza dell’ordinamento giuridico, Padova, 2020; V. VELLUZZI, Le clausole generali. Semantica e politica del diritto, Milano 2010; L. VERZELLONI, Analisi organizzativa degli osservatori e dei protocolli d’udienza: una lettura comparata del fenomeno, in Quaderni di giustizia e organizzazione, Bologna 2008, p. 45 ss.; A. VILLA, Overruling processuale e tutela delle parti, Torino 2018.

* Questo saggio, ultimato nel novembre 2022, è apparso nel volume Angelo Falzea (I Maestri italiani del diritto civile), a cura di G. D’Amico e A. Gorassini, ESI, Napoli, 2023.

[1] In Ricerche di teoria generale e di dogmatica giuridica, I, Milano, 1997, primo di due volumi che ora raccolgono tutti i principali saggi teorici di Falzea.

[2] Sono ancora parole di FALZEA, La prassi cit., 432

[3] Qualche anno or sono Massimo CONFORTINI assunse l’arduo compito di curare un amplissimo e singolare commentario a più voci intitolato “Clausole negoziali” (I e II, Torino, 2017-19). Anche al di là del successo dell’opera dovuto alla pregevolezza di molti dei singoli contributi (non quelli del sottoscritto perché essi erano davvero marginali e limitati ad alcune delle poche invenzioni che il legislatore del processo affida alla autonomia privata), il progetto di fondo mi è parso particolarmente opportuno proprio nel senso sottolineato nel testo. Altri esempi vi sono e spero vi saranno (naturalmente trascurando i tradizionali formulari ed altri ritrovati editoriali anche innovativi ma fin troppo practice oriented e dunque tutt’altro che esplicativi). Personalmente vagheggio di curare prima o poi un “commentario di convenzioni arbitrali” e non mi decido a farlo perché non ho la pazienza di Massimo nell’inseguire i ritardatari.

[4] Per incidens: sull’altro versante, e cioè quello precedentemente considerato, è ben difficile prima che trascorra un notevole lasso temporale che la reiterata non utilizzazione di una facoltà possa ragionevolmente considerarsi come inattuazione della norma che la concede.

[5] La formale esclusione della consuetudine abrogativa e cioè della abrogazione per desuetudine (nonostante i dibattiti possibilisti che si animarono, anche grazie al retaggio di non chiarissime fonti romanistiche, allorché si trattò di varare le Preleggi) non vale ovviamente in senso contrario all’assunto secondo cui una norma posta è davvero effettiva e positiva solo se attuata, perché lo stesso art. 15 delle Preleggi, e la necessità della abrogazione espressa e delle altre ipotesi equivalenti in esso previste, si pongono a loro volta sul mero piano della “posizione” formale del diritto e non su quello della sua positività. Viceversa sul piano della realtà, o come si usa dire de facto, sarà pur sempre possibile ed utile constatare la radicale assenza di positività di una norma o disposizione (qui la nota differenza conta poco) che gli omnes sistematicamente disattendono nella sistematica e totale indifferenza di giudici (esempi in materia processuale infra § 3).

[6] Nei raffinati svolgimenti della teoria della efficacia preclusiva falzeiana si legge più volte fra le righe un elementare postulato di buon senso ed anche e per così dire etico: sia la transazione che il giudicato precludono, o meglio rendono indifferente lo sguardo all’indietro e cioè il confronto fra l’ipotetica e non più giuridicamente accertabile situazione giuridico-fattuale pregressa e quella cristallizzata dall’una o dall’altro. Sennonché per la transazione deve considerarsi idealmente normale che l’operare delle reciproche concessioni (pur trattandosi di reciproche concessioni sulle pretese) conduca a situazione diversa da quella retrostante; per il giudicato deve considerarsi idealmente normale il contrario. Insomma: la stipula di una transazione (evento di attuazione spontanea che si colloca schiettamente sul versante della autonomia privata e perciò della “facoltà” che ho prima esaminato) non è né giusta né sbagliata, bensì solo voluta a superamento o prevenzione della controversia, ed è in ciò l’ubi consistam della sua efficacia preclusiva; il giudicato in quanto soluzione (non semplice superamento né tanto meno prevenzione) della lite è per definizione giusto fra le parti e limitatamente al suo oggetto, ed è in ciò l’ubi consistam della sua efficacia preclusiva. Su questo ben diverso ubi consistam, e pur senza la vincolatività di cui all’art. 2909 c.c., si innestano la vita e la rilevanza del giudicato e della sentenza in generale pro futuro ed erga omnes e cioè se riguardati quali precedenti. Ragionando diversamente dovremmo del tutto paradossalmente attribuire ad una serie di transazioni in ipotesi tracciabili e ricostruibili nel loro contenuto, ad esempio e di nuovo quelle stipulate fra locatori e conduttori a seguito degli sconvolgimenti da covid, portata non già di mera attuazione spontanea degli artt. 1965 ss. c.c., bensì illuminante portata attuativa ed esplicativa delle disposizioni sul Contratto di locazione o se del caso di quelle sul contratto in generale.

[7] La sottile distinzione fra i due concetti correlati può essere qui convenientemente trascurata.

[8] La motivazione più chiara in tal senso pare sempre quella di Cass. 21 novembre 2000, n. 15004; così come in dottrina la posizione più limpida e semplice nel medesimo senso mi pare quella di Gianni D’Amico nello scritto che sarà richiamato nella appendice bibliografica.

[9] Gli standards valutativi e la loro applicazione, ora anch’esso in Ricerche di teoria generale e di dogmatica giuridica, I, Milano, 1999.

[10] Essendo per altro la individuazione di cosa sia e cosa non sia “clausola generale”, a mio sommesso avviso, molto più sfumata e complessa di quanto di solito non ritengano gli studiosi delle clausole generali.

[11] E se invece controversia sul punto vi è stata perché il convenuto ha sollevato l’eccezione, l’attore ha contro-argomentato a riguardo, ed il giudice non si è espressamente affaccendato in proposito in motivazione ed ha comunque implicitamente affermato la giurisdizione nel decidere il merito, potrà nei congrui casi discorrersi di motivazione implicita adesiva alla prospettazione dell’attore ed allora sì di attuazione giudiziale delle norme processuali sulla giurisdizione (sebbene la valenza e la persuasività di un simile “precedente occulto” siano di molto ridotte). Ma in fin dei conti i macroconcetti contano, nella prospettiva in cui ci poniamo, ben più delle sottili distinzione. E la distinzione (o il macroconcetto) che qui vorrei sottolineare è appunto quella fra il piano (proprio della indagine processualicivilistica) degli effetti della decisione (sul quale piano identici possono ben essere, e tendenzialmente sono, gli effetti della decisione affermativa della giurisdizione vuoi che essa sia esplicita vuoi che essa sia implicita), ed il piano della teoria generale sul quale o si dice che l’attuazione della norma processuale è sempre giudiziale tutte le volte che essa passi per una decisione qualsivoglia del giudice (affermazione che euristicamente mi pare equivalga a quella secondo cui appena il sole declina tutti i gatti sono grigi) oppure si riguadagna un congruo spazio alla attuazione spontanea della norma processuale ad opera del giudice a prescindere dagli effetti processuali delle sue decisioni.

[12] Rara ma non certo impossibile. Per riferirci ai nostri ultimissimi giorni è ipotizzabile (e la cosa comincia a preoccupare gli interessati e possibili monitorati) che Ministero competente e se del caso CSM monitorino statisticamente l’attuazione o inattuazione giudiziale dell’ultima ennesima riforma del rito civile (dlgs. 10 ottobre 2022, n. 149), con riguardo ad esempio al rispetto dei termini – ordinatori, o canzonatori come voleva Redenti siccome imposti al giudice, ma in realtà sicuramente formali ed intesi alla chimerica valenza efficientista di tale riforma – previsti dal nuovo art. 171 bis c.p.c. (termine di 15 gg. per l’emanazione dell’eventuale provvedimento a seguito delle “verifiche preliminari” sulla regolarità del contraddittorio ecc.) e 183, c. IV (termine di 90 gg. per la fissazione dell’udienza di assunzione della prova); così come del resto è stato sicuramente possibile monitorare fino ad ora il rispetto dei – la misura dello sforamento dai – termini per il deposito della sentenza.

[13] Questo rilievo ben si attaglia ai casi in cui il giudice rimedia mediante attuazione giudiziale alla inattuazione (o scorretta attuazione) spontanea della parte: ad esempio allorché il giudice rileva un difetto di rappresentanza o autorizzazione e provvede a norma dell’art. 182 c.p.c.. Ma esso consente un ulteriore utile svolgimento se si pone mente non più alla interrelazione sostitutiva fra attuazione spontanea e attuazione giudiziale della norma processuale, bensì alla interrelazione sostitutiva e correttiva della attuazione giudiziale attraverso i gradi di impugnazione.

Accade qui, e nel contesto teorico che ora ci occupa, che la differenza fra norma sostanziale e norma processuale svapora (e svapora dunque e per forza di cosa l’utilità – in altri contesti teorico-pratici sensibile – di attribuire nei casi dubbi connotati sostanziali o processuali alla norma): la funzione sostitutiva-correttiva della successiva attuazione giudiziale, rispetto alla precedente, si avrà sempre “nella immediatezza” del processo di impugnazione ma solo a patto che un processo di impugnazione sia avviato nei termini ad istanza di parte; né più e né meno di come di fronte alla crisi di inattuazione spontanea di un contratto privato, e delle norme sostanziali che lo reggono, la funzione sostitutiva della attuazione giudiziale potrà aversi solo se il processo, retto dal principio dispositivo sostanziale, comincia.

[14] Vedi per altro quanto si è ricordato retro alla nota 5 e nel testo al corrispondente richiamo.

[15] Più significativa è stata la progressiva e quasi altrettanto radicale inattuazione del relativamente nuovo art. 81 bis c.p.c., il quale, prevedendo con velleitario linguaggio burocratico l’inutile (almeno quale atto autonomo e distinto rispetto ad una qualsiasi ordinanza che ad esempio cadenzi in più udienze l’audizione di numerosi testimoni) “calendario del processo”, meritava esattamente la sorte che la prassi gli ha riservato.

[16] V. retro al § 1.1.

[17] Il dibattito nostrano sull’overruling in materia processuale ha preso avvio, o se si vuole ha ripreso vigore, a partire da un noto e davvero inatteso overruling di fine estate delle Sezioni Unite (9 settembre 2009, n. 19246) sul termine di costituzione dell’opponente a decreto ingiuntivo: la regola casuale nuova, proposta e data la provenienza de facto imposta, non era più errata o più corretta della precedente e consolidata in punto di interpretazione astratta della norma processuale, visto che di quello e solo di quello si trattava, ma la sorpresa fu subito percepita come un male in sé, visto oltretutto che per la materia di uso comune coinvolta ne andava di mezzo il sonno sereno e forse la salute cardiaca di migliaia di avvocati sul territorio nazionale. Un ultimo icastico richiamo alla pericolosità dell’overruling in materia processuale, di seguito al dibattito nel frattempo intervenuto anche riguardo alle prospettive rimediali (cfr. in proposito già la saggia Cass. 2 luglio 2009, n. 15812) visto che il divieto assoluto è ovviamente impraticabile, è ora in Cass. Sez. Un. 12 ottobre 2022, n. 29862, la quale reagisce prontamente ad una immediatamente precedente impennata di ingegno di una sezione semplice che aveva detto per la prima volta, e per altro in obiter, inammissibile la domanda di condanna generica e cioè uno degli strumenti più consueti e pacificamente utilizzabili del vivere quotidiano nelle nostre aule giudiziarie.

[18] Per altro, proprio sul piano della utilizzazione degli standards valutativi presuntivamente riconducibili alla voluntas legis, il processo, più ancora che il diritto sostanziale e per le ragioni di certezza sopra cennate, va protetto accuratamente dagli eccessi: un esempio madornale di eccesso è l’attuale abuso della nozione di “abuso del processo”.

[19] Oltretutto in ragione della difficoltà, per chi studia le attuali o passate società primitive, di distinguere i precetti morali preposti (anche per tradizionale orale) dai precetti giuridici (o da quelli che noi oggi e da secoli chiamiamo precetti giuridici).

[20]In realtà, almeno quanto al processo amministrativo, la zona grigia fra semplice prassi e giurisprudenza reiterata o prassi interpretativa è stata per lungo tempo originata dalla situazione opposta, e cioè dal fatto che si è trattato di un processo senza codice, in minima parte arricchito, ma prevalentemente sulla carta, da una nota sentenza additiva della consulta, e lasciato ad elaborazione giurisprudenziale ipercreativa (muovente da principî generici, disposizioni sparse, disposizioni processualcivilistiche liberamente trapiantate), ma anche ad una consuetudine forense non espressamente recepita dalle motivazioni giudiziali e però assai invasiva e favorita dalla ben maggiore omogeneità e selezione dei suoi attori.

[21] Distinzione questa che sempre più pare sfuggire al nostro legislatore processuale inutilmente didattico, e che è invece evidente non meno di quella fra le regole del tennis e le regole (oltretutto difficilmente formalizzabili) la cui osservanza rende Federer molto più bravo di milioni di altri, che pur conoscono ed osservano le regole del tennis non diversamente da Federer.

[22] Quando lo si possa affermare, il che non sempre pienamente accade al di fuori dell’ordinamento inglese.

[23] Riconoscendo che “too rigid adherence to precedent may lead to injustice in a particular case and also undutly restrict the proper development of the law”.

[24] La realtà della attuazione spontanea in un sistema di diritto non scritto e giurisprudenziale si prospetta intuitivamente più distante ed ancor più problematica da decifrare che in un sistema di diritto scritto, ed andrebbe appositamente indagata anche ed anzitutto sul piano sociologico a partire da ragguagli, ove possibile, sul grado di consapevolezza diffusa in ordine alle elaborazioni giurisprudenziali. Ancor qui, nell’era della nostra decodificazione, la cennata intuitiva distanza si attenua a misura che si consideri definitivamente declinata l’utopia, propria dell’era delle grandi codificazioni, della legge scritta compendiata ed agevolmente conoscibile dagli omnes, e si accresca invece vertiginosamente il corpus magmatico di atti normativi speciali difficilmente conoscibili perfino dai tecnici del diritto ed ancor più difficilmente riconducibili a sistema. E d’altro canto non manca certo nella cultura giuridica inglese la fiducia nelle capacità orientative di un sistema di diritto giurisprudenziale rispetto alle prassi ed alle condotte dei consociati; emblematico in proposito è il seguente icastico passaggio di quel Practice Statement del 1966 che ho già avuto occasione di ricordare: «It» – e cioè «the use of precedent» – «provides at least some degree of certainty upon which individuals can rely in the conduct of their affairs».

[25] La sovrapposizione degli ordinamenti sovranazionali, eurounitario e CEDU, ha messo, come è ben noto, parzialmente in crisi – meno per la verità di quanto normalmente si pensi – la solidità del giudicato (il quale è per altro, già per tradizione riconnessa all’esistenza dei mezzi impugnatori straordinari, solidità pur sempre relativa). Altro spunto che Angelo Falzea offre allo studioso di oggi ed in particolare allo studioso del processo civile sarebbe quello di verificare se la fortunata teoria della efficacia preclusiva (cfr. la riedizione della nota voce enciclopedica in FALZEA, Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica, cit., I, 57 ss., 150 ss.), pur concepita in epoca di più sicura stabilità della cosa giudicata, non possa risultare – con il suo relativistico ed equidistante prescindere dall’accertamento delle pregressa situazione sostanziale o dalla incidenza costitutiva su di essa, e con il suo saggiamente minimalistico ragguagliare il giudicato alla transazione ed alla prescrizione – euristicamente feconda anche rispetto alla nuova realtà della cd. crisi del giudicato.

[26]Salvo a considerare gli accorgimenti equi e tuzioristici cui si fa breve cenno, quanto all’overruling, nel § 4.1.

[27] La tendenza alla generalizzazione della nostra giurisprudenza si percepisce anche sotto altro e più complesso profilo, che è quello della sua vocazione sistematica. Qui giocano certo fattori puramente culturali quali la più forte interazione fra attività giurisdizionale, specie al livello di Cassazione, ed elaborazioni dottrinali, l’intrinseco gusto teorico dei nostri giuristi e la intrinseca minore attitudine empirica ecc. Ma vi gioca anche e soprattutto la stessa presenza di un sistema complesso e idealmente conchiuso di norme scritte. Sicché è alla ulteriore chiarezza e razionalità del sistema e delle parole e concetti normativi che lo compongono, anche in vista della soluzione di casi del tutto diversi e per nulla omologabili a quello di specie, piuttosto che solo alla più agevole soluzione di casi analoghi altrimenti esposti al dubbio, che il precedente giurisprudenziale, specie se autorevole, dovrebbe giovare. Questo tipo di approccio, e non certo solo il gusto per la teorizzazione, si riscontra moltissime volte e da ultimo ad esempio nella recente ordinanza della Sezione Terza della Cassazione n. 1162 del 17 gennaio 2022. La quale rimette alle Sezioni Unite, in materia di danno da occupazione abusiva di immobile, la nota alternativa fra (prova del) danno in re ipsa pur superabile da prova, se del caso presuntiva, contraria, e necessità invece di provare integralmente il danno-conseguenza e tuttavia anche mediante presunzioni semplici. E lo fa ammettendo che gli opposti percorsi sistematici adottati dalla oscillante giurisprudenza “non giungono nei fatti ad esiti giudiziali così diversi”, e tuttavia sottolineando che vi sono “differenti letture in ordine al principio da applicare” e che dunque una simile incertezza sistematica coinvolgente l’assetto complessivo della responsabilità civile è idonea a disorientare gli interpreti. Insomma – e scusandomi per la forse eccessiva semplificazione – una rimessione nomofilattica non per evitare decisioni sostanzialmente diverse di casi analoghi, ma per evitare il disorientamento sistematico di fronte alle parole pur apparentemente semplici e chiare del legislatore degli artt. 1223 e 2056 c.c. ed ai lemmi equivoci sovrapposti ad esse in decenni di elaborazione giurisprudenziale (danno-evento, danno-conseguenza, danno in re ipsa, prova in re ipsa, risarcimento figurativo ecc.). Sintomaticamente anche la dottissima risposta delle Sezioni Unite (n. 33645 del 15 novembre 2022) risulta molto più utile (e molto più impegnata) nella ricostruzione del sistema e nella (diplomatica) mediazione fra opposte teorie di quanto non sia in vista delle soluzioni di futuri casi concreti.

Non sarebbe agevole immaginare oltre Manica, pur mutatis mutandis, qualcosa di simile a questa vocazione giurisprudenziale ricostruttiva e chiarificatrice del sistema. Insomma: che il sistema sia integrato anzitutto da norme pre-poste dal legislatore ovvero solo da precedenti comporta notevole differenza anche negli obiettivi della prassi giudiziaria.

[28] L’utile articolo 2049 c.c. soccorre ancora mercé un esempio in buona parte di pura fantasia. La Cassazione, ribadendo in punto di interpretazione astratta che “nell’esercizio delle mansioni” (parole imperiture uscite dalla penna del legislatore) significa anche “in occasione di quell’esercizio”, conferma la responsabilità del condominio per i danni che il portiere, scrupoloso esecutore delle sue mansioni di sorveglianza quanto impulsivo, ha causato spintonando e facendo ruzzolare dalle scale il petulante ragazzotto introdottosi di soppiatto a distribuire volantini sotto le porte dei condomini. Questo precedente è invocato in un secondo caso nel quale il portiere assesta sempre un incauto spintone ed il terzo ruzzola dalle scale; sennonché il terzo è un condomino, tutt’altro che introdottosi di soppiatto, e però ravvisato dal portiere come colui che da un po’ di tempo formula importune avanches alla moglie (del portiere), donde un alterco fra i due e l’incauto spintone. Risponde ancor qui il condominio? Quanto sono sensibilmente diversi i due fatti concreti? Fino al punto che il secondo non è riconducibile al “in occasione dell’esercizio delle mansioni” (fatto astratto) al quale invece è sicuramente riconducibile il primo? Oppure può dirsi che se il portiere non fosse stato tale e non fosse stato impegnato a salire e scendere per le scale l’episodio non sarebbe occorso, e dunque il nesso di “occasionalità” e perfino “necessaria” è sufficientemente riscontrabile?  E se così davvero fosse – ecco la norma scritta che aleggia e non può che aleggiare (in luogo del puro senso di giustizia del giudice in un sistema di diritto non scritto), ecco la identificazione assiologia della sua ratio perdurante ed immutevole per quanto aperta essa sia ai mutevoli fatti – se così davvero fosse, non sarà che l’interpretazione della norma scritta che si incorpora nel precedente e cioè nella massima giurisprudenziale ormai tralatizia va ripensata, corretta, integrata ? non sarà che quel semplice “nesso di occasionalità” o se si vuole “occasionalità necessaria” (espressione che non è del legislatore) deve essere ulteriormente specificato a livello lessicale e di massima, per evitare esiti iniqui e contrari alle scelte di valore sottostanti all’art. 2049 per come collocato nel sistema della responsabilità civile ?