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Annotazioni sullo scopo dell’atto processuale e la sua essenza: tra insegnamenti tramandati e nuove pressanti esigenze
Sommario: 1. Premessa; 2. I requisiti tecnici quali forme legali; 3. Dalla relazione Pisanelli sul codice di rito del 1865 al vigente art. 156 c.p.c.: un rapido sorvolo; 4. La nozione di scopo dell’atto processuale; 5. Esiste uno scopo telematico dell’atto e del processo?; 6. Conclusioni.
Di Alessio Luca Bonafine -
1.Premessa
Il progetto per la ristrutturazione digitale del processo civile ha riacceso fortemente il dibattito sullo scopo dell’atto del processo, in particolare ponendo il tema, a monte, delle conseguenze della violazione della disciplina di settore e, a valle, della applicabilità della regola della sanatoria oggettiva prevista dall’art. 156, comma 3, c.p.c.([1])
Ciò, in particolare, a fronte dell’idea che l’atto difforme dal modello digitale delineato attraverso le disposizioni tecniche sia ontologicamente incompatibile con il fine perseguito in quanto l’effettiva implementazione del processo informatico richiederebbe una rilettura delle dinamiche più tradizionali del processo e, quindi, una generale (e se necessario, imposta) adesione a standard tecnici in assenza dei quali la previsione normativa finirebbe per scontare il dato della disapplicazione di fatto.
L’individuazione della strada interpretativa più corretta necessita all’evidenza della ricostruzione del concetto di scopo e della definizione del suo impatto sul giudizio di equipollenza tra forme.
2.I requisiti tecnici quali forme legali
Lo sviluppo logico delle premesse date non può prescindere da una considerazione di base, strettamente legata al concetto di forma e utile alla verifica della possibilità di inquadrare quelli tecnici fissati dalle disposizioni dedicate al processo telematico tra i requisiti formali dell’atto del processo. D’altronde, l’art. 156 c.p.c. costituisce, come noto, norma centrale proprio nella definizione del regime delle nullità per vizi formali([2]).
E’ forma in senso stretto quell’insieme di elementi richiesti per l’esistenza e l’efficacia dell’atto([3]) e generalmente individuati nelle condizioni di luogo, di tempo e di espressione cui le attività delle parti e degli organi giurisdizionali devono sottostare([4]).
In senso più ampio, invece, sono considerate forme “le stesse attività necessarie al processo, in quanto che, essendo esse coordinate all’attuazione di un diritto sostanziale, hanno carattere di forma rispetto alla sostanza”([5]).
Si tratta di requisiti formali tendenzialmente vincolati, perché fissati direttamente dalla legge a garanzia delle parti di una reciproca posizione di uguaglianza e della regolarità del contraddittorio, ma anche di un migliore e più ordinato andamento dei processi([6]).
La norma processuale in questo senso disciplina la forma della maggior parte degli atti del giudizio fissandone il contenuto([7]), in ciò permettendo anche di superare – salve ipotesi eccezionali([8]) – il momento di controllo sul processo di formazione della volontà, in effetti assorbito nel rispetto del requisito formale([9]).
Come già autorevolmente osservato, infatti, “Se il regolamento giuridico minimo di un atto è il suo regolamento formale, a sua volta il regolamento formale minimo è il regolamento del contenuto”([10]).
La regola della libertà della forma ex art. 121 c.p.c., quindi, riveste un ruolo sussidiario, che apre all’uso di quella “più idonea al raggiungimento dello scopo” in via solo eccezionale in ragione della atipicità meramente teorica degli atti processuali([11]). E ciò non quale esercizio di sterile formalismo, ma come occasione di efficientamento del sistema utile ad evitare “il disordine, la confusione, l’incertezza”([12]).
La libertà delle forme (o di modo)([13]), in ogni caso, postula la libertà di contenuto ma non trascina con sé la libertà dallo scopo, atteso che la forma – anche quando rimessa all’agente – resta strumento per la realizzazione dello scopo processuale([14]), in ciò ponendosi in linea anche con l’insegnamento che ritiene che “al principio per cui le disposizioni processuali non sono fini a se stesse, ma funzionali alla miglior qualità della decisione di merito, si ispira pressoché costantemente il vigente codice di procedura civile”([15]).
Per queste vie, la forma cessa di essere mero aspetto dell’atto processuale per diventarne momento di conformazione al modello legale. Essa è in conclusione “il modo di essere dell’atto”([16]), sicché tutti gli elementi rilevanti per la sua formazione ed estrinsecazione sono da qualificarsi, al pari delle norme di relativa previsione, come formali([17]), anche quando non intrinseci all’atto e piuttosto incidenti sull’ordine del processo e sull’esercitabilità dei poteri dei soggetti processuali([18]).
Quanto rapidamente evidenziato può conservarsi anche con riferimento alla disciplina del processo telematico e delle nuove forme digitali dalla medesima introdotte, per le quali si è infatti parlato anche di nuova “estetica se non addirittura di design […] degli atti processuali”([19]) incidente finanche sui rapporti tra oralità e scrittura([20]).
Anche le disposizioni di settore dedicate alla giustizia digitale sono quindi norme di carattere formale utili ad introdurre requisiti incidenti sulla definizione della forma([21]), in ciò implementando il progetto della declinazione in ottica telematica delle logiche e delle dinamiche procedimentali tradizionali avviato, ormai da tempo e con particolare capacità invasiva, dal legislatore([22]).
Ciò che peraltro permette di escludere rispetto alle medesime la pertinenza del richiamo proprio all’art. 121 c.p.c. La previsione legale delle forme digitali, peraltro attraverso norme molto spesso di rango secondario-regolamentare, infatti, reca con sé una tipizzazione formale degli atti immaginati in vista del processo telematico che non consente di spendere rinvio al principio della libertà (perché esso presuppone proprio la mancanza della previsione legale), imponendo piuttosto – per l’ipotesi di loro violazione – l’indagine sul perseguimento dello scopo([23]).
E’ l’applicabilità dell’art. 156 c.p.c. che va pertanto ricostruita, sulla base però di una duplice preliminare osservazione. Innanzitutto, quella per cui non è al dettato del suo comma 1 che deve guardarsi. Da un lato, infatti, rileva l’argomento della natura secondaria di molte delle prescrizioni di settore rilevanti ai fini della configurabilità di vizi ricostruiti come formali e che non sembrerebbe potersi superare ritenendo le stesse elevate a rango primario dal d.l. 29 dicembre 2009, n. 193 (che aveva affidato incarico per la predisposizione delle regole tecniche poi adottate con il d.m. 21 febbraio 2011, n. 44)([24]) ovvero dalle disposizioni del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179 e al suo richiamo al rispetto della normativa “anche regolamentare” (art. 16-bis), atteso che la genericità del rinvio non sarebbe sufficiente a trasformare standard tecnici in requisiti incidenti sulla validità degli atti del processo([25]); dall’altro, la considerazione per cui nemmeno la normativa primaria dettata dal d.l. n. 179/2012 prevede espressamente la sanzione della nullità per gli atti formati in violazione delle regole di settore.
L’invalidità, in questi casi, dovrebbe pertanto più ragionevolmente conseguire ad un giudizio di indispensabilità del requisito formale ai sensi dell’art. 156, comma 2, c.p.c., fermo in ogni caso l’accertamento sul raggiungimento dello scopo.
3.Dalla relazione Pisanelli sul codice di rito del 1865 al vigente art. 156 c.p.c.: un rapido sorvolo
Pure al momento della stesura del codice di procedura civile del Regno d’Italia del 1865 il tema della gradazione dell’invalidità conseguente a vizi di forma aveva impegnato il dibattito dottrinale, in particolare sottoponendo quella che, già nella relazione del Guardasigilli Pisanelli, veniva indicata come una “quistione di sistema”, e riassunta nel significativo quesito per cui “Tutte le formalità stabilite dalla legge per gli atti di procedura devono essere garantite colla minaccia della nullità dell’atto in caso che non fossero scrupolosamente adempite?”([26]).
Rifiutata l’idea che alla inosservanza di qualunque precetto dovesse conseguire un giudizio di invalidità dell’atto([27]), in quanto ritenuta occasionata da un “rigore ingiusto perché soverchio”, nemmeno fu considerata soddisfacente l’apertura ad una regola di presunzione di “malafede” che avrebbe finito per far gravare sulla parte interessata alla conservazione dell’atto l’obbligo di fornire prova idonea a superare la “suspicione legittima”([28]).
Il progetto, piuttosto, accolse la soluzione, già maturata con riferimento al sistema delle nullità delineato dall’art. 1030 del codice napoleonico del 1806([29]), offerta dalla distinzione – propria del diritto comune – tra elementi essenziali e meramente accidentali dell’atto, lasciando che la nullità affiorasse solo dal difetto dei primi, anche in assenza di previsione legale, e non anche dalla mancanza dei secondi, salva espressa e differente dichiarazione di legge.
In questo senso va infatti inteso il dettato dell’art. 56, comma 2, c.p.c. 1865, il quale – fermo il principio della tipicità della sanzione espresso dal comma 1 – stabiliva che “possono tuttavia annullarsi gli atti che manchino degli elementi che ne costituiscono l’essenza”.
Si delineava già per queste vie un sistema di facoltizzazione del giudice, chiamato a valutare non solo l’esistenza del vizio e la sua riferibilità alla sostanza dell’atto, ma pure le conseguenze riconducibili al suddetto in termini di finalità perseguita, finendo per richiedere a questi – secondo l’interpretazione più lungimirante – di escludere la invalidità quando “si convinca che la difesa della parte postulante per la nullità non fu in alcun modo diminuita e che altro danno non fu prodotto”([30]).
In altri termini, dalle argomentazioni del Pisanelli si ricava la convinzione che l’essenza di un atto processuale va colta alla luce della sua natura e della sua destinazione, sicché solo quando manchino gli elementi indispensabili, ovvero le condizioni e i mezzi, perché non degradi in un atto diverso e inidoneo a realizzare l’obiettivo per il quale era stato previsto e posto in essere, esso può considerarsi carente di una forma essenziale (tale in quanto utile a strutturarne l’essenza) e per l’effetto nullo.
Di converso, l’assenza delle forme accidentali, che per non incidere sulla essenza dell’atto rilevano in termini di mera utilità rispetto al fine (“[…] sono opportune per circondarlo di maggiori sicurezze”), può giustificare un giudizio di invalidità solo quando le medesime si elevino ad “accessorie garanzie e precauzioni tendenti sempre allo stesso scopo, quello d’impedire errori e pericoli funesti per gli interessi dei cittadini” e, quindi, necessarie “per attuare in tutte le possibili contingenze l’efficace protezione dei diritti”([31]).
Occorre probabilmente provare ad essere più chiari, perché se è vero che la distinzione tra elementi indispensabili e solo accessori può senz’altro dirsi ragionevole, è pure evidente che la qualificazione degli elementi formali non indispensabili come quelli utili e necessari ad evitare errori funesti finirebbe per tradire il senso della esposta differenza se non si precisasse, come già autorevolmente fatto, che “elementi accidentali non possono mai essere altri che quelli relativi a forme non indispensabili, la cui violazione od omissione non porta a errori o pericoli funesti”([32]).
E che l’individuazione precisa, analitica e pienamente satisfattiva di tutte le ipotesi di invalidità per vizi formali non potesse essere affidata al legislatore deriva dalla intuitiva e immediata considerazione, riscontrabile già nella relazione al codice del 1865, per cui questi “non può adempiere intieramente a tale compito, imperocchè, […] riesce di soverchia mole la designazione speciale, per ciascun atto, delle forme la cui inosservanza porta inevitabilmente la nullità del medesimo”([33]).
Già si spostava in questo modo l’attenzione sulla questione della ricostruzione della reale essenza dell’atto al fine di individuare – attraverso una valutazione casistica – gli elementi da considerare in tal senso indispensabili. Veniva in altri termini introdotto un meccanismo utile ad arginare il rischio che a fronte della disattenzione del legislatore potessero sfuggire al giudizio di nullità anche violazioni formali in verità più gravi (proprio perché comunque incidenti sulla essenza dell’atto) di quelle tipizzate.
Non con questo, tuttavia, superando i possibili e prevedibili profili di criticità legati alla considerazione della difficoltà dell’individuazione della natura e della destinazione di ogni singolo atto processuale, atteso che – sebbene “nella interpretazione delle norme formali […] è sempre preferibile l’interpretazione che segue per quanto rigorosamente i principii suggeriti dalla logica e dal sistema”, tale esame palesa la propria dimensione empirica e soggettiva([34]).
Quelle appena svolte sono riflessioni conservabili e condivisibili, almeno in linea generale, anche nella vigenza dell’art. 156, commi 1 e 2, c.p.c., che infatti ha riproposto di fatto la descritta distinzione tra substantialia e non substantialia processus([35]), senza che in senso contrario possa ragionevolmente valorizzarsi il rinvio al concetto di “scopo” e non più di “essenza” dell’atto. Da un lato, in effetti, già i primi commentatori dell’art. 56 c.p.c. 1865 avevano evidenziato come per elementi essenziali dovessero intendersi “le necessità inerenti alla loro natura [degli atti giudiziari, ndr] e al fine che sono destinati a conseguire”([36]); dall’altro, sembra corretto sostenere che “se un atto ha raggiunto il suo scopo non può dirsi privo di formalità essenziali e viceversa”([37]).
Resta tuttavia il cambio di prospettiva realizzato nel passaggio dal codice del 1865 a quello del 1942 e sublimato dalla previsione (nuova)[38] del comma 3 dell’art. 156. Dalla valorizzazione dello scopo (essenza) quale criterio da utilizzare per verificare la sussistenza degli elementi essenziali (perché se l’atto raggiunge lo scopo essi non possono dirsi mancanti), l’idoneità al suo perseguimento diventa regola da applicare nel giudizio di equipollenza tra forme([39]), così recuperandosi argomento utile anche a superare l’idea che per quanto non sia dubitabile che lo scopo ultimo di un atto sia in astratto raggiungibile in più modi, alla scelta legale di uno di questi segua l’inesistenza giuridica degli altri ovvero, altrimenti detto, la loro irrilevanza e inidoneità rispetto al raggiungimento del fine perseguito([40]).
E’ in questo modo quindi che il legislatore ha realizzato il contemperamento tra le esigenze legate, da un lato, alla regola della legalità e, dall’altro, a quella della libertà delle forme fissata dall’art. 121 c.p.c.([41]), anche in attuazione del principio di elasticità del processo quale meccanismo di “adattabilità del procedimento alle esigenze della causa”([42]).
Il giudice infatti può considerare necessarie ad escludere la nullità anche forme non espressamente prescritte dal legislatore quando direttamente incidenti, in termini di indispensabilità, sulla natura dell’atto (art. 156, comma 2), salvo poi dovere comunque declinare ogni giudizio([43]) alla luce di una valutazione ex post che centralizzi il raggiungimento dello scopo e che escluda l’invalidità dell’atto che il medesimo abbia comunque realizzato (art. 156, comma 3).
Nel sistema delle nullità processuali per vizi formali, altrimenti detto, lo scopo si eleva a “mise en œuvre de la nullité”([44]) e in ciò già si coglie il senso della esigenza – ormai non più procrastinabile visti i propositi di questo esame – di provare ad offrirne una utile definizione.
4.La nozione di scopo dell’atto processuale
La necessaria premessa di ogni tentativo teso alla precisazione della nozione di scopo dell’atto processuale è costituita dalla distinzione tra scopo del singolo atto costituente la sequenza procedimentale e scopo del processo.
Il giudizio in effetti ha una sua funzione, rintracciabile nella pronuncia nel merito del diritto controverso([45]). E’ anche vero, però, che l’idea stessa del processo quale sequenza di atti suggerisce di riconoscere rilevanza anche alla finalità perseguita dai singoli atti che compongono la serie.
Altrimenti detto, ogni atto processuale ha “uno scopo primo, peculiare e diretto, ed uno scopo ultimo, generale e indiretto: la pronuncia nel merito del diritto controverso”([46]).
Ed è a tale scopo diretto che dovrà guardarsi. D’altronde, l’art. 156, commi 2 e 3, riferendosi, rispettivamente, all’atto mancante dei requisiti formali indispensabili allo scopo ovvero a quello che “ha raggiunto lo scopo a cui è destinato” pare chiaramente postulare l’idea della necessaria considerazione del fine ultimo di ogni singolo atto del processo([47]), da ricercare con approccio casistico e da non risolvere quindi necessariamente nella verifica del rispetto del principio del contraddittorio([48]).
Ferma la condivisa precisazione per cui lo scopo dell’atto processuale non può essere ricondotto al fine individuale e soggettivo dell’autore del medesimo([49]), attesa l’irrilevanza della sua partecipazione volitiva e il rischio di una deriva verso ciò che è “arbitrario, capriccioso, illegale”([50]), occorre quindi comprendere alla luce di quale regola generale procedere alla sua individuazione.
Il primo e più significativo sforzo ricostruttivo profuso in questo senso dagli interpreti ha interessato il tema dei rapporti tra lo scopo e l’effetto dell’atto processuale.
La tesi della identità dei concetti è stata sostenuta sulla base della considerazione per cui (i) se l’atto processuale, quale atto giuridico, è caratterizzato dalla idoneità a produrre gli effetti giuridici cui risulta funzionale anche la previsione dei requisiti formali e (ii) l’assenza di tali condizioni rende l’atto nullo e in quanto tale privo della indicata capacità, allora (iii) i requisiti formali indicati come necessari per permettere all’atto di raggiungere il suo scopo sono gli stessi richiesti per rendere l’atto efficace, così potendosi aprire alla possibilità di concludere che lo scopo dell’atto altro non è se non l’effetto giuridico cui lo stesso è preordinato nel sistema ordinamentale([51]).
D’altronde, la descritta equiparazione sembrerebbe trovare sostegno anche nel dettato dell’art. 159, comma 3, c.p.c., ai sensi del quale “se il vizio impedisce un determinato effetto, l’atto può tuttavia produrre gli altri effetti ai quali è idoneo”.
Per queste vie è stato sostenuto che lo scopo è raggiunto quando nella serie procedimentale si avvera “l’evento successivo cui l’atto è preordinato, ossia il comportamento della parte che rappresenta l’attuazione dell’obbligo, o l’adempimento dell’onere, o l’esercizio del potere, la cui costituzione era prevista quale effetto dell’atto viziato”([52]).
Non sarebbe infatti ragionevole ritenere che il meccanismo descritto dall’art. 156, comma 3, c.p.c. realizzi un sistema di sanatoria costruito sulla possibilità di ammettere schemi alternativi dell’atto processuale, individuabili, gli uni, in via di stretta interpretazione e, gli altri, in via analogica([53]), atteso che diversamente ragionando i requisiti formali richiesti dalla legge finirebbero per degradare in elementi meramente suggeriti([54]).
Altrimenti detto, il raggiungimento dello scopo si conformerebbe quale “comportamento della parte, cui spetterebbe di opporre l’eccezione di nullità” e si risolverebbe “propriamente in una forma di acquiescenza”, sì da giustificarne l’inapplicabilità alle ipotesi di invalidità rilevabile d’ufficio([55]).
La descritta soluzione, nella parte in cui afferma la coincidenza dello scopo con l’effetto dell’atto, è stata tuttavia esposta a serie critiche, costruite sulla considerazione per cui così argomentando, atteso che tutto ciò che è richiesto per escludere la nullità di un atto è elemento del medesimo([56]), l’effetto finirebbe per rilevare come condizione di perfezionamento della fattispecie da cui dovrebbe altresì essere prodotto. Ciò in evidente contrasto con la regola della “impossibilità che rispetto ad un medesimo schema legale, uno stesso ente funga da elemento di fattispecie e da effetto”([57]).
Supporto a tali osservazioni sembra potersi ricavare finanche dal dettato dello stesso art. 156, comma 3, c.p.c. Se si accedesse all’idea che lo scopo dell’atto altro non è che l’effetto che il medesimo vuole realizzare, allora la norma dovrebbe essere letta nel senso che il giudice sarebbe chiamato a riconoscere raggiunto lo scopo, e quindi l’atto produttivo di effetti, quando il medesimo sia produttivo di effetti. E in ciò sarebbe facile cogliere un ragionamento tautologico([58]).
Né tale limite potrebbe dirsi superato dall’avere ricollegato la sanatoria ad un comportamento della parte attraverso il quale sia stato realizzato l’effetto dell’atto, atteso che si tratta di impostazione di metodo comunque limitata agli atti di impulso processuale e non anche applicabile a quelli di acquisizione probatoria ovvero ai provvedimenti del giudice, per i quali – all’evidenza – non sembra immaginabile un comportamento della parte (costituente l’attuazione dell’obbligo, o l’adempimento dell’onere, o l’esercizio del potere) idoneo a identificarsi con lo scopo perseguito([59]).
E’ stata per queste ragioni proposta una ricostruzione alternativa della nozione di scopo, come coincidente non con gli effetti giuridici dell’atto ma con il “risultato pratico”([60]) e “l’evento fisico”([61]) cui lo stesso è preordinato.
Lo scopo considerato dall’art. 156, comma 3, c.p.c. diventa pertanto “l’evento per il quale l’ordinamento predispone il compimento dell’atto”([62]) e il suo raggiungimento, da accertare con approccio fattuale, rileva come il risultato della combinazione dell’atto invalido con altro (atto o fatto) invece valido ai fini della formazione di una “diversa fattispecie prevista in rapporto di sussidiarietà”([63]) utile a configurare una sanatoria secondo l’insegnamento per cui essa ricorre quando un fatto (o un atto) si unisce ad un altro precedente atto imperfetto facendo in modo che questo acquisti il valore dell’atto perfetto originariamente non validamente compiuto([64]).
Nel tentativo di provare ad offrire un criterio concretamente applicabile, nella stessa ottica fattuale, si è detto quindi che la nozione di scopo andrebbe ricondotta alla possibilità di esercitare i poteri e di adempiere ai doveri attributi ai soggetti del processo nella fase procedimentale successiva a quella in cui l’atto di cui si tratta è stato posto in essere([65]), così assottigliando pure la distinzione tra scopo dell’atto e scopo del processo.
L’adesione alla indicata conclusione consentirebbe anche di superare l’idea che lo scopo dell’atto debba essere recuperato nello “scopo della legge”([66]) piuttosto che nella soddisfazione degli interessi per i quali la norma aveva previsto il requisito formale([67]), poiché se è l’evento materiale e il risultato pratico voluto e associato al singolo atto che occorre valorizzare nella verifica della raggiunta sanatoria, allora tali riflessioni – per quanto senz’altro munite di logica giuridica – sconterebbero il limite di una difficilmente risolvibile indeterminatezza.
5.Esiste uno scopo telematico dell’atto e del processo?
Quanto appena ricostruito in punto di nozione di scopo dell’atto del processo costituisce argomento indispensabile per provare ad offrire risposta al quesito con cui si è aperta questa riflessione; vale a dire se sia immaginabile uno scopo telematico dell’atto e del processo tale per cui possa concludersi per l’ontologica inidoneità allo scopo dell’atto formato digitalmente in violazione della normativa tecnica di settore.
Nell’ondivago moto interpretativo della giurisprudenza di merito, che pure in molte occasioni ha fatto applicazione dell’art. 156, comma 3, c.p.c. per la conservazione dell’atto considerato viziato([68]), vale la pena fare menzione del contrario orientamento che – con maggiore rigore (o, se si preferisce, formalismo) – ha invece concluso per la nullità non sanabile dell’atto.
Ciò sulla scorta della convinzione che la realizzazione del processo telematico presuppone e implica necessariamente l’adesione degli operatori agli standard tecnici stabiliti dalle regole di settore, in assenza del rispetto dei quali la riforma processuale digitale risulterebbe non solo di difficile praticabilità – anche nell’ottica dell’obiettivo della ragionevole durata – ma addirittura inconcepibile.
In tale logica lo scopo dell’atto processuale andrebbe recuperato innanzitutto nella sua natura telematica. In altri termini, ad aderire a tale soluzione occorrerebbe condividere l’idea che esista un scopo telematico dell’atto processuale telematico, da individuare non nella sua idoneità a significare alle altre parti del processo ed al giudice intendimenti e rappresentazioni ma piuttosto, e prima dell’analisi di ogni altro profilo, nella sua capacità “di inserirsi efficacemente in una sequenza intrinsecamente assoggettata alle regole tecniche”([69]).
Con maggiore impegno esplicativo, si imporrebbe la definizione di un nuovo scopo, telematico, “che non è soltanto quello di creare una presa di contatto tra l’ufficio giudiziario ed il depositante, ma anche quello di veicolare le richieste della parte al giudice […] mediante un supporto smaterializzato e decentralizzato […] per le ragioni di economia processuale e di ragionevole durata del processo cui è ispirato il P.C.T.”([70]).
Si tratta di impostazione di metodo utilizzata anche per negare la sanatoria dell’atto inciso dalla violazione delle disposizioni sui c.d. formati. Per tale ipotesi, infatti, è stato sostenuto che il rispetto delle specifiche tecniche ha lo scopo di rendere gli atti formati digitalmente immediatamente intelligibili a tutti gli attori del processo, “senza imporre la necessità di ricercare programmi di conversione di formati diversi”. In questo contesto, la prescrizione del formato .pdf per l’atto del processo ha lo scopo di rendere il medesimo liberamente navigabile o, altrimenti detto, quello di consentire il pieno utilizzo degli elementi dell’atto, sicché la sua redazione in formati diversi da quelli previsti e tecnicamente autorizzati non sarebbe utile a rendere l’atto comunque idoneo a raggiungere il proprio scopo, sì da imporre una dichiarazione di nullità ai sensi dell’art 156, comma 2, c.p.c.([71])
Pare ragionevole sostenere la riconducibilità delle soluzioni appena ricostruite all’idea dello scopo dell’atto come scopo della legge, atteso che esse sembrano poggiare sull’assioma per cui se il senso della riforma del processo in ottica digitale è la trasmigrazione virtuale del fascicolo e di ogni altra dinamica procedimentale, allora la difformità dal modello legale dell’atto informatico reca con sé un indisponibile giudizio di inidoneità allo scopo e, per l’effetto, di invalidità non sanabile per mancanza di requisiti formali indispensabili. Fino a sostenere anche, tirando le più rigorose (anche troppo!) conseguenze dalle premesse date, la configurabilità di una ipotesi di inesistenza per difformità dal solo tipo legale ammesso “assumendo che il formato dematerializzato rappresenti oggi […] l’unico riconosciuto e previsto dall’ordinamento […] per gli atti processuali”[72] che si vogliano immaginare in un processo necessariamente solo telematico.
Si tratta di conclusione certamente comoda e funzionale alla realizzazione della giustizia informatizzata ma che pare scontare, senza potere in questa sede scendere ad analizzare più compiutamente i rapporti tra nullità e inesistenza([73]), il dato della mancanza – nei casi che interessano – di una reale e radicale lontananza dal modello, atteso che può facilmente constatarsi come la forma non telematica continui, per lo meno in alcuni casi, ad essere prevista per gli atti processuali([74]).
Nemmeno si dimostra però convincente la tesi della nullità non sanabile. Nella ricostruzione della nozione di scopo dell’atto processuale si è già osservato, infatti, l’opportunità di optare per un approccio fattuale che in luogo della sola finalità perseguita dal legislatore valorizzi l’evento materiale eventualmente comunque realizzato. D’altronde non sarebbe in ogni caso immediatamente sostenibile che con le disposizioni di settore, che ad esempio fissano i formati degli atti processuali informatici, il legislatore abbia inteso formalizzare la volontà alla definizione di uno scopo nuovo, quantomeno ulteriore e comunque prevalente su quello proprio dei singoli atti della sequenza come sopra delineato e consistente nella dematerializzazione del processo attraverso libere operazioni di selezione degli elementi dell’atto.
L’impossibilità di considerare sempre e certamente indispensabili le condizioni formali indicate dalle regole tecniche deriva, di contro, proprio dalla possibilità di inserire comunque l’atto nella sequenza procedimentale. Lo scopo dell’atto, anche nel processo telematico, resta quello di consentire lo svolgimento del procedimento senza pregiudicare il diritto alla difesa della controparte, poiché non può ammettersi la tesi di uno scopo telematico dell’atto telematico che finirebbe altrimenti per non valorizzare il dato della conoscibilità per il giudice e le altri parti.
Così si è sostanzialmente espressa pure la Cassazione che per prima ha pronunciato sul tema della qualificazione del vizio derivante dalla violazione delle disposizioni dettate in punto di modalità (cartacee ovvero telematiche) del deposito, affermando il principio per cui la regola dell’art. 156, comma 3, c.p.c. deve continuare a trovare applicazione e declinazione alla luce del criterio per cui lo scopo va rintracciato “nella presa di contatto fra la parte e l’ufficio giudiziario dinanzi al quale la controversia è instaurata e nella messa a disposizione [dell’atto, ndr] delle altre parti processuali”[75].
L’atto formato digitalmente in violazione delle regole e delle specifiche tecniche infatti, soprattutto in un quadro normativo in cui anche le più recenti circolari ministeriali hanno chiarito la necessità di accettare sempre il deposito, salvi i casi di errori fatali([76]), è comunque destinato a trovare ingresso nel fascicolo processuale telematico([77]) e quindi potenzialmente idoneo a conseguire l’evento materiale per il quale esso era stato posto in essere.
Ciò che deriverebbe dalla diversa soluzione sarebbe l’idea che l’utilità dell’atto digitale rispetto al fine debba essere calibrato guardando alle ragioni che hanno mosso il legislatore della riforma processuale telematica, vale a dire la trasmigrazione informatica del giudizio, così però assorbendo ed esaurendo in tale valutazione l’esame dello scopo di ogni singolo atto che infatti perderebbe di consistenza perché sacrificato sull’altare dell’utilità concreta della riforma.
Quello che vuole sostenersi è che non è in dubbio che il passaggio al processo telematico richieda anche la massima adesione possibile degli operatori alle regole tecniche, il cui rispetto si eleva a condizione di senso e di effettività del progetto legislativo. Tuttavia, nemmeno pare ragionevole che per tale obiettivo possano essere sovvertiti i tradizionali approdi raggiunti in tema di scopo dell’atto per i quali, piuttosto, si impone solo un esercizio di coordinamento e di adeguamento. L’atto processuale telematico formato in violazione delle disposizioni di settore è, altrimenti detto, un atto recante un vizio formale, ma il giudizio sulla sua validità non può che passare da un accertamento, rapportato alle caratteristiche del caso concreto, della sua idoneità a raggiungere lo scopo suo proprio; non, quindi, quello della legge che ha voluto il processo digitale, ma quello ricollegabile al singolo atto e recuperabile nella capacità di inserirsi comunque nella sequenza procedimentale permettendone la prosecuzione.
Nella stessa direzione, d’altronde, pare essersi mossa anche la giurisprudenza di legittimità che, evidenziando la necessità di centralizzare il giudizio sull’effettività della lesione processuale eventualmente subita, ha chiarito che “La denuncia di vizi fondati sulla pretesa violazione di norme di rito non tutela l’interesse all’astratta regolarità del processo, ma garantisce solo l’eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in conseguenza della denunciata violazione” e per queste vie ha escluso l’invalidità di una notificazione effettuata attraverso l’uso di formati non autorizzati (nella fattispecie, l’atto era stato notificato in estensione .doc, anziché .pdf) argomentando proprio in termini di raggiungimento dello scopo([78]).
Il tutto, peraltro, in una logica di almeno tendenziale equilibrio tra possibili posizioni estreme che se, da un lato, sono state a volte proiettate – come visto sopra – verso l’inesistenza, dall’altro, potrebbero offrire sostegno anche alla soluzione, ben meno sanzionatoria, della mera irregolarità dell’atto. Ciò in quanto, come evidenziato sopra, non solo la normativa di settore non prevede espressamente la sanzione specifica della nullità, ma sembrerebbe sostenibile – almeno in astratto e con riferimento ad ipotesi particolari – che l’atto formato in violazione delle regole formali digitali non sia comunque affetto da un vizio utile ad intaccarne la capacità di produrre effetti([79]), sì da poterne degradare ogni possibile profilo di difformità dal modello legale alla mera irregolarità, da intendersi come “ciò che è meno della nullità”([80]). E’ lo stesso art. 156, comma 2, c.p.c. che, nel fare richiamo a requisiti indispensabili alla cui mancanza ricollegare la nullità dell’atto, implicitamente ammette infatti pure la configurabilità di difformità non incidenti sulla validità([81]) e a fronte delle quali la regolarizzazione dell’atto risponderebbe a logiche di mera opportunità e non anche di necessità processuale([82]).
In altri termini, l’atto non pienamente conforme alle regole digitali risulterebbe, quando comunque idoneo all’utile inserimento nella sequenza procedimentale in quanto (i) oggettivamente intellegibile, (ii) completo nel contenuto fissato dal codice di rito e (iii) indiscusso nella paternità, del tutto idoneo alla produzione degli effetti tipici perché interessato da un distaccamento dal modello in tale senso ininfluente.
Anche in questo caso, tuttavia, la suggestione offerta dalle soluzioni più radicali non offre ragione di essere preferita, soprattutto in considerazione delle conseguenze che ad essa conseguirebbero, come collegate alla possibilità di porre in essere gli atti del processo in assoluta discordanza dalle regole tecniche di settore e, quindi, in chiara violazione dell’intento riformatore.
E’ di nullità per vizi formali che risulta quindi preferibile continuare a discorrere, ferma la ricostruita necessità di considerare ammissibile un sanatoria oggettiva per raggiungimento dello scopo.
6.Conclusioni
Si è partiti dalla constatazione della necessità della ricerca di un delicato equilibrio tra le esigenze di valorizzazione dell’intento legislativo sotteso alla riforma digitale del processo e quelle legate al principio dell’economia conservativa che esso tutto pervade. E non poteva essere diversamente, perché se è vero che la completa dematerializzazione del giudizio richiede anche un approccio rigoroso da applicare alle difformità dal modello, lo è anche la considerazione del rischio della deriva verso lo sterile formalismo cui una tale direttrice potrebbe condurre.
Il problema che si pone, altrimenti detto, ha valenza sistematica, e la sua risoluzione impone quindi il rinvio ai principi per ispirano il codice di rito.
A breve sarà la stessa Cassazione ad offrire un significativo contributo alla questione. Al Primo Presidente, e in vista dell’assegnazione alle Sezioni Unite, la VI sez. ha infatti rimesso la questione ritenuta di massima importanza concernente “gli effetti della violazione delle disposizioni tecniche specifiche sulla forma degli ‘atti del processo in forma di documento informatico’ […] da notificare […] e, in particolare, sull’estensione […] dei file in cui essi si articolano, ove siano indispensabili per valutare la loro autenticità”; ciò perché venga stabilito “se esse prevedano o meno una nullità di forma e, quindi, se questa sia poi da qualificarsi indispensabile ai sensi dell’art. 156 c.p.c., comma 2, rendendosi – in caso di risposta affermativa al quesito necessario poi definire l’ambito ed i limiti dell’applicabilità alla fattispecie del principio generale di sanatoria degli atti nulli in caso di raggiungimento dello scopo previsto dall’art. 156 c.p.c., comma 3”([83]).
Non è questo il momento per esaminare più nel dettaglio l’ordinanza di rimessione o l’excursus motivazionale – invero sotto alcuni aspetti poco convincente – su cui essa è costruita([84]).
E’ tuttavia significativo il fatto che il Collegio, proprio dopo avere premesso la possibilità di dichiarare immediatamente inammissibile il ricorso sia per carenza di procura speciale, sia per tardività, abbia ritenuto necessaria la decisione sull’eccezione del ricorrente in merito alla ritualità della notifica di uno dei controricorsi (in quanto “avvenuta con allegazione al messaggio di PEC di tre file in formato ‘.pdf’ e non ‘.p7m’ e quindi da ritenersi privi di firma digitale”), con l’apprezzabile proposito di provare ad offrire occasione per una più chiara definizione della tipologia della sanzione derivante per gli atti processuali dalla violazione delle prescrizioni della normativa tecnica.
In attesa della pronuncia del supremo consesso l’audace esercizio di vaticinio sembra giustificato da quanto già descritto, oltre che dagli insegnamenti già elargiti dalla Corte e che qui si utilizzano quasi come premesse di un sillogismo.
Il sistema delle forme del processo è caratterizzato da un assetto teleologico, sicché le norme processuali, che costituiscono solo lo strumento per garantire la giustizia della decisione, vanno sempre interpretate in modo funzionale alla decisione sul merito, piuttosto che ad “esiti abortivi del processo”([85]).
In questo senso, la regola di necessaria applicazione è quella della verifica di un effettivo pregiudizio arrecato dalla violazione formale alla garanzia costituzionale del diritto alla difesa, poiché sebbene la disciplina delle forme non abbia formalmente recepito l’invito “a pronunciare la nullità soltanto nel caso, accertato e dimostrato, che la omissione o la violazione abbia leso positivamente il diritto della parte che muove la doglianza”([86]), la giurisprudenza di legittimità – anche di recente – ne ha chiarito la portata nel senso della necessità di formulare la censura anche con specifico riferimento a “quale sia stato il danno arrecato alle proprie attività difensive dall’invocata nullità processuale”([87]), atteso che ricollegare automaticamente alla difformità dal modello una lesione funzionale alla dichiarazione di nullità significherebbe aprire ad una “concezione(non formale ma) formalistica del processo […] del tutto avulsa dai parametri, oggi recepiti anche in ambito costituzionale e sovranazionale, di effettività, funzionalità e celerità dei modelli procedurali”([88]).
Immediato riferimento è offerto in questa direzione dall’art. 6, comma 3, del Trattato sull’Unione Europea (c.d. Trattato di Lisbona, ratificato con l. 2 agosto 2008, n. 130), ai sensi del quale “i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali […] fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”. Tale processo di europeizzazione dei principi CEDU interessa quindi anche quello della effettività della tutela giurisdizionale, come esplicitato dall’art. 6 CEDU e da interpretare alla luce dell’esigenza di evitare gli eccessi di formalismo al fine di garantire l’esame (sempre e preferibilmente) nel merito della domanda e la limitazione delle ipotesi di nullità ai soli casi in cui sussista “un rapporto ragionevole di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo avuto di mira”([89]).
Oltre le indicate coordinate sembra quindi collocarsi l’idea della necessaria valorizzazione della dimensione formale dell’atto digitale, sostenuta al fine di escludere l’idoneità allo scopo dell’atto non conforme al tipo telematico delineato dal legislatore con la normativa di settore.
L’obiettivo della implementazione del progetto, infatti, non può giustificare il superamento né delle tradizionali dinamiche processuali di sanatoria tracciate dall’art. 156, comma 3, c.p.c. né delle precisazioni ulteriormente garantiste offerte negli anni dalla giurisprudenza contro il rischio di derive formalistiche spesso solo strumentali alla liberazione dalla decisione nel merito.
Di questo, il legislatore (anche quello tecnico) dovrebbe prendere atto in vista di un intervento che, nel disordine delle proposte interpretative elaborate soprattutto da una parte della giurisprudenza di merito, si faccia momento di chiarificazione e di supporto alle conclusioni esposte perché è vero, come già autorevolmente sostenuto, che “il moltiplicarsi delle sanzioni di nullità nel processo civile e l’aggravarsi dei rigori ad esse relativi, è sempre sintomo di influenza nociva degli ordinamenti politici su quelli giurisdizionali”([90]).
E in effetti, a dimostrazione di una sensibilità anche normativa maturata sul tema della piena conservabilità dell’atto digitale comunque idoneo allo scopo, si muove la recente proposta di riforma portata con disegno di legge n. 2953 (approvato alla Camera in data 10 marzo 2016) che, oltre ad alimentare la speranza per una risistemazione delle norme dettate negli anni in materia di processo telematico, prevede il divieto “di sanzioni processuali sulla validità degli atti per il mancato rispetto delle specifiche tecniche sulla forma e sullo schema informatico dell’atto, quando questo abbia comunque raggiunto lo scopo”.
Ciò dovrebbe costituire argomento chiaro per sostenere che lo scopo dell’atto processuale digitale non può individuarsi nelle finalità perseguite dalle regole e dalle specifiche tecniche, quale conclusione certamente condivisibile anche alla luce della necessità di considerare “una sanzione di nullità né giusta, né opportuna quando non serva a riparare una violazione di diritto effettivamente accertata, non solo platonicamente temuta”([91]).
([1]) Di “sanatoria” si parlerà anche nel prosieguo di questo scritto, aderendo alla scelta linguistica comunemente condivisa dalla dottrina, nonostante il rilevo formale sollevato da chi ha sottolineato che concettualmente la sanatoria presuppone una dichiarazione di nullità che, invece, il meccanismo dell’art. 156, comma 3, c.p.c. tende a scongiurare a monte. In questi termini C. A. Giovanardi, Sullo scopodell’atto processuale in relazione alla disciplina della nullità, in Riv. dir. civ., 1987, II, p. 281 s.
([2]) Sul tema della applicabilità dell’art. 156 c.p.c. alle sole nullità derivanti da vizi formali (cioè riferibili al “contenuto-forma dell’atto”) e non anche a quelle conseguenti a vizi extraformali (quali il difetto di volontarietà e dei presupposti processuali), cfr., anche per ulteriori riferimenti bibliografici e la ricostruzione delle differenti posizioni, G. Martinetto, Sub art. 156, in Commentario del Codice di Procedura Civile, diretto da E. Allorio, I.2, Torino, 1973, p. 1579; più di recente, C. Besso-M. Lupano, Sub art. 156, in Degli atti processuali, Bologna, 2016, p. 692 ss.
([3]) M. Dondina, Atti processuali (civili e penali), in Nss. dig. it., Torino, 1957, I.2., p. 1517.
([4]) G. Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, Napoli, 1928, p. 662 s.; M. T. Zanzucchi, Diritto processuale civile, I, Milano, 1964, p. 426.
([5]) G. Chiovenda, Principii, cit., p. 663.
([6]) Cfr. E. Redenti, Atti processuali civili, in Enc. dir., Milano, 1959, IV, p. 117.
([7]) C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, I, Torino, 2017, p. 652 s.; C. Mandrioli-A. Carratta, Diritto processuale civile, I, Torino, 2016, p. 499; G. Verde, Profili del processo civile, I, Napoli, 2002, p. 284; R. Oriani, Atti processuali, in Enc. giur., Roma, 1988, III, p. 1; E. Redenti, Atti processuali, cit., p. 113.
([8]) In questa direzione valga, in via meramente esemplificativa, il rinvio al dettato degli art. 88 e 96 c.p.c.
([9]) Amplius, anche per ulteriori riferimenti, v. C. Consolo, Spiegazioni, I, cit., p. 653 s.; F. P. Luiso, Diritto processuale civile, I, Milano, 2017, p. 415; C. Mandrioli-A. Carratta, Diritto processuale, I, cit., p. 500; E. T. Liebman, Manualedi diritto processuale civile, Milano, 2012, p. 214; C. Punzi, Il processo civile. Sistema e problematiche, I, Torino, 2010, p. 36; G. Verde, Profili, I, cit., p. 305; E. Fazzalari, Istituzioni di diritto processuale, Padova, 1996, p. 366; E. Redenti, Atti processuali, cit., p. 114.
([10]) F. Carnelutti, Istituzioni del nuovo processo civile italiano, Roma, 1941, p. 259.
([11]) Tra gli altri, v. P. Calamandrei, Istituzioni di diritto processuale secondo il nuovo codice, Padova, 1941, p. 220; C. Furno, Nullità e rinnovazione degli atti processuali, in Studi in onore di Enrico Redenti, I, Milano, 1951, p. 419; E. T. Liebman, Manuale, cit., p. 217; C. Mandrioli-A. Carratta, Diritto processuale, I, cit., p. 504; R. Poli, Invalidità ed equipollenza degli atti processuali, Torino, 2012, p. 70.
([12]) G. Chiovenda, Principii, cit., p. 663. Nello stesso senso, cfr. S. Chiarloni, Etica, formalismo processuale, abuso del processo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2014, IV, p. 1282.
([13]) F. Carnelutti, Istituzioni, cit., p. 260, per il quale dovrebbe trattarsi di libertà di modo, piuttosto che di libertà di forma. In questo senso l’Autore sostiene che il principio “non esonera l’agente dall’osservanza di regole concernenti il modo dell’atto, ma solo esprime l’assenza di regole dettate dalla legge a tal uopo”.
([14]) Tra gli altri, V. Andrioli, Sub art. 121, in Commento al Codice di procedura civile, I, Napoli, 1954, p. 352; G. Martinetto, Sub art. 121, in Commentario, I.2., cit., p. 1353; E. Fazzalari, Istituzioni, cit., p. 367; S. Satta-C. Punzi, Diritto processuale civile, Padova, 2000, p. 201; R. Poli, Sulla sanabilità dei vizi degli atti processuali, in Riv. dir. proc., 1995, II, p. 481; C. Besso-M. Lupano, Sub art. 156, cit., p. 695.
([15]) Corte cost. 30 luglio 2009, n. 257.
([16]) F. Carnelutti, Sistema del diritto processuale, Padova, 1938, p. 128.
([17]) Cfr. N. Picardi, Manuale del processo civile, Milano, 2013, p. 268, il quale evidenzia come “Oggi deve […] ritenersi che ci troviamo in presenza di forma in senso lato, come complesso dei requisiti minimi dell’atto […]”.
([18]) Cfr. A. De Oliveira, Il formalismo nel processo civile (proposta di un formalismo-valutativo), trad. di C. Asprella, Milano, 2013, p. 14, secondo cui dovrebbe per queste ragioni parlarsi più correttamente di formalità e non di forma in senso stretto.
([19]) L. P. Comoglio, Processo civile telematico e codice di rito. Problemi di compatibilità e suggestioni evolutive, in Riv. dir. proc., 2015, III, p. 975.
([20]) Cfr. B. Brunelli, Misure minime di sicurezza per gli atti processuali digitali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2017, II, p. 517, per la quale la forma telematica costituisce “la terza via tra oralità e scrittura”. Amplius sul tema, R. Caponi, Il processo civile telematico tra scrittura e oralità, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2015, I, p. 305 ss.
([21]) In senso contrario pare E. Zucconi Galli Fonseca, L’incontro tra informatica e processo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2015, IV, p. 1214, la quale esclude la riconducibilità alla nozione di forma dei c.d. formati dell’atto telematico, atteso che “altra è la forma, altro è il formato: l’inosservanza non sta nell’utilizzo di una forma diversa, bensì nel difetto di piena corrispondenza fra le sue caratteristiche e quelle previste dalla legge”. Contrari alla riconduzione delle modalità di deposito (in quanto attività materiale; v. Cass., sez. un., 4 marzo 2009, n. 5160) alla nuova nozione di forma, M. Lupano, Estensione dell’obbligo di deposito telematico e conseguenze della sua violazione, in Giur. it., 2016, XII, p. 2634; P. Pucciariello, Obblighi di deposito telematico: tra nuovi formalismi e regole di validità degli atti processuali, in Corr. giur., 2016, X, p. 1297.
([22]) Sul tema della incidenza delle scelte legislative sul sistema della forma degli atti del processo, v. G. Chiovenda, Principii, cit., p. 663, secondo cui “Disgraziatamente è difficile avere un sistema di forme logico […]. Molte forme sono il portato delle condizioni sociali e politiche del tempo”.
([23]) Nello stesso senso appena esposto, M. Frediani, Errore nel deposito telematico e supremazia del principio di economia conservativa, in Il lavoro nella giur., 2017, II, p. 191.
([24]) Amplius, sul sistema delle fonti del processo telematico, v. G. G. Poli, Il sistema delle fonti del processo civile telematico, in Riv. dir. proc., 2016, IV-V, p. 1201 ss.
([25]) G. G. Poli, Sulle (nuove forme di) nullità degli atti ai tempi del processo telematico, in Giur. it., 2015, II, p. 370. In via alternativa, potrebbe invece sostenersi che le regole e le specifiche tecniche del processo civile telematico costituiscano integrazione della normativa di livello primario. Ciò proprio in ragione del rinvio a catena speso dall’art. 4, commi 1 e 2, d.l. n. 193/2009 al d.m. n. 44/2011 e, per suo tramite, alle specifiche contenute nel provvedimento DGSIA del 16 aprile 2014, da ultimo integrato in data 28 dicembre 2015. Tali disposizioni tecniche, quindi, non sarebbero contenute in meri regolamenti amministrativi ma in fonti da qualificare quali primarie in via sostanziale, e in quanto tali applicabili anche in deroga ad altre e precedenti norme di pari rango.
([26]) Relazione sul progetto del Codice di Procedura Civile presentato in iniziativa al Senato dal Ministro Guardasigilli (Pisanelli) nella tornata del 26 novembre 1863, n. 63, Torino, Stamperia Reale, 1864, p. 20.
([27]) In tale senso, si consideri utile esempio il Regolamento legislativo e giudiziario per gli affari civili dello Stato Pontificio emanato da Papa Gregorio XVI il 10 novembre 1834, il cui § 408, pur ammettendo la rinnovazione entro termini perentori, espressamente prevedeva che “Ogni contravvenzione alle leggi di procedura induce la nullità dell’atto […]”.
([28]) Cfr. Relazione sul progetto, cit., p. 20 s.
([29]) Amplius, per la ricostruzione delle posizioni interpretative formatesi sulla portata dell’art. 1030 (ai sensi del quale “Aucun exploit ou acte de procédure ne pourra étre déclaré nul, si la nullité n’en est pas formellement prononcée par la loi”), cfr. L. Mortara, Commentario del Codice e delle Leggi di Procedura Civile, II, Milano, Vallardi Editore, 1923, p. 808 ss.; G. Chiovenda, Principii, cit., p. 665. E’ appena il caso di osservare, peraltro, come la distinzione tra forme sostanziali e forme accidentali, ancora prima che dal Pisanelli, era stata recepita da alcune delle principali esperienze codicistiche preunitarie, tra le quali pare significativo il riferimento, speso in via esemplificativa, al codice sardo del 1859 (art. 1158).
([30]) L. Mortara, Commentario, II, cit., p. 815. In questo senso si muoveva già il progetto Orlando-Mortara del 1908-1909 (su cui, amplius, B. Cavallone, <<Preferisco il cattivo processo attuale>> (Chiovenda, Mortara, e <<il progetto Orlando>>), in I progetti di riforma del processo civile, a cura di G. Tarzia e B. Cavallone, Milano, 1989, II, p. 829 ss.), che infatti prendeva a riferimento l’art. 495, comma 2, del codice ginevrino del 1891 ai sensi del quale “La nullità d’un atto deve essere dichiarata quando la violazione della legge ha prodotto alla parte che la oppone un pregiudizio che non può altrimenti esser riparato se non colla dichiarazione di nullità”.
([31]) Cfr. Relazione sul progetto, cit., p. 22 s.
([32]) L. Mortara, Commentario, II, cit., p. 812.
([33]) Cfr. Relazione sul progetto, cit., p. 24. Nello stesso senso, L. Mortara, Commentario, II, cit., p. 814.
([34]) G. Chiovenda, Principii, cit., p. 666.
([35]) Si dimostra utile in tale senso la lettura della ricostruzione sistematica offerta da A. Panzarola, Alla ricerca dei substantalia processus, in Riv. dir. proc., 2015, III, p. 680 ss.
([36]) L. Mortara, Commentario, II, cit., p. 813.
([37]) V. Andrioli, Sub art. 156, in Commento, I, cit., p. 411.
([38]) Il criterio della rispondenza allo scopo aveva trovato primo momento di riconoscimento già nell’art. 49 del progetto Carnelutti (Progetto di codice di procedura civile presentato alla sottocommissione reale per la riforma del codice di procedura civile, Padova, 1926) oltre che nell’art. 139 del progetto Redenti (Lavori preparatori per la riforma del Codice di procedura civile: schema di progetto del Libro primo, Roma, Tip. delle Mantellate, 1936).
([39]) In questi termini, C. A. Giovanardi, Sullo scopo, cit., p. 270.
([40]) Tale conclusione era stata raggiunta da G. Chiovenda, Principii, cit., p. 666.
([41]) M. T. Zanzucchi, Diritto processuale, I, cit., p. 427.
([42]) La formula è impiegata per la prima volta dal Guardasigilli Grandi nella relazione presentata nell’udienza del 28 ottobre 1940 che accompagnava la promulgazione del codice di procedura civile del 1940.
([43]) Non è infatti in discussione che lo scopo considerato dal comma 2 dell’art. 156 c.p.c. non sia differente da quello previsto dal comma 3; cfr., tra gli altri, R. Oriani, Nullità degli atti processuali, in Enc. giur., Roma, 1990, XXI, p. 3; G. Martinetto, Sub art. 156, cit., p. 1582; R. Poli, Invalidità ed equipollenza, cit., p. 407.
([44]) L’espressione, mutuata dalla dottrina francese, è utilizzata con riferimento al dettato dell’art. 156 c.p.c. da V. Denti, Nullità degli atti processuali civili, in Nss. dig. it., XI, Torino, 1965, p. 477.
([45]) G. Martinetto, Sub art. 156, cit., p. 1582; A. Proto Pisani, In tema di disciplina delle nullità causate da difetto (o da vizi) della difesa tecnica, in Foro it., 1990, I, c. 1240. Contra, C. Mandrioli, In tema di vizi c.d. <<non formali>>degli atti processuali civili, in Jus, 1966, p. 330, nota 26.
([46]) R. Poli, Sulla sanabilità, cit., p. 486. E. T. Liebman, Manuale, cit., p. 215.
([47]) In questi termini, G. Martinetto, Sub art. 156, loc. ult. cit.; C. Mandrioli, In tema di vizi c.d. <<non formali>>, loc. ult. cit.; C. Furno, Nullità e rinnovazione, cit., p. 413; G. Tarzia, Profili della sentenza civile impugnabile, Milano, 1967, p. 22.
([48]) G. Martinetto, Sub art. 156, loc. ult. cit.
([49]) Tra i tanti, e a solo titolo esemplificativo, B. Sassani, Lineamenti del processo civile italiano, Milano, 2017, p. 91; C. Consolo, Spiegazioni, I, cit., p. 684; C. Mandrioli-A. Carratta, Diritto processuale, I, cit., p. 499; R. Poli, Invalidità ed equipollenza, cit., p. 403; id., Sulla sanabilità, cit., p. 481; G. Verde, Profili, I, cit., p. 308; L. Montesano, Questioni attuali su formalismo, antiformalismo e garantismo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1990, I, p. 3; V. Denti, Nullità, cit., p. 477; M. T. Zanzucchi, Diritto processuale, I, cit., p. 449; E. Redenti, Diritto processuale civile, I, Milano, 1957, p. 231 s.; V. Andrioli, Sub art. 156, cit., p. 411; C. Furno, Nullità e rinnovazione, cit., p. 425.
([50]) E. Redenti, Atti processuali, cit., p. 119.
([51]) Nell’ambito di tale ricostruzione si ritiene di potere ricondurre pure la posizione di chi ha sostenuto di potere individuare lo scopo nella “funzione” dell’atto (tra gli altri, v. S. Satta, Commentario al codice di procedura civile, I, Milano, 1959, p. 535 ss.; E. Fazzalari, Istituzioni, cit., p. 367; S. Satta-C. Punzi, Diritto processuale, cit., p. 243), atteso che se intesa in senso giuridico essa tenda a risolversi negli effetti producibili.
([52]) V. Denti, Nullità, cit., p. 477. Nello stesso senso sembrano collocarsi, C. Furno, Nullità e rinnovazione, cit., p. 405; C. Mandrioli, In tema di vizi c.d. <<non formali>>, cit., p. 324 s.
([53]) Secondo la tesi di E. Minoli, L’acquiescenza nel processo civile, Milano, Editore Vallardi, 1942, p. 257 ss.; cfr. anche V. Denti, Nullità, loc. ult. cit., il quale riporta l’esempio della nullità della notifica per violazione delle disposizioni circa la persona destinataria dell’atto evidenziando come in questi casi la sanatoria non sia da ricollegare alla prova della conoscenza in altro modo acquisita (e quindi secondo gli schemi di una fattispecie alternativa) ma ad un comportamento della parte consistente nella sua costituzione in giudizio.
([54]) G. Conso, Il concetto e le specie di invalidità. Introduzione alla teoria dei vizi degli atti processuali penali, Milano, 1955, p. 22; G. Martinetto, Sub art. 156, cit., p. 1589.
([55]) V. Denti, Nullità, cit., p. 478.
([56]) G. Conso, I fatti giuridici processuali penali, Milano, 1982, p. 111.
([57]) F. Cordero, Nullità, sanatorie, vizi innocui, in Riv. it. dir. proc. pen., 1961, p. 706. L’indicata posizione è ripresa da G. Martinetto, Sub art. 156, cit., p. 1584; C. A. Giovanardi, Sullo scopo, cit., p. 273; R. Poli, Sulla sanabilità, cit., p. 481. Nello stesso senso anche F. P. Luiso, Diritto processuale, I, cit., p. 419.
([58]) C. A. Giovanardi, Sullo scopo, cit., p. 274.
([59]) In questi termini, G. Martinetto, Sub art. 156, cit., pp. 1584 e 1591, che evidenzia altresì come aderendo alla tesi descritta “il conseguimento dello scopo verrebbe ad operare […] non solo come causa di sanatoria di un atto viziato, ma anche come causa di surrogazione di un atto mancante”. Contraria sembra la posizione di R. Poli, Invalidità ed equipollenza, cit., p. 288, secondo cui “anche la mancanza materiale dell’atto è sempre sanabile quando nel procedimento è raggiunto lo scopo della norma violata attraverso tale omissione”.
([60]) G. Martinetto, Sub art. 156, loc. ult. cit.
([61]) F. Cordero, Nullità, cit., p. 709.
([62]) B. Sassani, Lineamenti, cit., p. 91; R. Poli, Sulla sanabilità, cit., p. 489; F. P. Luiso, Diritto processuale, I, cit., p. 420, secondo il quale “La sanatoria per raggiungimento dello scopo va quindi ricercata in un’altra direzione: essa consiste nel verificarsi di un evento materiale (e non di un effetto giuridico), la cui realizzazione quel requisito (la cui mancanza è prevista a pena di nullità dall’ordinamento) doveva favorire”.
([63]) F. Cordero, Nullità, cit., p. 707; concorde, G. Martinetto, Sub art. 156, cit., p. 1590. Secondo R. Poli, Invalidità ed equipollenza, cit., p. 428 ss., di “<<fattispecie conforme agli scopi>> prevista dal legislatore accanto alla <<fattispecie conforme al modello>>” può discorrersi, ai fini di un giudizio di equipollenza tra le forme considerate, solo quando il vizio dell’atto si atteggi quale mancanza di un elemento non indispensabile (in questo caso infatti la realizzazione dello scopo può dirsi propria della fattispecie originaria, senza necessità di integrazione) e non anche quando esso consegua all’assenza di un requisito indispensabile, atteso che in tali ipotesi la conformità agli scopi deriva dall’accertamento dall’ingresso di un atto o di un fatto successivo “il cui verificarsi dà luogo a quelle conseguenze che, senza la nullità, sarebbero state ricollegate direttamente all’atto iniziale: si tratta, qui, di equipollenza di fattispecie, ma non di forme”.
([64]) Amplius, G. Conso, Il concetto, cit., p. 34 ss.; nello stesso senso, R. Poli, Invalidità ed equipollenza, cit., p. 402; G. Martinetto, Sub art. 156, loc. ult. cit.
([65]) Cfr. A. Proto Pisani, Violazione di norme processuali, sanatoria <<ex nunc>> o <<ex tunc>> e rimessione in termini, in Foro it., 1992, I, p. 1720; C. Punzi, Il processo civile, I, cit., p. 89; R. Caponi-A. Proto Pisani, Lineamenti di diritto processuale civile, Napoli, 2001, p. 166; C. Mandrioli-A. Carratta, Diritto processuale, I, cit., p. 502, secondo cui lo scopo obbiettivo dell’atto è la “funzione alla quale quell’atto deve assolvere nell’ambito della serie coordinata degli atti del processo”.
([66]) E. Redenti, Diritto processuale, I, cit., p. 231; C. A. Giovanardi, Sullo scopo, cit., p. 279; R. Poli, Invalidità ed equipollenza, cit., p. 403.
([67]) G. Tarzia, Profili, cit., p. 26 ss.
([68]) Tra le altre, e a titolo meramente esemplificativo, v. Trib. Palermo, 10 maggio 2016, in dejure.it, che ha applicato il principio di cui all’art. 156, comma 3, c.p.c. per conservare l’atto di riassunzione del processo depositato in modalità cartacea; nello stesso senso, più di recente, cfr. Trib. Venezia, 4 dicembre 2017, in Corr. giur., 2018, II, p. 257 (con nota di M. Visconti, La costituzione in giudizio analogica non è nulla in quanto è idonea a raggiungere lo scopo: chiose ad una decisione di merito, ivi, p. 258 ss.). V. anche Cass. 12 maggio 2016, n. 9772, che ha pronunciato, pur senza applicare – ratione temporis – il dettato del nuovo comma 1-bis dell’art. 16-bis d.l. n. 179/2012 (introdotto con il d.l. 27 giugno 2015, n. 83), sulla questione della validità del deposito digitale degli atti introduttivi del giudizio, invero alimentando anche alcuni dubbi di impostazione nella misura in cui apre alla regola della sanatoria oggettiva dopo avere però qualificato, a monte, il relativo vizio quale di mera irregolarità.
([69]) Trib. Roma, 13 luglio 2014, in dejure.it.
([70]) Trib. Vasto, 15 aprile 2016, in dejure.it, che per queste vie ha dichiarato finanche l’inesistenza del reclamo cautelare depositato con modalità cartacea.
([71]) Trib. Livorno, 25 luglio 2014, in questionegiustizia.it.
([72]) S. A. Cerrato, Azioni cautelari in corso di causa e processo telematico: un precedente “pericoloso”, in Giur. it., 2015, IV, p. 906.
([73]) Amplius, oltre agli altri già ricordati, cfr., anche per ulteriori riferimenti, V. Denti, Inesistenza degli atti processuali civili, in Nss. dig. it., Torino, 1962, VIII; 635 ss.; F. Auletta, Nullità e inesistenza degli atti processuali civili, Padova, 1999.
([74]) In questi termini, Trib. Torino, 16 gennaio 2015, in dejure.it.
([75]) Cass. n. 9772/2016, cit.
([76]) Cfr. art. 7, Circolare 23 ottobre 2015, disponibile in giustizia.it.
([77]) Contra, Trib. Roma, 13 luglio 2014, cit., che in questo senso parla di “mera causalità”.
([78]) Cass., sez. un., 18 aprile 2016, n. 7665; conforme Cass. 18 dicembre 2017, n. 30372. Nello stesso senso, tra le altre, anche Cons. Stato 5 febbraio 2018, n. 744.
([79]) Cfr. C. Mandrioli, Sulla nozione di <<irregolarità>> nel processo civile, in Riv. dir. civ., 1977, I, p. 516; R. Poli, Invalidità ed equipollenza, cit., p. 264.
([80]) Cfr. C. Mandrioli-A. Carratta, Diritto processuale, I, cit., p. 578.
([81]) C. Mandrioli, In tema di vizi c.d. <<non formali>>, cit., p. 325, nota 14; R. Oriani, Nullità, cit., p. 6; C. Besso-M. Lupano, Sub art. 156, cit., p. 697. Nello stesso senso, Cass., sez. un., 29 gennaio 2000, n. 16, che ha chiarito che l’irregolarità “è caratterizzata da una minima difformità rispetto al modello, che non pregiudica la validità dell’atto processuale (Cass. 26 agosto 1997 n. 8000), nè incide sui requisiti indispensabili per il raggiungimento dello scopo dell’atto (Cass. 6 maggio 1996 n. 4191)”.
([82]) Cfr. B. Ciaccia Cavallari, La rinnovazione nel processo di cognizione, Milano, 1981, p. 234 ss.
([83]) Cass. 31 agosto 2017, n. 20672.
([84]) Tra tutti, v. S. A. Villata, Contro il neo-formalismo informatico, in Riv. dir. proc., 2018, I, p. 155 ss., il quale sottolinea la necessità di tornare a valorizzare i principi generali del diritto processuale civile per ridurre al minimo le sentenze meramente processuali; cfr. anche G. Marinai, La Cassazione si cimenta sulla firma digitale: solo CAdES o anche PAdES? Istruzioni per l’uso, in questionegiustizia.it; A. Ricuperati, Atti processuali in formato elettronico senza estensione «p7m»: le Sezioni Unite chiamate a pronunciarsi sulla loro validità, in eclegal.it.
([85]) Ex multis, tra le più recenti, v. Cass. 5 maggio 2017, n. 10916.
([86]) In questi termini, L. Mortara, Commentario, II, cit., p. 806.
([87]) Cass. 9 luglio 2014, n. 15676.
([88]) Cass. 27 gennaio 2015, n. 1448.
([89]) Corte EDU, sez. II, 28 giugno 2005, Zednik c. Repubblica Ceca, in causa 74328/01; nello stesso senso, v. Corte EDU, sez. 1, 21 febbraio 2008, Koskina c. Grecia, in causa 2602/06; Corte EDU, sez. 1, 24 aprile 2008, Kemp c. Granducato di Lussemburgo, in causa 17140/05.
([90]) L. Mortara, Commentario, II, cit., p. 805 s.
([91]) L. Mortara, Commentario, II, loc. ult. cit.
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