Novità giurisprudenziali in materia di diritto processuale civile internazionale

Le Sezioni Unite (non) si pronunciano sul riconoscimento delle sentenze straniere in caso di mancata eccezione del difetto di giurisdizione del giudice straniero da parte del convenuto comparso ma saranno prossimamente chiamate a chiarire se possa rinunciarsi in appello e dopo l’udienza di precisazione delle conclusioni alla domanda (in materia di disegni e modelli comunitari) che europeo iure esercita una vis attractiva su altra domanda connessa, e così (ri)attribuire alla giurisdizione del giudice italiano la causa (precedentemente) “attratta”.

Di Marco Farina -

1.Cass. civ., sez. un., 26 giugno 2023, n. 18199 ha deciso (rigettandolo) un ricorso originariamente assegnato alla prima sezione e da questa rimesso Primo Presidente ai sensi dell’art. 374 c.p.c., comma 3, per la risoluzione della seguente questione: «se, nell’ambito di un giudizio di riconoscimento, in Italia, dell’efficacia di una sentenza straniera, la parte ivi convenuta, che si sia ritualmente costituita nel giudizio svoltosi innanzi al giudice a quo senza sollevare, in quella sede, alcuna eccezione circa la carenza della ‘competenza giurisdizionale’ di quest’ultimo, possa ancora formulare una siffatta eccezione innanzi al giudice della invocata delibazione oppure se la stessa possa essere sollevata di ufficio da quest’ultimo»[1].

Il principio di diritto infine enunciato dalle sezioni unite è il seguente: “ove, in base all’art. 42 legge n. 218 del 1995, trovi applicazione la Convenzione dell’Aja del 18 ottobre 1996, le condizioni sostanziali di riconoscimento delle misure di protezione dei minori disposte dalla giurisdizione straniera risultano fissate dall’art. 23 della detta Convenzione, e non dall’art. 64 legge n. 218 del 1995, mentre il procedimento del riconoscimento innanzi al giudice italiano resta disciplinato, come previsto dall’art. 24 della medesima Convenzione, dalla legge italiana”.

Come si noterà, non vi è corrispondenza tra la questione che ha occasionato la rimessione del ricorso alle sezioni unite ed il principio di diritto infine enunciato da queste ultime.

La ragione di tale mancata corrispondenza sta in ciò: a venire in rilievo per decidere sul riconoscimento in Italia di una sentenza resa nella Federazione Russa avente ad oggetto l’affidamento alla madre dei due figli minori e la disciplina del diritto di visita del padre non erano le condizioni di cui all’art. 64 L. 218/1995 ma, diversamente, quelle (prevalenti) dettate dalla Convenzione dell’Aja del 1996 sulla competenza, la legge applicabile, il riconoscimento, l’esecuzione e la cooperazione in materia di responsabilità genitoriale e di misure di protezione dei minori.

La Convenzione dell’Aja del 1996 è stata, infatti, ratificata oltre che dall’Italia (con L. 18 giugno 2015, n. 101), anche dalla Federazione Russa ove è in vigore dal 1° giugno 2013 ed il giudizio che ha dato luogo al provvedimento da riconoscere è iniziato nel 2018. La convenzione, pertanto, regolava proprio vigore sia la giurisdizione nel giudizio di merito, quanto i requisiti per il riconoscimento del provvedimento conclusivo in un altro stato contraente[2].

Non vi era, quindi, spazio per decidere – come invece richiesto nell’ordinanza di rimessione della prima sezione – sulla applicazione ed interpretazione, in particolare, del requisito della c.d. competenza indiretta di cui alla lett. a) dell’art. 64 della L. 218/1995 a tenore del quale la sentenza straniera è riconosciuta in Italia se il giudice che l’ha pronunciata poteva conoscere della causa secondo i principi sulla competenza giurisdizionale propri dell’ordinamento italiano[3].

Nel caso di specie, al contrario, il controllo in sede di riconoscimento della sentenza straniera della competenza giurisdizionale del giudice che l’ha pronunciata doveva essere diretto e riguardare propriamente il difetto di giurisdizione del giudice russo, in dipendenza di quanto previsto dall’art. 23, lett. a), della Convenzione dell’Aja del 1996 secondo cui deve essere negato il riconoscimento di un provvedimento in materia di responsabilità genitoriale e di protezione dei minori allorché esso sia stato adottato «da un’autorità la cui competenza non era fondata ai sensi delle disposizioni del capitolo II».

Per decidere sul ricorso proposto avverso l’ordinanza con cui la Corte d’Appello aveva rigettato – sul presupposto della incompetenza del giudice straniero, in quanto non coincidente con quello della residenza abituale del minore ai sensi di quanto previsto dall’art. 8 del Regolamento (CE) n. 2201/2003 (c.d. Bruxelles II-bis)[4] – la domanda di riconoscimento in Italia del provvedimento russo, proposta in via principale ai sensi dell’art. 67 L. 218/1995, doveva dunque farsi applicazione dell’art. 23, lett. a), della Convenzione dell’Aja del 1996, e così semplicemente correggere la motivazione del provvedimento impugnato in quanto il dispositivo di rigetto della domanda di riconoscimento era conforme al diritto.

Secondo le pertinenti norme della Convenzione dell’Aja del 1996, infatti, la competenza giurisdizionale per i provvedimenti relativi alla responsabilità genitoriale spetta ai giudici del luogo della residenza abituale del minore, che nel caso di specie era stato accertato trovarsi in Italia e non nelle Federazione Russa ove la decisione di affidamento alla mamma dei due figli minori era stata invece resa[5].

Ciò era, di per sé, sufficiente per negare il riconoscimento in Italia al provvedimento[6]. A nulla poteva rilevare, infatti, la circostanza che, nel giudizio svoltosi nello stato di origine, il padre dei due minori avesse mancato di eccepire il difetto di giurisdizione in ragione della collocazione in Italia della residenza abituale dei minori (come pure era certamente possibile, in ragione dell’applicabilità della Convenzione proprio vigore anche nella Federazione Russa, già al momento dell’inizio del giudizio di merito).

Tra le regole attributive di giurisdizione previste dalla Convenzione dell’Aja del 1996 non vi è, infatti, quella fondata sulla mera e semplice comparizione del convenuto e, quindi, la regola della c.d. accettazione tacita. Ciò che, come evidente, rendeva del tutto irrilevante interrogarsi sul quesito rimesso alle sezioni unite che, al di là della sua equivoca formulazione[7], poneva la questione relativa al se, in buona sostanza, nell’ambito del controllo della c.d. competenza indiretta rimessa al giudice italiano dall’art. 64, lett. a), L. 218/1995 questi possa o meno dare rilievo (anche) ad ipotesi di radicamento della giurisdizione su base (eminentemente) volontaristica, ossia in dipendenza del contegno delle parti.

Al quesito sembrerebbe, peraltro, doversi dare risposta positiva in quanto l’art. 4 della L. 218/1995 e l’art. 26, paragrafo 1, del Regolamento (UE) 1215/2012 (c.d. Regolamento Bruxelles I-bis) prevedono quale criterio attributivo della giurisdizione italiano quello fondato sulla comparizione del convenuto non accompagnata da una (tempestiva) eccezione di difetto di giurisdizione. Quindi, il giudice italiano chiamato a pronunciarsi sul riconoscimento di una sentenza straniera cui si applica l’art. 64 L. 218/1995, potrà ritenere sussistente il requisito sub lett. a) di tale ultima norma tutte le volte in cui il convenuto sia comparso innanzi al giudice straniero senza nulla eccepire con riferimento alla competenza giurisdizione di quest’ultimo.

Da tale conclusione si deve, verosimilmente, dissentire solo nei casi in cui (i) il convenuto dimostri che la mancata eccezione è dipesa non da una consapevole accettazione (tacita) della giurisdizione straniera ma, diversamente, dall’impossibilità di contestarla in quanto la stessa sussisterebbe, comunque, in base ad un criterio che risulti, tuttavia, esorbitante[8], ovvero (ii) nella specifica materia cui si riferisce il provvedimento estero da riconoscere le norme sulla giurisdizione (complessivamente) in vigore in Italia escludano, in ragione dell’indisponibilità del diritto, l’operare della accettazione tacita[9].

In ordine a tale (distinta) questione – ancorché (indirettamente) oggetto del terzo motivo di ricorso (così come interpretato e “riformulato” dalle stesse sezioni unite) – la sentenza in esame non ha ritenuto ricossero gli estremi per l’enunciazione di un principio di diritto ai sensi (non dell’art. 363 c.p.c., bensì) dell’art. 384, comma 1, c.p.c. trattandosi, in effetti, di decidere (per rigettarlo) un motivo di ricorso formulato, senz’altro, in relazione all’art. 360, n. 3), c.p.c., ovvero riguardante, proprio in quanto strettamente connesso al quesito rimesso alle sezioni unite, una questione di diritto di particolare importanza. Al contrario, anche in relazione al terzo motivo di ricorso le Sezioni Unite hanno (correttamente) proceduto al suo rigetto sulla base della (decisiva) osservazione per cui a venire in rilievo era qui la Convenzione dell’Aja del 1996 (e non l’articolo 64 L. 218/1995[10]), con l’ovvia ed ulteriore conseguenza per cui a rilevare era solo la regola di cui all’art. 23 di questa medesima convenzione (ossia, la regola che impone di non riconoscere il provvedimento se reso da un giudice diverso da quello della residenza abituale del minore).

2. Con ordinanza del 26 giugno 2023 n. 18202, la prima sezione della Cassazione ha rimesso gli atti al Primo Presidente affinché questi valuti, ai sensi dell’art. 374, comma 2, c.p.c. l’eventuale assegnazione alle sezioni unite della seguente questione, ritenuta di massima particolare importanza[11]: se, nel particolare caso di connessione tra due o più domande proposte da una stessa parte nei confronti dell’altra e tale per cui il difetto di giurisdizione in relazione alla domanda principale determini anche il difetto di giurisdizione su quella accessoria (che, invece, se proposta autonomamente apparterebbe alla giurisdizione del giudice italiano), la rinuncia alla domanda principale avvenuta con la memoria conclusionale di replica depositata in appello, ovvero il sopravvenire, rispetto alla udienza di precisazione delle conclusioni in grado di appello, di una circostanza idonea a rendere non più decidibile nel merito la domanda principale, possano determinare la (sopravvenuta) giurisdizione sulla domanda accessoria in virtù del venir veno della domanda principale e del suo vincolo di attrazione.

La vicenda che ha portato all’ordinanza di rimessione segnalata può essere così sinteticamente riassunta.

In primo grado veniva proposta da parte di una società con sede in Italia una domanda di accertamento negativo della contraffazione di un modello comunitario registrato a nome di una società con sede in Germania, nonché altra domanda di accertamento negativo della concorrenza sleale confusoria. Il tribunale dichiarava il difetto di giurisdizione in relazione ad entrambe le domande, in quanto entrambe devolute alla giurisdizione del tribunale dei disegni e modelli comunitari con sede in Germania, dove aveva sede la società convenuta. Ancorché, infatti, per la domanda di accertamento negativo della concorrenza sleale confusoria risultava in astratto applicabile il criterio speciale di giurisdizione in materia di illeciti extra-contrattuale di cui all’art. 7, n. 2), Regolamento (UE) 1215/2012[12], a parere del primo giudice doveva farsi applicazione di quanto deciso dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) nella sentenza del 13 luglio 2017, nella causa C‑433/16, Bayerische Motoren Werke AG. Con tale decisione – originata da un rinvio pregiudiziale della nostra Corte di Cassazione – si è, infatti, ritenuto che nell’ambito della competenza esclusiva del tribunale dei disegni e modelli comunitari dello stato membro in cui ha sede il convenuto per le azioni di cui all’art. 81, lett. b), Regolamento (CE) 6/2002 rientrano anche le domande di accertamento della concorrenza sleale connesse ad una azione di accertamento dell’insussistenza di una contraffazione di un disegno o di un modello comunitario, nei limiti in cui accogliere le prime domande presuppone l’accoglimento di tale azione di accertamento dell’insussistenza di una contraffazione espressamente inclusa tra quelle devolute alla competenza esclusiva del tribunale dei disegni e modelli comunitari dello stato membro in cui ha sede il convenuto[13].

Avverso la sentenza di primo grado proponeva appello la società attrice la quale, contestata la natura accessoria o, comunque, strettamente connessa della domanda di accertamento negativo della concorrenza sleale (e, quindi, l’applicabilità in relazione alla stessa del criterio di giurisdizione in materia di illeciti extra-contrattuali di cui all’art. 7, n. 2, Reg. 1215/2012), rinunciava alla domanda di accertamento negativo della contraffazione in sede di memoria di replica e, comunque, deduceva – successivamente alla scadenza per il termine per il deposito delle memorie conclusionali di replica – che il modello di cui era stato chiesto accertarsi la non contraffazione era stato dichiarato nullo dalla Commissione dei ricorsi dell’EUIPO. Entrambe le circostanze, a parere dell’attrice, giustificavano l’affermazione della giurisdizione italiana per la domanda di accertamento negativo della concorrenza sleale in quanto, oramai, non più attratta alla competenza (esclusiva) del tribunale dei modelli e disegni comunitari prevista per la domanda di accertamento negativo della contraffazione del modello che, a seguito della rinuncia e, comunque, della sopravvenuta dichiarazione di nullità del modello stesso, non richiedeva più una decisione di merito.

Confermata dal giudice di appello la sentenza di primo grado di declinatoria della giurisdizione del giudice italiano per entrambe le domande, la società attrice ha proposto ricorso per cassazione deducendo, con i primi due motivi di ricorso, che la Corte territoriale aveva errato nel non dare rilievo alla rinuncia alla domanda di accertamento negativo della contraffazione del modello – ancorché effettuata con la memoria conclusionale di replica – per farne conseguire l’applicazione del criterio di giurisdizione di cui all’art. 7, n. 2), reg. 1215/2012 in relazione alla domanda di accertamento negativo della concorrenza sleale (oramai non più attratta ad alcuna domanda devoluta alla competenza esclusiva del tribunale dei modelli e disegni comunitari) e che, in ogni caso, a tale medesima conclusione doveva giungersi in ragione del fatto (sopravvenuto) relativo alla (definitiva) dichiarazione di nullità del modello cui si riferiva la domanda di accertamento negativo della contraffazione.

L’ordinanza interlocutoria della SC ha ritenuto, tra l’altro, meritevole di rimessione al primo presidente le questioni di diritto poste dai primi due motivi[14].

Quanto al rilievo della rinuncia alla domanda di accertamento negativo della contraffazione del modello al fine di farne conseguire la giurisdizione sulla domanda di accertamento negativo della concorrenza sleale in dipendenza dell’applicazione rispetto ad essa del criterio di cui all’art. 7, n. 2), Reg. 1215/2012 (dapprima escluso in ragione della vis attractiva esercitata dall’azione di accertamento negativo della contraffazione del modello stesso), la prima sezione dubita, in particolare, non tanto della possibilità che una tale rinuncia sia ammissibile e possa produrre tale effetto quanto, piuttosto, della possibilità che ciò possa avvenire al momento del deposito delle memorie di replica in grado di appello.

Nell’ordinanza si rileva che se la rinuncia ad una domanda è, in astratto, ammissibile anche dopo la precisazione delle conclusioni in quanto volta a restringere, e non ad ampliare, il thema decidendum, nella fattispecie in esame alla rinuncia alla domanda di accertamento negativo della contraffazione conseguirebbe «un mutamento delle prospettazione attorea in punto di petitum e causa petendi, stante la nuova veste dell’originaria domanda di accertamento negativo della concorrenza sleale confusoria come nuova domanda autonoma di concorrenza sleale, per cessazione o sopravvenuto venir meno della suddetta connessione, e sopravvenuta asserita applicabilità, ai fini della giurisdizione, di altro Regolamento UE, necessitante del previo contraddittorio delle parti».

Anche con riferimento al rilievo da assegnare alla circostanza sopravvenuta (rispetto allo scadere del termine per il deposito delle memorie di replica in appello) data dalla dichiarazione di nullità del modello comunitario cui si riferisce la domanda di accertamento negativo della contraffazione (che, come tale, eserciterebbe una vis attractiva rispetto alla domanda di accertamento negativo della concorrenza sleale confusoria), il dubbio della prima sezione riguarda la tempistica in cui tale circostanza si è verificata o, comunque, è stata dedotta, piuttosto che gli effetti che da essa derivano sulla domanda di accertamento negativo della contraffazione e, di conseguenza, su quella di accertamento negativo della concorrenza sleale[15].

In ordine a tale seconda questione, peraltro, sembra di potersi osservare che, fatto salvo quanto rilevato in nota in merito agli effetti che la nullità del modello produce sulla formula decisoria da riservare alla domanda di accertamento negativo della contraffazione del modello stesso, che l’art. 8 L. 218/1995 (destinato a venir in rilievo, quale norma processuale del foro, ancorché si tratti di questione relativa alla giurisdizione infra-comunitaria) non discrimina tra fatti e norme sopravvenute in grado di attribuire la giurisdizione (ed ai quali si dà espressamente rilievo, in apparente deroga al principio della perpetuatio iurisdictionis) a seconda che gli stessi si producano e siano dedotti in un dato momento del processo. Nella fattispecie in esame, dunque, non sembrerebbe d’ostacolo all’applicazione della regola sancita espressamente dall’art. 8 L. 218/1995 (e ritenuta, peraltro, implicita anche nel disposto dell’art. 5 c.p.c., come pure evidenziato nell’ordinanza interlocutoria della prima sezione qui segnalata) il fatto che la nullità sia sopravvenuta rispetto alla stessa definizione del giudizio di primo grado con declinatoria di difetto di giurisdizione ed allorché in appello siano anche spirati i termini per il deposito delle memorie conclusionali di replica. Piuttosto, e come anticipato, occorrerà interrogarsi in ordine al se la nullità sopravvenuta del titolo di cui è stato chiesto accertarsi la non contraffazione possa davvero qualificarsi, in ragione degli effetti prodotti su tale domanda e della (eventuale) cessazione della sua vis attractiva, alla stregua di un fatto sopravvenuto che determina la giurisdizione[16].

In relazione agli effetti (attributivi) prodotti sulla giurisdizione sulla domanda di accertamento negativo della concorrenza sleale della rinuncia alla domanda di accertamento negativo della contraffazione deve, a nostro avviso, rilevarsi che il profilo critico segnalato nell’ordinanza – ossia il derivare da tale rinuncia effetti negativi e non, invece, esclusivamente positivi per la parte convenuta[17] tali da giustificare il previo contraddittorio[18] – non imponga, di per sé, di addivenire alla rigorosa conclusione di negare qualsiasi effetto ad una rinuncia tardiva; il contraddittorio, infatti, potrà essere recuperato servendosi di quanto previsto dall’art. 101 c.p.c. e, quindi, mediante la rimessione della causa sul ruolo nei casi (come quello di specie) in cui la rinuncia alla domanda sia stata manifestata in sede di memoria conclusionale di replica.

Piuttosto, a noi sembra che, nel caso di specie, a potere essere messa seriamente in dubbio sia la stessa vis attractiva della domanda di accertamento negativo della contraffazione rispetto alla domanda di accertamento negativo della concorrenza sleale confusoria. Nella sentenza Bayerische Motoren Werke AG della Corte di Giustizia, l’estensione della regola della inapplicabilità del foro speciale in materia di illeciti dolosi o colposi di cui all’art. 7, n. 2), del Reg. 1215/2012 alle domande connesse con quelle espressamente previste dall’art. 81 del Reg. 6/2002 è significativamente limitata dalla precisazione – contenuta anche nel dispositivo – secondo cui la domanda di accertamento della concorrenza sleale è attratta alla competenza esclusiva del tribunale dei disegni e modelli comunitari dello Stato membro in cui ha sede il convenuto prevista per le domande di accertamento negativo della contraffazione a condizione che l’accoglimento della prima presupponga l’accoglimento della seconda.

Nel caso deciso dalla sentenza Bayerische Motoren Werke AG della Corte di Giustizia, infatti, la domanda di accertamento positivo della concorrenza sleale era stata proposta dalla stessa attrice che aveva agito per ottenere l’accertamento negativo della contraffazione, essendosi addebitato alla società automobilistica tedesca un comportamento violativo delle regole della correttezza professionale per aver impedito alla società italiana di produrre e commercializzare i propri prodotti assumendone la natura contraffattiva rispetto ai modelli e disegni di sua titolarità. In questo caso lo stretto collegamento tra le due domande tale da giustificare, per preservare l’effetto utile della competenza esclusiva prevista dal Regolamento (CE) n. 6/2002, la vis attractiva della domanda di accertamento negativo della contraffazione era evidente, atteso che di concorrenza sleale del titolare del disegno e del modello si poteva parlare solo se si fosse esclusa la contraffazione (e, quindi, accolta la domanda di accertamento negativo della stessa).

Nel caso oggetto dell’ordinanza interlocutoria, al contrario, le due domande non si pongono in questo stretto rapporto di connessione tale per cui l’accoglimento della domanda di accertamento negativo della concorrenza sleale presuppone l’accoglimento dell’azione di accertamento dell’insussistenza di una contraffazione; l’accoglimento della domanda di accertamento negativo della concorrenza sleale confusoria può darsi, infatti, anche quando sia stata rigettata la domanda di accertamento negativo della contraffazione, in quanto diversi sono i presupposti della tutela reale riconnessa all’accertamento di un’oggettiva violazione della privativa rispetto ai presupposti della tutela risarcitoria riconnessa alla violazione di uno dei precetti di cui all’art. 2598 c.c.[19].

[1] Sull’ordinanza di rimessione v. E. D’Alessandro, Eccezione di difetto di giurisdizione nel procedimento di riconoscimento delle sentenze straniere. A proposito di Cass. n. 34969/2022, in https://aldricus.giustizia.it/blog/, ove è riassunta la relazione svolta dalla Autrice  in occasione dell’incontro di studio “Eccezione di difetto di giurisdizione nel procedimento di riconoscimento di sentenze straniere. A proposito Cass. 34969/22organizzato dalla Struttura di formazione decentrata presso la Corte di Cassazione della Scuola Superiore della Magistratura e tenutosi a Roma il 31 maggio 2023. La registrazione  dell’evento è disponibile al seguente indirizzo: https://scuolamagistraturait-my.sharepoint.com/personal/cassazione_scuolamagistratura_it/_layouts/15/stream.aspx?id=%2Fpersonal%2Fcassazione%5Fscuolamagistratura%5Fit%2FDocuments%2FSEMINARI%2F2023%5F05%5F31%20Dialogos%20sulla%20giustizia%20civile%2E%20Eccezione%20di%20difetto%20di%20giurisdizione%20nel%20procedimento%20di%20riconoscimento%20di%20sentenze%20straniere%2FDialogos%20sulla%20giustizia%20civile%2E%20Eccezione%20di%20difetto%20di%20giurisdizione%20nel%20procedimento%20di%20riconoscimento%20di%20sentenze%20straniere%20A%20proposito%20di%20Cass%2E%2034%2D20230531%5F144527%2DRegistrazione%20della%20riunione%2Emp4&ga=1 Sempre sulla ordinanza di rimessione v. anche G. Ghapios, Sul difetto di competenza giurisdizionale del giudice a quo ai fini dell’esecuzione in Italia di un provvedimento straniero, in https://aldricus.giustizia.it/blog/, nonché M.V. Minopoli, Rimessa alle sezioni unite la questione della rilevabilità innanzi al giudice della delibazione del difetto di giurisdizione del giudice a quo, in giustiziacivile.com.

[2] Non è, dunque, del tutto corretto dire – come fanno le sezioni unite (anche nel principio di diritto infine enunciato) – che a chiamare in vigore le norme della Convenzione dell’Aja del 1996 era, nel caso di specie, il disposto di cui all’art. 42 della L. 218/1995. La non correttezza del richiamo non sta nel fatto che l’art. 42 della L. 218/1995 richiami (non la Convenzione dell’Aja del 1996, bensì) la Convenzione  dell’Aja  del  5  ottobre  1961,  sulla competenza delle autorità e  sulla  legge  applicabile in materia di protezione dei minori (resa esecutiva in Italia con L. 24 ottobre 1980, n. 742) – potendo convenirsi con il rilievo (contenuto nella sentenza delle sezioni unite) per cui tale riferimento deve oggi intendersi alla Convenzione del 1996 che ne ha preso il posto (cfr. art. 51 della Convenzione del 1996) – quanto, piuttosto, nella circostanza per cui la Convenzione del 1996 era nel caso di specie destinata ad applicarsi direttamente, ossia proprio vigore in quanto ratificata, vigente ed applicabile (tanto al tempo dell’introduzione del giudizio, quanto al tempo della domanda di riconoscimento) nei due stati contraenti coinvolti (Italia e Federazione Russa). L’art. 42 L. 218/1995 – utilizzando lo stesso meccanismo di cui all’art. 3, comma 2, L. 218/1995 con riferimento alla Convenzione di Bruxelles del 1968 (e anche in questo caso si ritiene, oramai, che il riferimento vada fatto alla normativa europea uniforme in punto di giurisdizione in materia civile e commerciale che la convenzione del 1968 ha sostituito, ossia e da ultimo il Regolamento (UE) n. 1215/2012) – serve ad estendere le disposizioni della convenzione al di là della loro sfera territoriale di applicazione e, dunque, anche nei rapporti tra l’Italia ed uno Stato non vincolato alla convenzione stessa.

[3] In sintesi, il requisito della c.d. competenza indiretta di cui alla lett. a) dell’art. 64 della L. 218/1995 non ha nulla a che vedere con la competenza giurisdizionale del giudice straniero così come determinata dalla lex fori. Rispetto al requisito in esame, non è dunque esatto affermare che esso consenta di dedurre in sede di riconoscimento il difetto di giurisdizione del giudice straniero che ha emesso la sentenza (e che, di conseguenza, tale attività sia preclusa se si sia mancato di rilevare il difetto di giurisdizione del giudice straniero nel giudizio chiusosi con la sentenza riconoscenda). Diversamente, il controllo affidato al giudice italiano nell’ambito del riconoscimento di sentenze ai sensi dell’art. 64, lett. a), L. 218/1995 consiste nel verificare che «ricorra rispetto allo Stato straniero un criterio che, se sussistesse rispetto allo Stato italiano, legittimerebbe l’esercizio della giurisdizione da parte di questo» (così, efficacemente, G. Morelli, Il diritto processuale civile internazionale (1938), ristampa anastatica, Napoli, 2021, 327, ovviamente con riferimento all’art. 941, n. 1, del codice di procedura civile del 1865). Lo stesso concetto si può anche esprimere affermando che il giudice italiano chiamato a valutare la sussistenza del requisito di cui all’art. 64, lett. a), L. 218/1995 «deve verificare se il giudice straniero sarebbe stato munito di giurisdizione qualora, ipoteticamente, avesse dovuto applicare la normativa dello Stato richiesto del riconoscimento in tema di giurisdizione» (così E. D’Alessandro, op. ult.cit.), oppure che il «giudice italiano dovrà effettivamente controllare se il giudice straniero avrebbe potuto riconoscersi munito di giurisdizione ove avesse dovuto fare applicazione dei criteri della legge processuale italiana» (così C. Consolo, Profili della litispendenza internazionale, in Nuovi problemi di diritto processuale civile internazionale, Padova, 2002,182, nt. 116).

[4] Normativa di per sé, evidentemente, inapplicabile quanto ai rapporti tra l’Italia e la Federazione Russa.

[5] Ai sensi dell’art. 25 della Convenzione dell’Aja del 1996 «L’autorità dello Stato richiesto è vincolata dalle constatazioni di fatto sulle quali l’autorità dello Stato che ha adottato la misura ha fondato la propria competenza». Il riconoscimento non potrà, dunque, negarsi sulla base, ad es., di una contestazione di quanto ritenuto dal giudice straniero in ordine alla localizzazione nel proprio stato della residenza abituale dei minori tale da giustificare l’esercizio della sua giurisdizione secondo le pertinenti norme della convenzione medesima. Nel caso di specie, tuttavia, non si è in grado di sapere se il giudice russo avesse o meno fatto applicazione della convenzione e, quindi, giustificato l’esercizio della sua giurisdizione in quanto giudice dello stato in cui risultava fissata la residenza abituale dei minori. La questione, però, è stimata irrilevante nella pronuncia in esame in quanto con il ricorso per cassazione proposto dalla madre dei due minori si era mancato di impugnare con specifico motivo l’ordinanza della Corte territoriale che aveva negato il riconoscimento ritenendo che il giudice russo non avesse competenza in quanto era stato accertato – nello stesso giudizio per il riconoscimento in via principale della sentenza – che la residenza abituale dei minori era sempre rimasta fissata in Italia. Secondo quanto rilevato nella sentenza delle sezioni unite, dunque, la parte che aveva visto respinta la sua domanda di riconoscimento in Italia del provvedimento straniero (anche) in virtù di questo (autonomo e rinnovato) accertamento di fatto avrebbe dovuto impugnare l’ordinanza della Corte territoriale (non per censurare, ovviamente, l’accertamento di fatto in sé ma) per far valere la (eventuale) violazione dell’art. 25 della Convenzione dell’Aja del 1996 e, quindi, per dedurre l’errore in cui era incorso il giudice di merito nello svolgere un’attività che gli era invece preclusa.

[6] E dell’esecuzione, beninteso. L’art. 26 della Convenzione dell’Aja del 1996 prevede, infatti, che per dare esecuzione ad una decisione resa in altro Stato contraente è necessario ottenere nello stato contraente di esecuzione la dichiarazione di exequatur, la quale potrà essere negata solo allorché ricorrano i motivi ostativi al riconoscimento di cui all’art. 23, paragrafo 2, della convenzione stessa.

[7] In quanto formulato avuto riguardo ad una (inesistente) possibilità di proporre in sede di riconoscimento una (vera a propria) eccezione di difetto di giurisdizione del giudice straniero (v. la precedente nota 2).

[8] In questo senso v. C. Consolo, op. ult. cit., 182, nt. 116, ove il rilievo che la mancata eccezione non rileverà quale accettazione tacita ai fini del controllo della competenza indiretta le volte in cui essa, se proposta, si sarebbe rivelata inutile perché infondata. Rimane da precisare che l’infondatezza di una (tempestiva) eccezione di difetto di giurisdizione (ritenuta, invece, necessaria dalla lex fori al fine di evitare il radicamento della giurisdizione per sua accettazione tacita, secondo quanto, ad es., da noi previsto dall’art. 4 L. 218/1995) potrà rilevare solo qualora il convenuto nel giudizio di riconoscimento in via principale alleghi e dimostri che quell’infondatezza dipendeva dal fatto che – ferma la possibilità di contestare con successo tutti i criteri di competenza previsti dalla lex fori che trovano corrispondenza nelle norme italiane – rimaneva, tuttavia, un unico ed ultimo criterio idoneo a radicare la giurisdizione del giudice straniero (e così a rendere infondata, appunto, l’eventuale eccezione di difetto di giurisdizione) che non trova, invece, alcuna corrispondenza nelle norme italiane. L’alternativa a quanto si è venuti sino ad ora dicendo sarebbe quella di ritenere che il convenuto nel giudizio straniero che si trovi in una situazione di questo tipo decida di rimanere contumace nel giudizio a quo così da non innescare in alcun modo il meccanismo di tacita accettazione della giurisdizione eventualmente previsto dalla lex fori e da conservare una più agevole posizione difensiva nel giudizio per il riconoscimento in via principale della sentenza straniera (perché in tal caso spetterà all’attore l’onere di provare che il giudice straniero ha esercitato la giurisdizione facendo applicazione di un criterio proprio anche dell’ordinamento italiano).

[9] Ad es., nel caso in cui venga in rilievo un provvedimento relativo alla responsabilità genitoriale reso in uno stato non vincolato alla Convenzione dell’Aja del 1996 (né, ovviamente, vincolato in quanto stato membro all’applicazione del Reg. UE 1111/2019, c.d. Bruxelles II-ter), poiché in questa materia le norme in vigore in Italia per la determinazione della competenza giurisdizionale non consentono di attribuire rilievo all’accettazione tacita (e ciò in ragione dell’applicazione universale della convenzione stessa, per effetto del richiamo ad essa contenuto nell’art. 42 L. 218/1995) si dovrà escludere che la mancata eccezione di difetto di giurisdizione nel giudizio a quo implichi il radicamento della giurisdizione secondo un criterio proprio (anche) dell’ordinamento italiano. Non pare, invece, che dal fatto che l’art. 4, comma 2, L. 218/1995 ammetta la deroga della giurisdizione italiana solo allorché vengano in rilievo diritti disponibili debba farsi derivare la conclusione per cui l’accettazione tacita della giurisdizione che si sia verificata nel giudizio estero prevista dalla lex fori per effetto della mancata eccezione di difetto di giurisdizione rileverà – ai fini del controllo di cui alla lett. a) dell’art. 64 L. 218/1995 – solo se la causa verta su diritti disponibili. A noi sembra, infatti, che in tal caso occorra guardare a quanto previsto dal primo comma dell’art. 4 e dall’art. 11 L. 218/1995 i quali, da un lato, non ricollegano alla disponibilità del diritto l’operare del meccanismo di accettazione tacita fondata sulla mera comparizione in giudizio e, dall’altro, non attribuiscono, comunque, al giudice il potere di rivelare ufficiosamente il difetto di giurisdizione qualora il convenuto sia costituito (e non abbia contestato la giurisdizione) se la causa verta su diritti indisponibili.

[10] Le Sezioni Unite precisano opportunamente che, in caso di riconoscimento in Italia di una sentenza straniera rispetto alla quale sia applicabile la Convenzione dell’Aja del 1996, la «fattispecie resta così regolata, in funzione di disciplina sostanziale del riconoscimento, dall’art. 23 della Convenzione, mentre trova applicazione la legge italiana soltanto per ciò che riguarda la procedura, in particolare, in base alla legge applicabile ratione temporis, il rito sommario di cognizione (a decorrere dal 28 febbraio 2023, il rito è quello semplificato di cognizione), con competenza della corte d’appello del luogo di attuazione del provvedimento straniero (art. 30 d. lgs. n. 150 del 2011, cui rinvia l’art. 67, comma 1-bis, della legge n. 218)». Il rilievo è esatto, ancorché sono necessarie due brevi puntualizzazioni. La prima è che, per i giudizi instaurati a decorrere dal 1 marzo 2023 (incluso), il rito semplificato di cognizione troverà applicazione in virtù di quanto ora direttamente previsto dal nuovo articolo 30-bis, comma quinto, D.lgs. 150/2011 (introdotto dal D.lgs. 149/2022) a tenore del quale «si svolgono con il rito semplificato di cognizione di cui agli articoli 281-decies e seguenti del codice di procedura civile i procedimenti volti ad ottenere la dichiarazione di esecutività di decisioni straniere o in via principale l’accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento, o il diniego di tale riconoscimento, allorché l’efficacia delle medesime decisioni si fondi su una convenzione internazionale, fatte salve diverse disposizioni previste dalla convenzione applicabile» (sulla disposizione si v., se si vuole, M. Farina, I procedimenti per il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni straniere nella recente riforma del processo civile in Italia, in Riv.dir.int.priv.proc., 2023, 65 e ss.). La seconda è che non sempre, però, la SC ha fatto applicazione di questo corretto principio. Ad es., Cass. civ., sez. 1, 2 febbraio 2023, n. 3199 ha confermato la decisione di accoglimento della domanda di riconoscimento in via principale di una decisione resa – in materia civile e commerciale – da un giudice della Federazione Russa, ritenendo conforme a diritto l’aver la Corte territoriale attribuito rilievo decisivo alla mancata proposizione dell’eccezione di difetto di giurisdizione nel giudizio a quo in quanto circostanza idonea a radicare la giurisdizione del giudice straniero sul presupposto della sua tacita accettazione (e, quindi, in dipendenza di un criterio comune al giudice straniero ed a quello italiano). L’errore nella decisione sta, però, nel fatto che a venire in rilievo in quel caso era la Convenzione tra la Repubblica italiana e l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche sull’assistenza giudiziaria in materia civile, firmata a Roma il 25 gennaio 1979 e resa esecutiva in Italia con L. n. 766 del 1985 il cui articolo 19 dispone che «ciascuna Parte contraente riconosce le decisioni giudiziarie definitive in materia civile, nonché le sentenze penali per la parte relativa al risarcimento dei danni conseguenti ad un reato pronunciate sul territorio dell’altra Parte contraente da tribunali competenti ai sensi dell’art. 24 della presente Convenzione». Pertanto, una sentenza resa in uno dei due stati senza che ricorra uno dei criteri di cui all’art. 24 non può, per tale ragione, essere riconosciuta nell’altro. Poiché l’articolo 24 di tale convenzione non include, tra i criteri attributivi di giurisdizione, quello della accettazione tacita fondato sulla mera comparizione del convenuto, tale contegno doveva ritenersi in quel caso del tutto irrilevante. A tal proposito, in effetti, l’ulteriore e più grave errore compiuto in quel caso dalla SC è stato proprio quello di equivocare la portata dell’art. 23 della convenzione in questione – a tenore del quale «la procedura per il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni giudiziarie è regolata dalla legislazione della Parte contraente richiesta, ove la presente Convenzione non disponga diversamente», intendendo tale disposizione nel senso per cui essa consentirebbe l’applicazione delle norme sulle condizioni del riconoscimento in vigore in Italia non incompatibili con quelle della convenzione (norme tra cui rientrerebbe l’art. 18 della Convenzione di Bruxelles del 1968 sulla proroga di giurisdizione per sua tacita accettazione). Come giustamente rilevato nella sentenza in esame, il richiamo alla normativa interna quanto alla procedura per il riconoscimento e l’esecuzione non può riguardare le condizioni per il riconoscimento e l’esecuzione (che sono e restano solo quelle previste dalla convenzione stessa) ma esclusivamente le regole di procedura da seguire per il giudizio avente ad oggetto la domanda di riconoscimento in via principale o di dichiarazione di esecutività.

[11] Ed in ordine alla quale non risultano, in effetti, precedenti specifici nella giurisprudenza di legittimità.

[12] L’applicabilità anche alle azioni di accertamento negativo del foro per le liti extra-contrattuali di cui all’art. 7, n. 2), Reg. 1215/2012 (prima, art. 5, n. 3, Reg. 44/2001) risale alla sentenza della Corte di Giustizia, 25 ottobre 2012, in causa C‑133/11, Folien Fischer.

[13] Secondo quanto rilevato nella sentenza della Corte di Giustizia citata nel testo, la stretta connessione tra queste due domande – di cui una espressamente devoluta alla competenza esclusiva del tribunale dei disegni e dei modelli, con esclusione del criterio di competenza speciale in materia di illecito extra-contrattuale di cui (oggi) all’art. 7, n. 2, Reg. 1215/2012 – impone di considerare attratta alla medesima competenza anche la domanda (accessoria e consequenziale) di accertamento della concorrenza sleale, di per sé estranea all’ambito di applicazione dell’art. 81 del Regolamento 6/2022 e per la quale sarebbe in astratto applicabile l’art. 7, n. 2, Reg. 1215/2012; e ciò per preservare l’effetto utile dell’art. 79, paragrafo 3, lett. a), del Reg. 6/2022 che esclude proprio l’applicazione del foro per le liti extra-contrattuali.

[14] L’ordinanza interlocutoria ha rimesso al presidente anche un’altra (rilevante) questione, ossia quella relativa al se l’aver il giudice mancato di fissare l’udienza di discussione orale a fronte della rituale richiesta della parte configuri un vizio della sentenza che ne importa nullità a prescindere dalla dimostrazione dello specifico pregiudizio eventualmente subito dalla parte per non aver potuto discutere oralmente la causa. Di tale specifica ed ulteriore questione, però, non ci occuperemo in questa sede, in quanto la sua autonomia rispetto alle tematiche di diritto processuale civile internazionale interessate da questa segnalazione e la sua importanza consigliano di rinviare ad altra sede il suo esame. Ci limitiamo qui a segnalare che la questione assume evidentemente carattere pregiudiziale rispetto agli altri due motivi relativi alla questione di giurisdizione, nel senso che la sua soluzione nel senso, diciamo così, meno rigoroso (ossia attribuendo immediato ed incondizionato rilievo invalidante alla mancata discussione orale della causa), nel determinare la nullità della sentenza, ne importerà per ciò solo la cassazione con rinvio. Il secondo, veloce rilievo è il seguente: nel caso di specie, a ben vedere, il motivo formulato ai sensi dell’art. 360, n. 4), c.p.c. doveva ritenersi fondato anche nella prospettiva più rigorosa della necessaria offensività della nullità processuale formale e del pregiudizio effettivo che da essa è conseguito ai danni della parte; la ricorrente ha, infatti, dedotto e dimostrato che in sede di discussione orale si sarebbe potuto contraddire utilmente ed efficacemente tanto sulle conseguenze della rinuncia alla domanda principale, quanto sugli effetti della sopravvenuta dichiarazione di nullità del titolo di proprietà industriale di cui era stato accertarsi la non contraffazione.

[15] A rigore, infatti, potrebbe anche ritenersi che la sopravvenuta nullità del modello comunitario, dedotta nel corso di un giudizio avente ad oggetto una domanda di accertamento negativo della contraffazione del modello stesso, giustifichi, in realtà, un accoglimento nel merito di tale domanda, specularmente a quanto accadrebbe nel caso in cui una eguale dichiarazione di nullità di un titolo di proprietà industriale e/o intellettuale sopravvenisse nel corso di un giudizio avente ad oggetto una domanda di accertamento positivo della contraffazione (rispetto alla quale la nullità del titolo asseritamente contraffatto funziona come fatto impeditivo). Se, dunque, questo fosse l’effetto (di merito) della nullità del titolo di cui è stato chiesto accertarsi la non contraffazione, ad essa non sembrerebbe potersi attribuire il rilievo auspicato dal ricorrente ai fini di una sopravvenuta improcedibilità della domanda di accertamento negativo della contraffazione o di una sua chiusura in rito per sopravvenuto difetto di interesse. In effetti, solo in tali ultimi casi la domanda di accertamento negativo della contraffazione potrebbe dirsi sottratta al dovere decisorio di merito del giudice, e così inidonea ad esplicare la forza attrattiva sulla domanda di accertamento negativo della concorrenza sleale (ancorché, invero, pure in tali casi si potrebbe dubitare del fatto che all’impedimento di rito dato dal sopravvenire difetto di interesse ad agire possa darsi prevalenza rispetto ad altra questione di rito data dal difetto di giurisdizione internazionale, peraltro nel caso già dichiarato in primo grado).

[16] Dovendo, in effetti, convenirsi con quanto osservato nell’ordinanza interlocutoria secondo cui non si avrebbe qui evidentemente a che fare con uno ius superveniens.

[17] Che vedrebbe ora decidibile nel merito una domanda (quella di accertamento negativo della concorrenza sleale) in relazione alla quale era stato rilevato un impedimento di rito.

[18] Non sembra, invece, che possa convenirsi con quanto rilevato nell’ordinanza interlocutoria circa la capacità della rinuncia alla domanda di accertamento negativo della contraffazione di innovare il petitum e la causa petendi dell’azione di accertamento negativo della concorrenza sleale. A seguito della rinuncia alla domanda di accertamento negativo della contraffazione, infatti, non muta né il petitum, né la causa petendi dell’azione di accertamento negativo della concorrenza sleale. Ciò che muta è, esclusivamente, il fatto che, venuta meno la domanda di accertamento negativo della contraffazione e la sua vis attractiva, la giurisdizione sulla domanda di accertamento negativo della concorrenza sleale dovrà essere autonomamente valutata facendo riferimento alle norme che sarebbero state in astratto già applicabili (ossia, all’art. 7, n. 2, del Reg. 1215/2012).

[19] Insomma, può benissimo darsi l’ipotesi che taluno violi la privativa altrui producendo un bene identico o simile a quello protetto dal disegno o modello, senza però porre in essere una condotta di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 c.c. perché, ad es., manchi il presupposto dell’esistenza di un rapporto concorrenziale tra le parti, ovvero non ricorrano gli estremi di una condotta parassitaria o l’effettiva confusione ingenerata nel pubblico.