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Tribunale di Ragusa. Divergenze sull’amministrazione nella societa’ in accomandita semplice. Il caso dell’unico socio accomandatario.
Di Massimo Cortese -
TRIBUNALE RAGUSA, G.U. Montalto, 25 maggio 2016 (ord.), *** (Avv.Borrometi) c. *** (Avv. Santangeli).
TRIBUNALE RAGUSA, Giud. est. Donzella, 10 febbraio 2017 (ord.), *** (Avv.Borrometi) c. *** (Avv. Santangeli).
Il caso
Le pronunce in commento riguardano l’individuazione dei rimedi avverso le ipotesi di cattiva amministrazione di una società in accomandita semplice da parte dell’unico socio accomandatario.
T.M., socio accomandante della C. di T.S. & C. s.a.s. per il 25%, vorrebbe ottenere tutela urgente ex art. 700 c.p.c. nei confronti della conduzione amministrativa di T.S., socio accomandatario per il 75%, ritenendo sussistenti i presupposti di cui all’art 2259 c.c.[1].
L’ammissibilità di una tale soluzione viene dedotta come consentita dall’art. 2323 c.c., il quale prevede per il caso in cui vengano a mancare tutti gli accomandatari la possibilità di nomina per la durata massima di sei mesi di “un amministratore provvisorio per il compimento degli atti di ordinaria amministrazione”.
Essa, però, si scontra con le peculiarità della società in accomandita, la cui specifica disciplina prevede anche, all’art. 2318, II co., c.c., che: << L’amministrazione della società può essere conferita soltanto a soci accomandatari >>.
Le valutazioni del Tribunale hanno, quindi, avuto per oggetto il rapporto tra un rimedio previsto in via generale a tutela dei soci quale la revoca giudiziale dell’amministratore e la struttura predefinita della s.a.s. in uno a ciò che essa esprime.
Ciò sul punto fermo, ribadito già dalla prima ordinanza, della distinzione tra l’amministrazione e la partecipazione alla società, ovvero della conseguente irrilevanza della revoca dell’amministratore ai fini della conservazione della qualità di socio.
Essa è ben chiara al Tribunale, il quale circoscrive correttamente l’accertamento cautelare all’ipotesi di sua strumentalità all’istituto della revoca giudiziale di cui all’art. 2259, III co., c.c., ovvero ad una situazione nella quale, così come nel corso del relativo giudizio di merito, il socio unico accomandatario resterebbe comunque tale.
Nel caso di specie egli manterrebbe, anzi, una partecipazione di maggioranza assoluta, con quel che ne consegue in termini di influenza sulle scelte future della s.a.s., compresa l’eventuale scelta dell’amministratore e di dipendenza della sua responsabilità illimitata da scelte gestionali di soggetti non esposti personalmente in maniera analoga.
Questo il contesto nel quale si muovono le valutazioni del Tribunale.. che, tanto in prima quanto in seconda istanza, escludono in maniera netta la compatibilità “de facto” di un tale rimedio con il caso della s.a.s. a socio accomandatario unico, visto il disposto dell’art. 2318, II co., c.c. ed anche la ritenuta impossibilità di applicazione analogica dell’art. 2323 c.c..
In ciò non vengono nascoste le problematiche conseguenti alle difficoltà di estensione di un rimedio previsto per le società semplici a quella in accomandita, pur alla fine pervenendo ad un modello di tutela comunque chiaro e ben definito.
L’ipotesi della cattiva amministrazione nella società in accomandita semplice con unico socio accomandatario.
In una società in accomandita semplice, così come in una qualsiasi società di persone o in un qualsiasi esercizio in forma associata di attività imprenditoriale può verificarsi un conflitto tra il momento amministrativo e l’interesse dei soci o, comunque, una considerazione, eventualmente anche oggettiva, dell’amministrazione in termini negativi da parte dei soci.
Tanto la dottrina quanto la giurisprudenza concordano, ai fini di tutela dei soci, nel ritenere il rimedio della revoca dell’amministratore per giusta causa[2], sia nell’ipotesi di cui al primo comma dell’art. 2259 c.c., sia in quella giudiziale di cui al terzo, estensibile anche alla società in accomandita.
Parimenti, però, e su ciò si basa il decisum in commento, si ritiene che tale revoca non incida sulla qualità di socio.
Nel caso di specie, quindi, la revoca dell’amministratore non privandolo della qualità di socio accomandatario, assoggetterebbe la responsabilità illimitata che caratterizza tale figure ad una sorta di amministrazione giudiziale o comunque di terzi anche in immediato contrasto anche con il disposto di cui all’art. 2318, II, c.c..
Un’ipotesi di certo nei fatti in contrasto con la clausola compatibilità di cui all’art. 2315 c.c. per l’utilizzo di norma prevista nello specifico per altro tipo sociale.
In ciò il Tribunale, tanto in primo quanto in secondo grado, si attesta sull’orientamento giurisprudenziale prevalente[3], il quale non ritiene ammissibile la sostituzione dell’amministratore in difetto di una condizione di pluralità di soci accomandatari[4], ovvero ove la presupposta revoca dell’amministratore non precluda de facto il rispetto del precetto di cui all’art. 2318, II co., c.c..
L’esigenza di intervenire giudizialmente su situazioni di cattiva amministrazione o, comunque, di conflitto tra uno o più soci e l’amministratore unico socio accomandatario non viene, pertanto, tradotta in una legittimazione alla revoca di quest’ultimo.
La conclusione, confermata anche in sede di reclamo, è, pertanto, per l’esclusione di una tale sostituzione nel caso in cui vi sia un solo socio accomandatario, ovvero, più latamente, per l’esclusione dell’eventualità di amministratori non accomandatari.
L’unico rimedio avverso le ipotesi di “mala gestio” resta, quindi, quello di cui all’art. 2286 c.c., ovvero l’esclusione del socio secondo il meccanismo procedurale previsto dall’art. 2287 c.c..
Ragioni e conseguenze di una scelta “quasi” obbligata.
A proposito delle ragioni alla base dell’inammissibilità di un tale rimedio, in particolare, il giudice di prima istanza evidenzia come la sostituzione dell’unico socio accomandatario amministratore finirebbe per dar luogo ad “una società per accomandita radicalmente difforme dal modello legale, nel quale nessuno dei soci accomandatari eserciterebbe il potere gestorio, affidato, invece, ad un soggetto estraneo alla compagine societaria. patrimonialmente irresponsabile – legittimato per un tempo pressochè indeterminato – pari alla durata del giudizio di merito – esclusivamente all’esercizio dell’ordinaria amministrazione…”.
Lo stesso non manca di evidenziare come l’eventuale riconduzioneall’art. 2323 c.c. a proposito della nomina di un amministratore provvisorio per la durata massima di sei mesi sarebbe errata in quanto riguardante fattispecie diversa e condurrebbe anche allo scioglimento della società, ovvero ad un evento estraneo alla domanda del ricorrente.
In seconda istanza viene rilevato come tali ragioni non vengano scalfite in alcun modo, emergendo anche in tale occasione come un’amministrazione affidata ad un soggetto terzo “darebbe luogo ad una grave e non consentita alterazione della configurazione tipica della società in accomandita semplice, nella quale il potere di amministrazione è riservato esclusivamente all’accomandatario e si coniuga con la responsabilità illimitata che la legge pone a suo carico”.
Viene, altresì, espressamente esclusa ogni ipotesi di applicazione analogica dell’art. 2323 c.c. in quanto fondato su presupposti diversi.
La struttura identitaria della società per il Tribunale esprime principi personalistici da tenere presenti nella scelta delle posizioni sacrificabili in ragione della tutela di quelle, in particolare del socio accomandatario (o illimitatamente responsabile), che caratterizzano in maniera prevalente lo specifico modello societario.
Non si nega che a ciascun socio, compreso l’accomandante, dovrebbe venir garantito un controllo tendenzialmente massimo sull’amministratore, ovvero non escludente la facoltà di chiederne la revoca, dovendo ciò poter valere anche per il socio con responsabilità pattiziamente limitata ai sensi dell’art. 2267 c.c..
Le ordinanze in commento, però, nella valorizzazione della clausola di cui all’art. 2315 c..c., non ritengono ciò possa consentire di configurare l’esistenza di una società nella quale, citando il relativo passo di Cass. n. 12732/1992, la responsabilità illimitata di un socio venga a dipendere dalla “gestione compiuta dall’accomandante o dall’estraneo nella veste di amministratore provvisorio” e ciò anche sulla base della ritenuta inapplicabilità per analogia al rimedio della revoca della procedura di cui all’art. 2323 c.c..
La scelta del procedimento ex art. 700 c.p.c. da parte del socio accomandante offre un’ulteriore occasione per esaltare òe ragioni di una tale opzione.
Nominare un amministratore provvisorio in attesa della conferma nel merito di un provvedimento d’urgenza espropriativo del potere di decisione sull’amministratore di una maggioranza che continuerà ad essere identica anche nel corso del procedimento di merito nemmeno consente di ipotizzare una finalità giustificante la strumentalità del rito cautelare.
Nel caso di specie una tale abnorme situazione si verificherebbe in presenza di un socio accomandatario anche titolare di una quota del 75%, ovvero una maggioranza che non consente una decisione contro essa se non introducendo un’ipotesi di amministrazione giudiziaria permanente.
Una situazione che vedrebbe l’amministratore revocato nella società e addirittura, come nel caso di specie, con una maggioranza assoluta ma sottoposto ad un’effettiva amministrazione giudiziale permanente della società contro tale maggioranza, ovvero anche solo sul presupposto di ignorarla non sarebbe certo una situazione di diritto perseguibile.
In definitiva e come sopra accennato, le ragioni di una scelta in termini certo privativi della facoltà di un socio possono, quindi, individuarsi nel non poter consentire che il mantenimento di tale facoltà in casi specifici quale quelle del socio accomandatario finisca per sacrificare facoltà ben più rilevanti ed essenziali alla forma della s.a.s. quali quelle riconosciute al socio accomandatario ed alla sua influenza su tale soggetto sociale.
Quale controllo sull’accomandatario unico?
L’assenza di un soggetto cui affidare l’amministrazione di una società di cui sol per questo non è ipotizzabile lo scioglimento[5] costituisce un problema oggettivo.
Esso finisce per trovare sfogo nella privazione per un’intera categoria di soci di una legittima facoltà di controllo ed esercizio delle proprie prerogative.
Certamente, però, ciò non può essere impedito se non al prezzo del ripensamento dell’intero assetto del modello individuato dai soci o della stessa configurazione in termini privatistici dell’amministrazione e della sua trasformazione in iussu iudicis.
Trasformazione che si verificherebbe senz’altro ove dovesse consentirsi ad un terzo di amministrare contro la volontà della maggioranza sol perché nominato giudizialmente.
In ogni caso non è questa la via che indica il Tribunale.
Qui, però, non si può fare a meno di interrogarsi sull’estensione e le conseguenze di tale deminutio.
In tal senso il Tribunale, sia pur nella pronuncia di seconda istanza e sia pur in obiter, si preoccupa dell’individuazione di quasi una sorta di via di di ‘giustizia sostanziale’ rinvenendola nella possibilità del rimedio di cui agli artt. 2286 e 2287 c.c..
Appare, però, nel complesso contraddittorio prima distinguere in maniera netta le due azioni ed evidenziare anche l’impossibilità di applicazione analogica dell’una rispetto all’altra per diversità dei presupposti e poi concludere individuando nella possibilità dello scioglimento del rapporto sociale una sorta di clausola di chiusura o di ‘salvezza’ del sistema nei confronti di eventuali aporie o vuoti normativi.
Si tratta, pur sempre, di una via che, come già rilevato dal Tribunale non coincide con le richieste di chi agisce per la revoca dell’amministratore e sarebbe stato forse preferibile, che è poi ciò cui paiono voler tendere nel complesso le ordinanze, prendere espressamente atto che, evidentemente, le esigenze di tutela del socio nei confronti dell’amministrazione di s.a.s., nell’ambito di una valutazione comparativa vengono ritenute recessive rispetto alla proiezione dei tratti personalistici di tale modello sociale, al loro caratterizzarsi in termini imprenditoriali ed alla stessa tutela della condizione di illimitatamente responsabile del socio accomandatario che contraddistingue il socio accomandatario.
Una tale presa d’atto non richiedeva necessariamente di poggiare su un obiter dictum che, per quanto assolutamente condivisibile, poco aggiunge al decisum se non una superflua ‘giustificazione’ di una chiusura comunque in sé reggentesi su ragioni e una struttura motivazionale non certo deboli o prive di consistenza.
Alcune considerazioni conclusive.
Le ordinanze in commento prendono, in definitiva, una posizione di netta chiusura nei confronti della revoca dell’amministratore unico socio accomandatario.
Esse pongono, così, di fronte alla necessità di cercare di comprendere come porsi rispetto alle situazioni concrete conseguenti alla constatata ineluttabilità di una tale soluzione.
Esse pongono anche di fronte al rischio di dover considerare l’eventualità di tenere un socio in una condizione quasi di dipendenza indiscriminata dall’operato dell’amministratore e che ciò può costituire un’ingiustificata limitazione.
Sotto altro profilo, però, l’analisi delle ricorrenze concrete sembra far emergere tutta la gravità anche in termini negativi delle conseguenze del riconoscimento indiscriminato di un tale potere di controllo ed ingerenza.
Il caso di specie ben evidenzia il possibile impatto di un tale controllo su una gestione sostanzialmente non rivelante macroscopiche irregolarità e conferma come essa rischi di rivelarsi devastante per particolari forme sociali quali la s.a.s..
Il fatto che un tale effetto possa provenire da un socio non responsabile illimitatamente, titolare di una quota assolutamente minoritaria, di recente licenziato e nelle more tra un’ordinanza e l’altra anche sottoposto al procedimento di esclusione di cui all’art. 2287 c.c. con correlato addebito a suo carico delle inadempienze di cui all’art. 2286 c.c., dovrebbe indurre a più di una riflessione.
In particolare sull’opportunità di individuare altri sistemi di controllo o una maggiore incidenza della clausola di compatibilità anche a proposito di una verifica di carattere più generale del potere rimesso a soci atipici per le società di persone.
O, ancora, di un utilizzo della clausola di compatibilità calibrato sulle situazioni concrete ed aldilà di predeterminate categorie, non escludendosi di conseguenza una verifica caso per caso anche del profilo della legittimazione attiva.
Una quota del 25% che consente un’azione di sostituzione nell’immediatezza di un licenziamento fa certo riflettere sull’opportunità di evitare il rischio di dare rilievo a motivi soggettivi o parziali che poco possono riguardare lo stesso interesse amministrativo della società.
Motivi la cui conseguenza nei fatti, ed il caso di specie costituisce in tal senso un ottimo esempio, finisce per essere la mera ‘espropriazione’ del potere di iniziativa economica ai privati e la sua rimessione all’organo giudiziario.
Un’indebita potenziale ‘statalizzazione’ dell’attività economica privata, alla quale, però, non corrisponderebbe certo una ‘statalizzazione’ delle perdite o una loro trasposizione sul socio autore di una tale iniziativa.
Il tutto a costituire un equilibrio in tal senso ingiusto e nemmeno idoneo a prospettare possibili conseguenti miglioramenti del sistema economico o il perseguimento per esso ed il suo svolgimento di condizioni di maggiore efficienza.
In ciò l’intervento del Tribunale ibleo, pur nel lasciare il sopra descritto inevitabile ambito di indeterminatezza immediata sui modi per rimediare a condotte amministrative inadempienti da parte dell’accomandatario, sembra esprimere principi e criteri non trascurabili e di senz’altro condivisibile applicabilità
Ciò con il supporto di una ricostruzione dei profili peculiarmente tecnici assolutamente puntuale e rigorosa che non può non dirsi condivisibile.
Così come non può non dirsi in conclusione condivisibile anche la prospettazione analitica delle conseguenze abnormi cui l’amministrazione giudizialmente sottratta all’unico accomandatario darebbe luogo.
Un’amministrazione a tempo indeterminato contro la volontà della maggioranza, l’annientamento dei poteri a garanzia o posti quale contraltare della condizione di responsabilità illimitata e le ulteriori sulle quali ci si è sopra soffermati, a sostegno della bontà dell’opzione seguita dal Tribunale e dalla giurisprudenza maggioritaria e del rischio di grave contrarietà ai principi fondamentali del diritto societario cui rischierebbe senz’altro di dare luogo l’ammissibilità di un rimedio quale quello in discussione.
[1] In particolare ad essere richiamato, per effetto del rinvio di cui all’art. 2293 c.c. per le s.n.c. ed a queste ultime per il rinvio di cui all’art. 2315 c.c. per le s.a.s., è il terzo comma dell‘art. 2259 c.c., il quale prevede che: << La revoca per giusta causa puòin ogni caso essere chiesta giudizialmente da ciascun socio >> ed è stato espressamente ritenuto applicabile alle s.a.s. da Cass. civ., 19 novembre 2011, n. 15197 (in Giur. it., 2002, 772).
[2] Se, in prima battuta, si può definire giusta causa ogni evento, anche non imputabile all’amministratore, che renda impossibile il naturale svolgimento del rapporto di gestione, va detto che la giurisprudenza ha fatto rientrare nel concetto di giusta causa non solo gli inadempimenti a specifici obblighi assunti, ma altresì ulteriori comportamenti i quali incidono comunque per la loro significatività e gravità sul rapporto fiduciario, rendendone intollerabile la prosecuzione. V., in particolare, Cass., 21 novembre 1998, n. 11801, in Giur. it., 1999, 562, cfr. il cui orientamento viene richiamato e condiviso da Trib. Milano, 14 febbraio 2004, in Giur. it., 2004, 1209, a proposito di società di persone: <<va infatti condiviso l’orientamento per il quale “la giusta causa di revoca dell’amministratore societario può derivare anche da fatti non integranti inadempimento, ma richiede pur sempre un quid pluris rispetto al mero dissenso (alla radice di ogni recesso ad nutum), ossia esige situazioni sopravvenute (provocate o meno dall’amministratore stesso) che minino il pactum fiduciae, elidendo l’affidamento inizialmente riposto sull’idoneità dell’organo di gestione” (così Cass. n. 11801/1998) >>.
[3] Trib. Padova, 13 luglio 2003 (ord.), in Giur. comm., 2005, II, 667, con nota di Battistini, citata anche in ordinanza, secondo cui consegue al non determinare la revoca dell’ammin——-istratore unico accomandatario lo scioglimento della società la possibilità “di disporre la nomina di un amministratore giudiziario”.
[4]Cfr. Trib. Milano, 14 febbraio 2004 (sent.), cit..
[5] Una soluzione pattizia utile al fine di prevenire il menzionato impasse potrebbe essere quella di inserire nel contratto sociale clausole che prevedano, nel caso in cui l’unico socio accomandatario venga revocato dalla carica di amministratore, la conversione della quota in quella di accomandante. Si verificherebbe così l’ipotesi di cui all’art. 2323, II co., c.c. e gli accomandanti potrebbero nominare un amministratore provvisorio. Anche in questo caso, però, si tratta di norma che non consente la conservazione del soggetto e del patto sociale originario ma di una sorta di “rifugio”, diverso dalla configurazione di un’ipotesi di scioglimento sol perché rimesso alla volontà, sia pur mediata, delle parti.
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