Informativa sul trattamento dei dati personali (ai sensi dell’art. 13 Regolamento UE 2016/679)
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Le Sezioni unite sul regime di rilevabilità dei vizi derivanti dall’inosservanza del divieto di prova testimoniale di cui all’art. 2725, comma 1, c.c.
Di Gabriella Tota -
1. La decisione in commento trae origine da una controversia per il pagamento del corrispettivo di una partita di frutta. Avverso il decreto ingiuntivo ottenuto dal venditore, la società acquirente aveva proposto opposizione ex art. 645 c.p.c. deducendo che, a causa della cattiva qualità della merce, il contratto di compravendita era stato risolto consensualmente, con conseguente riduzione del prezzo e pagamento da parte dell’acquirente di una somma inferiore rispetto a quella originariamente convenuta e domandata con il ricorso monitorio. Espletata prova testimoniale, il tribunale aveva accolto l’opposizione a decreto ingiuntivo, ritenendo insussistente la prova del credito azionato. Proposta dal venditore impugnazione contro tale sentenza, la corte d’appello aveva accolto il gravame, rilevando come la dedotta risoluzione consensuale del contratto di vendita intercorso tra le parti integrasse un autentico negozio transattivo, la cui prova avrebbe pertanto potuto fornirsi esclusivamente per iscritto (art. 1967 c.c.), e non – come avvenuto nella specie – mediante prova per testi.
Avverso quest’ultima pronuncia l’acquirente proponeva quindi ricorso per cassazione, denunciando in particolare l’errore commesso dalla Corte di merito nel rilevare d’ufficio l’inammissibilità della testimonianza assunta in primo grado. Ad avviso del ricorrente, posto che nella transazione la prova scritta è richiesta unicamente ad probationem, soltanto la parte interessata avrebbe potuto eccepire l’inammissibilità e la conseguente inutilizzabilità della prova testimoniale espletata in violazione del divieto ex art. 2725, comma 1, c.c.; laddove nella specie le parti non avevano formulato alcun rilievo al riguardo né al momento dell’ammissione, né in quello dell’espletamento, né dopo l’assunzione della prova per testi, né infine con l’atto di appello.
Con l’ordinanza interlocutoria 20 novembre 2019, n. 30244 (in ilprocessocivile.it, 4 febbraio 2020, con commento di C. Asprella, Prova per testi ed efficacia probatoria: tra forma scritta ad substantiam e forma scritta ad probationem), la seconda sezione civile rilevava l’esistenza di un contrasto di giurisprudenza tra le sezioni semplici in merito al regime di rilevabilità dei vizi conseguenti alla violazione dei limiti di ammissibilità della prova testimoniale in relazione ai contratti per i quali è prevista la forma scritta ad probationem. La questione veniva quindi rimessa alle Sezioni unite, che con la pronuncia in commento (segnalata anche in Corr. giur., 2020, 1286, e in Quotidiano giuridico, 2 settembre 2020, con commento di A. Carrato, Contratti a forma scritta “ad probationem”: limiti di ammissibilità della prova testimoniale) ribadiscono l’indirizzo prevalente sul punto, affermando che l’inammissibilità della prova testimoniale di un contratto che deve essere provato per iscritto, ai sensi dell’art. 2725, comma 1, c.c., attenendo alla tutela processuale di interessi privati, non può essere rilevata d’ufficio, ma deve essere eccepita dalla parte interessata prima dell’ammissione del mezzo istruttorio; con l’ulteriore precisazione che qualora, nonostante l’eccezione d’inammissibilità, la prova sia stata ugualmente assunta, è onere della parte interessata opporne la nullità secondo le modalità dettate dall’art. 157, comma 2, c.p.c., rimanendo altrimenti la stessa ritualmente acquisita, senza che detta nullità possa più essere fatta valere in sede di impugnazione.
2. È opinione generalmente ammessa (e fatta propria anche dalle Sezioni unite) quella che, sebbene l’art. 2725 c.c. «tend[a] a concentrare in una disciplina unitaria singoli tipi contrattuali accomunati dalla necessità di essere redatti per iscritto per ragioni di validità o di prova e non preved[a] alcun ambito per l’esercizio di poteri discrezionali da parte del giudice», pure «la separata previsione delle due fattispecie… non è casuale e consegue alla necessità di una differenziazione delle stesse» [R. Crevani, in Aa.Vv., La prova nel processo civile, a cura di M. Taruffo, Milano, 2012, 311 s.]. Mentre, infatti, in materia di atti e contratti per i quali sia richiesta ad substantiam la forma scritta, eccettuata l’ipotesi della perdita incolpevole del documento, è inammissibile la prova testimoniale dell’esistenza del negozio, e tale inammissibilità può essere dedotta in ogni stato e grado del giudizio ed essere rilevata anche d’ufficio, per quanto riguarda invece gli atti e i contratti per i quali la forma scritta sia richiesta soltanto ad probationem, l’inammissibilità della prova testimoniale non attiene all’ordine pubblico, ma alla tutela di interessi privati, sicché un’eventuale nullità, avendo carattere relativo, dovrebbe seguire il regime processuale di cui all’art. 157 c.p.c. (in tal senso, ex multis, Cass. 25 giugno 2014, n. 14470; Cass. 19 settembre 2013, n. 21443; Cass. 30 marzo 2010, n. 7765).
La tesi non è peraltro unanimemente condivisa, registrandosi nella giurisprudenza di legittimità un divergente, seppur minoritario, indirizzo in base al quale quando, per legge o per volontà delle parti, sia prevista per un certo contratto la forma scritta ad probationem, la prova testimoniale che abbia ad oggetto l’esistenza del medesimo è inammissibile (salvo che sia volta a dimostrare la perdita incolpevole del documento), così come è inammissibile la connessa prova per presunzioni; né siffatta inammissibilità potrebbe dirsi sanata dalla mancata tempestiva opposizione della parte interessata, dal momento che la sanatoria per acquiescenza riguarda soltanto le decadenze e le nullità previste per la prova testimoniale dall’art. 244 c.p.c. (in tema di modo di deduzione), e non anche la prova testimoniale illegittimamente ammessa. A supporto di tale tesi si osserva che l’opposta e prevalente opinione, facendo leva su considerazioni metagiuridiche in ordine alla natura degli interessi coinvolti, non terrebbe conto della unitaria disciplina della prova testimoniale (e di quella connessa per presunzioni) relativa ai contratti per i quali la forma scritta è richiesta ad probationem ovvero ad substantiam, quale dettata, rispettivamente, nei commi 1 e 2 dell’art. 2725 c.c., il cui tenore sarebbe «tale da rendere trasparente l’intento del legislatore di normare in maniera assolutamente sovrapponibile le due ipotesi» (Cass. 14 agosto 2014, n. 17986, cui adde Cass. 8 marzo 1997, n. 2101, e Cass. 23 agosto 1986, n. 5143).
3.Nel dirimere il contrasto in favore del primo degli orientamenti appena segnalati, le Sezioni unite rilevano che l’argomento della congiunta collocazione, nei due commi nel medesimo art. 2725 c.c., delle regole sulla testimonianza inerenti, rispettivamente, ai contratti da provare per iscritto ed ai contratti scritti ad substantiam, «non si rivela così forte da indurre ad obliterare, sia pure ai limitati fini dell’ammissibilità della prova, le differenze che negli uni e negli altri riveste l’elemento formale». E invero, mentre nei contratti a forma scritta ad substantiam la dichiarazione formalizzata, avendo funzione costitutiva, risulterebbe inevitabilmente necessaria anche per la prova del negozio, restando quindi il difetto dello scritto, in quanto causa di nullità, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, allorché la forma scritta sia imposta unicamente per la prova del contratto, la questione non sarebbe di “forma dell’atto”, ma di mera “forma della prova”, sicché la mancanza della scrittura comporterebbe solo una limitazione sul terreno probatorio, rendendo inammissibile la testimonianza. In tal senso, il limite di cui all’art. 2725, comma 1, c.c. non atterrebbe agli effetti sostanziali dell’atto, essendo dettato, al pari degli altri limiti legali di ammissibilità della prova testimoniale dei contratti, nell’esclusivo interesse delle parti litiganti, le quali avrebbero perciò piena facoltà di rinunciare, anche tacitamente, e cioè con il loro comportamento processuale, alla sua applicazione (per interessanti considerazioni in ordine ai limiti di ammissibilità ex art. 2725 c.c. in relazione al processo del lavoro, si rinvia a P. Licci, I limiti del potere istruttorio del giudice del lavoro, Pisa, 2020, 185 ss., part. 193 s., che, muovendo dal rilievo per cui «il limite di ammissibilità alla prova testimoniale collegato alla forma scritta ad probationem non ha alcun legame con gli aspetti sostanziali del contratto ma costituisce solo una scelta rilevante sul piano processuale e, segnatamente, su quello probatorio», come tale rientrante nella piena disponibilità delle parti, perviene alla conclusione secondo la quale ben potrebbe il giudice del lavoro – alla luce della generale autorizzazione contenuta nell’art. 421 c.p.c. – ammettere la prova testimoniale oltre il limite di cui all’art. 2725, comma 1, c.c., così derogando alla tecnica probatoria che attribuisce preferenza alla forma scritta).
Tanto premesso, le Sezioni unite finiscono quindi per confermare il tradizionale regime di rilevabilità dei vizi derivanti dalla violazione del divieto probatorio in esame, ribadendo la necessità che la parte interessata si opponga anzitutto in via preventiva all’ammissione della testimonianza, per poi denunciarne la nullità – ove la prova sia stata ugualmente assunta – nella prima istanza o difesa successiva ai sensi dell’art. 157, comma 2, c.p.c., pena la sanatoria del vizio e la conseguente impossibilità di dedurlo per la prima volta in sede di impugnazione (nel medesimo senso v. già, ex multis, Cass. 19 febbraio 2018, n. 3956).
La conclusione, peraltro, non era affatto obbligata. Se già parte della dottrina più risalente manifestava perplessità quanto all’opportunità di differenziare le due fattispecie di cui all’art. 2725 c.c. (v. ad es. E.T. Liebman, Manuale di diritto processuale civile, II, Milano, 1981, 163, il quale rilevava che «le giustificazioni che si danno di solito al divieto porterebbero logicamente a ritenerlo inderogabile e il fatto che si giudichi diversamente potrebbe indicare il poco favore che incontra la limitazione posta dalla legge»), non meno priva di fondamento appare la scelta di addossare all’interessato un doppio onere di eccezione (dapprima di inammissibilità della testimonianza dedotta senza osservare i limiti di legge, e poi di nullità della medesima prova che sia stata ciò nondimeno assunta), essendo fin troppo evidente che «nell’eccezione di inammissibilità della prova che sia formulata a monte della sua ammissione, implicita è l’eccezione di nullità della prova cui, a séguito del rigetto di quella prima eccezione, il giudice avesse a dar corso» (così M. Montanari, Sul regime della rilevabilità dei vizi conseguenti alla violazione dei divieti di prova testimoniale ex art. 2725 c.c., in eclegal.it, 13 ottobre 2020).
Secondo la giurisprudenza, l’imposizione di un duplice onere di eccezione risponderebbe all’interesse della stessa parte, la quale, oppostasi inizialmente all’ammissione della testimonianza ma ritenutone l’esito vantaggioso dopo la sua assunzione, potrebbe indursi a non reiterare l’eccezione nel termine di cui all’art. 157 c.p.c. onde giovarsi della prova (in tal senso Cass. 15 febbraio 2018, n. 3763; Cass. 19 settembre 2013, n. 21443; Cass. 23 maggio 2013, n. 12784). Ma la soluzione non pare affatto necessitata, dal momento che il medesimo risultato potrebbe essere conseguito dalla parte semplicemente rinunciando a riproporre l’originaria eccezione di inammissibilità della prova all’atto della precisazione delle conclusioni (nel senso che la mancata reiterazione dell’eccezione di nullità in sede di precisazione delle conclusioni vada intesa quale rinuncia alla stessa, v. ad es. Cass. 17 maggio 2002, n. 7256).
Sotto altro profilo, neppure può condividersi la tesi secondo cui la mancata proposizione, ex ante, dell’eccezione di inammissibilità della testimonianza varrebbe a precludere, una volta che la prova sia stata espletata, l’eccezione di nullità. Se è vero, infatti, che la nullità di un atto processuale non può essere opposta dalla parte che vi ha rinunciato anche tacitamente (art. 157, comma 3), per altro verso è assai dubbio che una rinuncia tacita sia ravvisabile nella fattispecie in esame, posto che «la mancata opposizione all’ammissione della prova non è certo univocamente ricollegabile all’intento di lasciare aperte le porte del giudizio allo strumento istruttorio in questione» (così ancora M. Montanari, op. cit., cui si rinvia anche per ulteriori riferimenti).
Vi erano, dunque, tutte le condizioni per un autonomo riesame della questione da parte del massimo collegio. Ma l’occasione non è stata colta.
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