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Capital gain, fra doppie rivalutazioni e richieste di rimborso.
Di Dario Cavallari -
Cass., sez. V, ordinanza 27 dicembre 2019, n. 34502, Pres. Locatelli G., Est. Di Marzio P.
“In tema di imposta sostitutiva sui capital gains, qualora il contribuente abbia aderito alla rivalutazione delle proprie partecipazioni societarie, non negoziate nei mercati regolamentati e possedute alla data del 1° gennaio 2001, secondo la disciplina di cui all’art. 5 della l. n. 448 del 2001, provvedendo al versamento dell’imposta sostitutiva dovuta, ed abbia quindi aderito anche alla seconda rivalutazione delle medesime partecipazioni, come disciplinata dall’art. 2, comma 2, d.l. n. 282 del 2002, conv. in l. n. 27 del 2003, estesa dall’art. 6 bis del d.l. n. 355 del 2003, conv. in l. n. 47 del 2004, alle partecipazioni possedute alla data del 1.7.2003, ha diritto al rimborso di quanto versato in occasione della prima rivalutazione, nei limiti dell’imposta sostitutiva effettivamente versata a seguito della nuova rideterminazione di valore della partecipazione sociale, rimanendo escluso che il rimborso possa essere corrisposto in misura superiore”[1].
Sommario: 1. L’oggetto del contendere. – 2. Il fatto processuale – 3. Inquadramento normativo – 4. Le rivalutazioni consentite da leggi speciali – 5. La questione giuridica – 6. La soluzione.
1.L’oggetto del contendere.
La decisione della Suprema Corte in esame riguarda un particolare tipo di imposta sostitutiva, collegata alla rideterminazione del valore di titoli, quote o diritti non negoziati nei mercati regolamentati.
Nella specie, il contribuente aveva la facoltà, in presenza dei requisiti prescritti dalla legge, di operare tale rideterminazione e di versare, di conseguenza, detta imposta sostitutiva, nella prospettiva, in caso di futura cessione dei beni interessati, di un risparmio sul tributo ordinario altrimenti dovuto sulla plusvalenza.
La decisione che si annota esamina i problemi che sorgono qualora una legge successiva consenta al medesimo contribuente di effettuare una seconda rivalutazione dei beni in questione e questa sia più favorevole di quella precedente, ed in particolare affronta la questione se il contribuente de quo possa domandare o meno il rimborso di quanto versato in precedenza.
2.Il fatto processuale.
Nel caso sottoposto alla Corte di cassazione e risolto dall’ordinanza n. 34502 del 2019 qui esaminata, il contribuente, titolare di una quota di partecipazione in una società per azioni, si era avvalso, innanzitutto, della facoltà riconosciuta dall’art. 2 del d.l. n. 282 del 2002, convertito dalla legge n. 27 del 2003, al fine di rideterminare il valore di una parte delle partecipazioni sociali non negoziate in mercati regolamentari da lui possedute alla data del 1° gennaio 2003.
In seguito, il medesimo contribuente aveva esercitato analoga facoltà attribuita dall’art. 6 bis del d.l. n. 355 del 2003, convertito dalla legge n. 47 del 2004, questa volta con riguardo alla totalità delle partecipazioni sociali detenute al 1° luglio 2003.
Le disposizioni in questione prevedevano che condizione per avvalersi della facoltà de qua fosse l’assoggettamento del nuovo valore così determinato ad un tributo sostitutivo delle imposte sui redditi, che poteva essere corrisposto in tre rate annuali.
In occasione della prima rivalutazione, il contribuente aveva pagato due delle tre rate previste, mentre, nella seconda, l’imposta sostitutiva era stata integralmente versata.
L’interessato aveva presentato, poi, istanza di rimborso per le somme corrisposte in occasione della prima rivalutazione.
In seguito, il silenzio rifiuto formatosi sull’istanza di rimborso era stato impugnato dal contribuente davanti alla Commissione tributaria provinciale, che aveva accolto il ricorso.
L’Agenzia delle Entrate aveva proposto appello, a sua volta rigettato.
In particolare, la Commissione tributaria regionale aveva osservato che la medesima Agenzia delle Entrate, con circolare 27/E, aveva previsto che i soggetti i quali avessero usufruito della precedente rivalutazione al 1° gennaio 2002, qualora avessero ritenuto di aderire pure a quella successiva, pagando il dovuto, avrebbero potuto evitare il versamento della terza rata della prima rivalutazione e chiedere il rimborso delle due già corrisposte. Ad avviso del giudice di appello, occorreva evitare il verificarsi del fenomeno della doppia imposizione.
L’Amministrazione finanziaria ha, quindi, presentato ricorso per cassazione.
3.Inquadramento normativo.
Come chiarisce la decisione in commento, l’art. 5 della legge n. 448 del 2001, rubricata “Rideterminazione dei valori di acquisto di partecipazioni non negoziate nei mercati regolamentati”, ha disposto che: a) “Agli effetti della determinazione delle plusvalenze e minusvalenze di cui all’art. 81, comma 1, lett. c) e c bis), del testo unico delle imposte sui redditi, (…), per i titoli, le quote o i diritti non negoziati nei mercati regolamentati posseduti alla data del 1 gennaio 2002, può essere assunto, in luogo del costo o valore di acquisto, il valore a tale data della frazione del patrimonio netto della società, associazione o ente, determinato sulla base di una perizia giurata di stima (…), a condizione che il predetto valore sia assoggettato ad una imposta sostitutiva delle imposte sui redditi (…)” (comma 1); b) “L’imposta sostitutiva di cui al comma 1 è pari al 4 per cento per le partecipazioni che risultano qualificate, ai sensi dell’art. 81, comma 1, lett. c), del citato Testo Unico delle imposte sui redditi, alla data del 1 gennaio 2002, e al 2 per cento per quelle che, alla predetta data, non risultano qualificate ai sensi del medesimo art. 81, comma 1, lett. c bis), ed è versata, con le modalità previste dal capo 3 del D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, entro il 16 dicembre 2002” (comma 2); c) “L’imposta sostitutiva può essere rateizzata fino ad un massimo di tre rate annuali di pari importo, a partire dalla predetta data del 16 dicembre 2002 (…)” (comma 3); d) “L’assunzione del valore di cui ai commi da 1 a 5 quale valore di acquisto non consente il realizzo di minusvalenze utilizzabili ai sensi dell’art. 82, commi 3 e 4 del cit. T.U. delle imposte sui redditi” (comma 6).
L’art. 2, comma 2, del d.l. n. 282 del 24 dicembre 2002 (convertito dalla legge n. 27 del 21 febbraio 2003) ha, poi, esteso la detta facoltà di rivalutazione ai valori di acquisto delle partecipazioni non negoziate in mercati regolamentati possedute alla data del 10 gennaio 2003, e l’art. 6 bis del d.l. n. 355 del 24 dicembre 2003 (convertito dalla legge n. 47 del 27 febbraio 2004), ancora, ha riconosciuto la possibilità di operare la rivalutazione in relazione alle partecipazioni sociali possedute alla data del 10 luglio 2003.
Altre proroghe sono state stabilite con leggi successive.
In particolare, l’art. 7 del d.l. n. 70 del 13 maggio 2011 (convertito dalla legge n. 106 del 12 luglio 2011) ha previsto che i soggetti i quali si avvalgono della rideterminazione dei valori di acquisto dei beni in questione, “qualora abbiano già effettuato una precedente rideterminazione del valore dei medesimi beni, possono detrarre dall’imposta sostitutiva dovuta per la nuova rivalutazione l’importo relativo all’imposta sostitutiva già versata” (comma 2, lett. ee), che coloro i quali non effettuano la detrazione “possono chiedere il rimborso della imposta sostitutiva già pagata, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 38”, e che il termine di decadenza per la richiesta di rimborso decorre dalla data del versamento dell’intera imposta o della prima rata relativa all’ultima rideterminazione effettuata. L’importo del rimborso non può essere comunque superiore all’importo dovuto in base all’ultima rideterminazione del valore effettuata” (comma 2, lett. ff).
4.Le rivalutazioni consentite da leggi speciali.
Nella disciplina di bilancio delineata dal Codice Civile e dai principi contabili nazionali (OIC), le rivalutazioni da leggi speciali mitigano la rigida applicazione del criterio del costo storico, offrendo la possibilità di rideterminare alcune voci di bilancio ai valori correnti.
Originariamente introdotto per neutralizzare gli effetti distorsivi generati dai fenomeni inflazionistici sull’attendibilità dei valori di bilancio, il ricorso all’emanazione di tali leggi è diventato una pratica sempre più frequente in Italia, perdendo l’originario carattere dell’occasionalità e straordinarietà.
Siffatte rivalutazioni rientrano tra le rivalutazioni facoltative con finalità economiche e di conguaglio monetario[2].
In considerazione della scarsa rilevanza del fenomeno inflattivo nel periodo attuale, infatti, il maggiore valore delle immobilizzazioni può non rappresentare esclusivamente un adeguamento per conguaglio monetario ma, congiuntamente, anche un reale aumento di ricchezza generato da un concreto accrescimento di valore del cespite. Pur nella diversità delle varie leggi speciali che le regolano, queste rivalutazioni comportano sul piano contabile un incremento sia dell’attivo patrimoniale, dovuto al maggiore valore attribuito allo specifico cespite rivalutato, sia del patrimonio netto, attraverso l’accreditamento di una specifica riserva (al netto delle imposte sostitutive se dovute)[3].
Si tratta, quindi, di un’operazione che, nell’immediato, rafforza il patrimonio netto senza transitare nel conto economico.
La non florida struttura patrimoniale è una motivazione importante nella decisione del management di procedere alla rivalutazione delle immobilizzazioni. Infatti, è spesso emerso che la propensione a rivalutare aumenta quando il rapporto di indebitamento cresce, perché quest’ultimo rapporto sembra attivare comportamenti opportunistici da parte del medesimo management per mostrare un miglioramento della struttura patrimoniale aziendale.
Un altro aspetto che pare indurre ulteriori comportamenti opportunistici è la situazione di liquidità, perché le imprese carenti di disponibilità liquide sono le più disponibili a rivalutare, mirando esse a rafforzare, attraverso la rivalutazione, la propria struttura patrimoniale, nella speranza che ciò si traduca in una migliore capacità di indebitamento in vista di eventuali future richieste di finanziamento.
Quanto esposto appare configurare un utilizzo non disinteressato dell’istituto della rivalutazione da parte degli amministratori, i quali sembrano procedere alla revisione dei valori dei beni patrimoniali non tanto per evidenziare in modo più veritiero il complesso patrimoniale ma, piuttosto, per fini strategici o per il perseguimento di politiche di bilancio.
Il pericolo che ne deriva è che le rivalutazioni perdano la loro valenza e credibilità economica, con il rischio che siano esposti maggiori valori distorti o, addirittura, puramente fittizi.
In genere, pertanto, le imprese italiane non quotate che presentano una minore dimensione, una forte esposizione verso il sistema bancario, debolezze nella struttura finanziaria e nella situazione di liquidità, e un maggior grado di indebitamento complessivo, ricorrono più frequentemente alla rivalutazione delle proprie immobilizzazioni[4].
Ciò si spiega alla luce del sistema di incentivi che contraddistingue il contesto istituzionale del settore delle imprese non quotate in Italia.
La rivalutazione delle immobilizzazioni, infatti, è una pratica contabile generalmente introdotta con incentivi fiscali più o meno ampi, che consente di ottenere un immediato rafforzamento della struttura patrimoniale, senza tenere conto, però, delle sue conseguenze di medio e lungo periodo per le medesime imprese.
5.La questione giuridica.
Oggetto del contendere è un particolare tipo di imposta sostitutiva, ricollegata alla rideterminazione del valore di titoli, quote o diritti non negoziati nei mercati regolamentati.
L’imposta sostitutiva in esame ha natura volontaria, in quanto è frutto di una libera scelta del contribuente, il quale opta per la rideterminazione del valore del bene (nella specie, partecipazioni non negoziate nei mercati regolamentati), con conseguente versamento dell’imposta sostitutiva, nella prospettiva, in caso di futura cessione[5], di un risparmio sull’imposta ordinaria altrimenti dovuta sulla plusvalenza non affrancata. In cambio, l’Amministrazione finanziaria riceve un immediato introito fiscale.
La procedura disciplinata dalla legge n. 448 del 2001, e successive, è una facoltà rimessa alla scelta del contribuente, e, una volta verificatesi le condizioni di legge, si determina il perfezionamento della nuova obbligazione tributaria che consegue alla conclusione del procedimento.
Non rileva la circostanza che il contribuente abbia deciso di avvalersi del pagamento rateale anziché di quello in un’unica soluzione, poiché le modalità dell’adempimento restano del tutto indifferenti rispetto al completamento della fattispecie, correlato – come si è detto – alla tempestiva realizzazione delle condizioni alle quali la scelta del regime sostitutivo è collegata[6].
Infatti, il contribuente potrebbe utilizzare già subito (sin dal versamento della prima rata dell’importo dovuto) il nuovo valore di acquisto ai fini della determinazione delle plusvalenze ex art. 67 TUIR, senza necessità di attendere il completamento dei versamenti rateizzati.
La rivalutazione delle partecipazioni non deve essere obbligatoriamente seguita da una cessione delle stesse, di modo che una partecipazione può essere oggetto di una seconda rideterminazione.
La questione giuridica trattata nell’ordinanza qui commentata attiene alla spettanza o meno del diritto del contribuente a chiedere un rimborso in presenza di una seconda rivalutazione dei beni più favorevole al contribuente medesimo.
6.La soluzione.
L’ipotesi del diritto del contribuente a domandare un rimborso in presenza di una seconda rivalutazione dei beni a lui più favorevole è regolata dall’art. 7, comma 2, lett. ee) e ff), d.l. n. 70 del 2011, ai sensi del quale:
– qualora sia stata già effettuata una precedente rideterminazione, è possibile detrarre dall’imposta sostitutiva dovuta per la nuova rivalutazione l’importo relativo all’imposta sostitutiva versata in dipendenza della prima rivalutazione;
– nel caso in cui il contribuente non scelga la compensazione, egli può chiedere il rimborso dell’imposta sostitutiva già pagata ai sensi dell’art. 38, d.P.R. n. 602 del 1973, entro 48 mesi dalla data del versamento dell’intera imposta o della prima rata relativa all’ultima rideterminazione effettuata.
Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità sostiene[7] che, in tema di imposta sostitutiva sui capital gains, il contribuente, dopo aver effettuato una prima rivalutazione del bene, con conseguente versamento dell’imposta, può chiedere, a seguito del sopraggiungere di una disciplina fiscale più favorevole, una nuova determinazione del valore, qualora il bene sia ancora in suo possesso; in tal caso, ha diritto, nella vigenza dell’art. 7 del d.l. n. 70 del 2011, convertito dalla legge n. 106 del 2011, ad effettuare la compensazione tra la nuova e la precedente imposta, mentre, anteriormente all’entrata in vigore della norma, poteva usufruire solo del rimborso, stante il divieto di doppia imposizione. Se il contribuente, tra la prima e la seconda rivalutazione, ha ceduto una parte dei beni, il diritto al rimborso va determinato facendo riferimento, al fine di calcolarne l’importo, alla precedente imposta versata sull’intero valore del bene posseduto, e non già su quello della sola quota residuata a seguito della parziale cessione, in quanto, atteso il carattere volontario dell’imposta sostitutiva, frutto di una libera scelta del contribuente, va evitata la revoca di una scelta già operata, dopo avere già usufruito dei vantaggi fiscali con la vendita parziale del bene.
Pure nell’assenza di una specifica previsione normativa in materia, quindi, la facoltà di chiedere un rimborso, in presenza di una seconda rivalutazione dei beni più favorevole al contribuente, doveva, in generale, essere riconosciuta da prima del d.l. n. 70 del 2011, perché “deriva dal principio generale del divieto di doppia imposizione”[8].
La S.C. ha, pertanto, affermato che l’importo della prima rivalutazione avrebbe comunque dovuto essere corrisposto per intero, salvo chiederne, poi, il rimborso nei limiti consentiti dalla legge.
Questo sistema, nel quale il controllo della legittimità della detrazione è affidato all’indicazione dei dati opportuni nella dichiarazione dei redditi, non presenta problematiche se la successiva operazione di rideterminazione esprime valori più elevati dei precedenti.
Questioni possono sorgere se dalla seconda rideterminazione emerge un valore inferiore e, quindi, la prima imposta eccede la seconda[9].
La rivalutazione a un valore inferiore al precedente era stata ammessa da una precedente risoluzione dell’Agenzia delle Entrate, la n. 111/E/2010, con la quale era stato concesso di procedere a una rivalutazione di terreni edificabili e agricoli che comportasse l’evidenziazione di un valore inferiore rispetto a quello risultante da una precedente rivalutazione.
Al riguardo, si rileva che, in merito ai terreni, è necessario effettuare dei distinguo rispetto alla fattispecie (qui in esame) delle partecipazioni sociali, in quanto vi sono alcune regole (valore minimo) diverse che portano a considerazioni e comportamenti differenti.
In particolare, la richiamata risoluzione n. 111/E/2010 aveva sostanzialmente affermato che:
-in caso di precedente rideterminazione dei valori, era possibile usufruire della norma agevolativa emanata successivamente, anche ove il valore periziato fosse inferiore a quello risultante dalla precedente perizia;
-a tale fine, era necessario procedere ad una nuova perizia di stima ed al contestuale versamento integrale della nuova imposta sostitutiva che si determinava;
-in ipotesi di rateizzazione della precedente imposta sostitutiva, l’eventuale rata ancora da corrispondere non doveva essere versata;
-era ammessa la richiesta di rimborso dell’imposta precedentemente assolta;
-le perizie dovevano, in ogni modo, essere redatte con le responsabilità di cui all’art. 64 del c.p.c.
L’ordinanza della Corte di cassazione in esame, n. 34502 del 27 dicembre 2019, ripropone l’indirizzo giurisprudenziale innanzi esposto.
La S.C. fonda la sua pronuncia sul disposto del citato art. 7, comma 2, lett. ee) ed ff), del d.l. n. 70 del 2011 (convertito dalla legge n. 106 del 2011), per il quale i contribuenti, che abbiano già versato i tributi relativi alla prima rivalutazione, ed accedano anche alla seconda, possono chiedere il rimborso dell’imposta sostitutiva già pagata, con il limite che l’importo del rimborso non può essere superiore a quello dovuto in base all’ultima rideterminazione del valore effettuata.
In particolare, come in precedenza chiarito dalla giurisprudenza di legittimità[10], in materia di rimborso di quanto versato in occasione della prima rivalutazione, qualora il contribuente abbia ritenuto di avvalersi anche della seconda, ed abbia pagato quel che era dovuto per quest’ultima, “deve ritenersi unicamente esclusa … la possibilità di ottenere il rimborso dell’imposta sulla base del maggior valore stabilito dalla precedente perizia, con un rimborso di imposta maggiore di quella dovuta per l’ultima rideterminazione; il rimborso dell’originaria imposta sostitutiva versata – sulla base, si ripete, di opzione volontaria ed irrevocabile -, per effetto della riapertura dei termini e del nuovo affrancamento reso possibile, nella specie, dal D.L. 203/2005, va riconosciuto, quindi, al fine di evitare il fenomeno della doppia imposizione, ma nei limiti (e non, dunque, in misura superiore) dell’imposta sostitutiva dovuta a seguito della nuova rideterminazione di valore della partecipazione sociale, dovendo la ratio di tale disciplina rinvenirsi nell’intenzione del legislatore di evitare che il contribuente possa ritrattare, revocare la scelta già operata in passato, ciò che non sarebbe coerente con le finalità – di interesse reciproco tra fisco e contribuente – della disciplina in esame”.
L’ordinanza in commento ha seguito questo orientamento, e formulato il principio di diritto riportato nella massima di cui innanzi.
Con riferimento alla specifica vicenda giudiziaria affrontata, la S.C. ha rilevato che il contribuente aveva aderito alla prima rivalutazione, in relazione ad una parte soltanto del patrimonio sociale del quale era titolare, provvedendo, sulla base di una prima perizia di stima del valore, al versamento dell’imposta sostitutiva nella misura dei due terzi.
In seguito, si era avvalso della seconda rivalutazione per l’intera sua partecipazione societaria, corrispondendo, in virtù di una seconda perizia di stima del valore del patrimonio sociale, l’ammontare integrale dell’imposta sostitutiva dovuta.
La Corte di cassazione ha preso atto che, ad avviso dell’Amministrazione finanziaria, ove si fosse riconosciuto al contribuente il diritto al rimborso del versamento d’imposta effettuato per la prima rivalutazione, che attribuiva al patrimonio sociale un valore, unitario e complessivo, maggiore rispetto alla seconda, il contribuente avrebbe lucrato indebitamente il vantaggio conseguente al valore minore riconosciuto nella seconda valutazione, che poteva dipendere da cause legate al suo solo interesse, come ovviare ad una perdita di valore della partecipazione in conseguenza dell’andamento del mercato, da cui il fisco doveva essere tenuto indenne.
Pertanto, la Cassazione, sul presupposto che, in occasione della seconda rivalutazione, il contribuente aveva sottoposto all’imposta sostitutiva l’intero patrimonio sociale del quale era titolare, mentre con la prima aveva versato i 2/3 del tributo in relazione soltanto ad una parte della sua partecipazione, ha ritenuto che, per quanto attiene alla quota di partecipazione assoggettata ad imposizione soltanto con la seconda rivalutazione, la vicenda dovesse considerarsi conclusa.
Invece, per ciò che concerne la quota di partecipazione oggetto sia della prima sia della seconda rivalutazione, ha affermato che doveva essere evitato il fenomeno della doppia imposizione e, dunque, al contribuente spettava il diritto al rimborso, ma soltanto nei limiti di quanto effettivamente versato al tempo della prima rivalutazione, sino a concorrenza del valore di ciò che era stato corrisposto, con riferimento alla medesima quota di partecipazione parziale, “in occasione dell’applicazione dell’imposta sostitutiva conseguente alla seconda rivalutazione”.
[1] Massima ufficiale di Cass., Sez. V, ord. 27 dicembre 2019, n. 34502 (Ced Cass. Rv. 656311 – 01).
[2] Per un inquadramento generale, cfr. G. Zanda – M. Lacchini, Rivalutazioni dei beni aziendali ed utilizzo di poste del patrimonio netto: aspetti economici, civilistici e contabili, Torino, 1993.
[3] Cfr. F. Poddighe – S. Coronella, Possibilità e limiti della rivalutazione economica degli immobili aziendali in caso di deficit patrimoniale, in Riv. dott. comm., 2007, 1, p. 19 ss.
[4] Cfr. F. Piras – A. Mura, Le rivalutazioni da leggi speciali: l’evidenza empirica nei bilanci delle imprese italiane, in Riv. dott. comm., 2015, 1, p. 27.
[5] Per un esame del concetto di cessione in tema di capital gain, cfr. Z. Pecchia, Usufrutto legale e capital gains: la Cassazione si pronuncia, in Dir. prat. trib., 2014, 5, 802 ss.
[6] Cass., Sez. V, ord. 21 febbraio 2020, n. 4659 (Ced Cass. Rv. 657350 – 01); Cass., Sez. 6-5, ord. 10 dicembre 2015, n. 24953 (Ced Cass. Rv. 637643 – 01).
[7] Cass., Sez. V, sent. 12 novembre 2014, n. 24057 (Ced Cass. Rv. 633551 – 01).
[8] Cass., Sez. V, sent. 12 novembre 2014, n. 24057, cit.
[9] Cfr. L. Scappini, Nuova occasione per rideterminazione del valore di terreni e partecipazioni, in Fisco, 2016, 4, p. 340.
[10] Sul punto, è richiamata Cass., Sez. V, ord. 13 luglio 2018, n. 18712 (Ced Cass. Rv. 649620 – 01).
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